OBBLIGHI DI SOCCORSO IN MARE E PROCESSO PENALE – PARTE PRIMA

di Fulvio Vassallo Paleologo

Sommario: 1. Il processo penale come strumento di gestione dei controlli migratori. – 2. Il caso Cap Anamur nel 2004, esito del fallimento della trattativa politica. – 3. Il caso dei pescatori tunisini nel 2007, dissusione dei salvataggi ed omissione di soccorso. – 4. Il caso Iuventa nel 2017, dal “codice di condotta” per le ONG alle intercettazioni di massa . – 5. Il caso Libra: dalla “strage dei bambini” nel 2013 alla sentenza del Tribunale di Roma nel 2022. – 6. Il caso Open Arms nel 2018, archiviazioni e trasferimento delle indagini da Catania a Ragusa: fine processo mai? . – 7. Il caso Sea Watch nel 2019: dall’arresto a Lampedusa all’archiviazione per Carola Rackete: oggetto di una rimozione collettiva.- 8. Il caso Mare Ionio/Maersk nel 2019: oh Malta, oh Malta !. – 9. Dal processo penale ai fermi amministrativi; l’intervento della Corte di Giustizia UE (2019-2022), nessun responsabile – 10 Processo penale e rifiuto di sbarco. Il caso Open Arms nel 2019, un ministro a processo – 11 Naufraghi o dirottatori? Il caso Vos Thalassa nel 2018 davanti alla Corte di Cassazione: la Libia non è un paese terzo sicuro. -12. I divieti di sosta in porto e gli “sbarchi selettivi” della direttiva “Piantedosi” nel novembre del 2022: l’intervento correttivo del Tribunale di Catania. – 13. Il Decreto legge n. 1 del 2023 contro le ONG e i riflessi sul piano penale e amministrativo: ancora fermi amministrativi ? – 14. Il Decreto legge (Cutro) n. 20 del 2023 e l’inasprimento delle sanzioni contro gli scafisti: cosa cambia per il soccorso civile in mare.

1. Il processo penale come strumento di gestione dei controlli migratori.

1.1 Sovranità nazionale contro obblighi di soccorso in mare ?

Di fronte al fallimento delle politiche di blocco delle partenze e di respingimento verso i paesi di transito o di origine, da quasi venti anni, il processo penale è stato utilizzato per contrastare le attività di ricerca e salvataggio in mare operate dalle organizzazioni non governative, la cui presenza nelle acque del Mediterraneo centrale è stata conisderata come un fattore di attrazione (pull factor) rispetto alle persone che tentavano l’attraversamento del Mediterraneo centrale. Si è arrivati persino a ipotizzare una complicità tra gli operatori umanitari e le organizzazioni criminali che gestivano le partenze da paesi nei quali peraltro potevano operare senza che le autorità statali intervenissero per bloccare i traffici illeciti garantendo i diritti delle persone vittime di abusi di ogni genere, come documentato periodicamente dai rapporti delle Nazioni Unite e delle principali agenzie umanitarie.

Attraverso il processo penale, avviato sulla base di notizie di reato formulate dalle forze di polizia dopo gli sbarchi, sulla base di progressive modifiche legislative che criminalizzavano gli interventi umanitari, come i “decreti sicurezza”, si è così cercato di fermare le navi del soccorso civile, con misure di sequestro, in vista di una successiva confisca. Le attività di indagine sui soccorsi civili sono proseguite per anni, anche nel corso dei procedimenti penali che venivano avviati in diverse procure siciliane, sulla base di una quantità enorme di intercettazioni, sulle quali si è cercato di fondare prove che nella maggior parte dei casi si sono dissolte quando sono arrivate all’esame della magistratura giudicante, con numerosi provvedimenti di archiviazione. E’ prevalsa ovunque la considerazione che i soccorritori avessero adempiuto ai doveri previsti dalle fonti nazionali e sovranazionali, che impongono agli Stati e ai comandanti delle imbarcazioni tutte, pubbliche e private, il salvataggio delle vite umane in mare.

L’onda mediatica che ha accompagnato questi procedimenti ha datto rilievo soprattutto alle accuse formulate da alcune Procure contro le Organizzazioni non governative, i comandanti delle navi, i capomissione, in qualche caso adirittura i componenti dell’equipaggio, mentre sono stati lasciati nell’ombra tutti quegli elementi documentali che emergevano dagli atti di indagine e che permettevano di ricostruire la fitta rete di rapporti tra le autorità italiane ed europee con i governi o con le autorità militari dei paesi dai quali partivano le traversate verso le coste italiane. Solo in poche occasioni, quando i procedimenti penali non sono stati bloccati dal Parlamento (come nei casi Diciotti e Gregoretti), si è riusciti ad indagare sulle responsabilità istituzionali dei vertici politici e militari che, per impedire gli sbarchi dei naufraghi in Italia, si rendevano responsabili di provvedimenti di divieto di ingresso nelle acque territoriali o nei porti nazionali, oppure che omettevano di assumere il coordinamento dei soccorsi in acque internazionali. Scelte politiche non direttamente imputabili ai livelli operativi intermedi dei corpi dello Stato, come la Guardia costiera o la Marina militare, che comunque, nei limiti loro posti dalle politiche di governo, continuavano a soccorrere le persone in difficoltà in mare e, fino alla metà del 2017, in pratica fino all’imposizione del cd. Codice di condotta Minniti, si avvalevano delle attività di ricerca e salvataggio delle Organizzazioni non governative.

La violazione sistematica degli obblighi di salvataggio in mare, imposti dal diritto internazionale e dalla normativa euro-unitaria, frutto anche degli accordi con i Paesi di transito, come la Libia, nei quali le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di persone godono di una vasta area di impunità, viene giustificata generalmente con le esi-
genze di garantire la sicurezza pubblica, per contrastare l’immigrazione irregolare, e per “difendere i confini nazionali”. Queste posizioni, non emergono solo in Parlamento, ma sono ormai entrate nelle aule dei tribunali, e dominano la comunicazione pubblica, incidendo sul consenso elettorale, e dunque sulla composizione dei corpi legislativi dello Stato. Fino al punto di negare la effettività delle norme di diritto internazionale che obbligano gli Stati costieri a coordinarsi per garantire ai naufraghi salvataggi tempestivi e porti di sbarco sicuro, in modo anche di dare accesso a procedure eque di protezione, o di asilo, a tutti coloro che tentano di raggiungere la frontiera di un Paese nel quale chiedere protezione. Un diritto previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, che non può essere compresso da esigenze politiche di sbarramento delle frontiere, come è confermato dall’art. 33 della stessa Convenzione che vieta in qualunque caso il respingimento verso i confini di territori in cui la vita o la libertà sarebbero minacciate per motivi di razza, di religione, di cittadinanza, di appartenenza ad un gruppo sociale, o per le oipinioni politiche. Questo principio vale non soltanto per i rifugiati ma anche per tutti i potenziali richiedenti asilo e limita il potere sovrano dello Stato di impedire l’ingresso irregolare degli stranieri nel proprio territorio. E nei processi contro le Organizzazioni non governative che hanno operato soccorsi in acque internazionali tende a sfumare la tradizionale tra potenziali richiedenti asilo e migranti economici, anche perchè vengono in evidenza le condizioni di gravi abusi a cui tutti i naufraghi soccorsi in mare sono stati sottoposti nei periodi di attesa prima dell’imbarco per la traversata del Mediterraneo. Sotto questo profilo si rileva come da tempo la Giurisprudenza, malgrado i tentativi governativi di cancellare le forme complementari di protezione, riconosca il diritto alla protezione speciale anche a persone che provengono da paesi terzi sicuri ma che nei paesi di transito e in particolare in Libia, abbiano subito trattamenti inumani o degradanti. La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 23355 del 24 agosto 2021, ha stabilito che il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari costituisce una misura atipica e residuale volta ad abbracciare situazioni in cui non puo’ disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in condizioni di vulnerabilità, da valutare caso per caso, anche considerando le violenze subite nel paese di transito e di temporanea permanenza del richiedente, potenzialmente idonee, quali eventi in grado di ingenerare un forte grado di traumaticità, ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona (v. Cass. n. 13096 del 2019)“. Sarà ben difficile che le recenti modifiche legislative che di fatto cancellano la protezione speciale (come si definisce adesso il vecchio istituto della protezione umanitaria) possano comportare un capovolgimento di questo consolidato indirizzo giurisprudenziale, considerando che le decisioni dei giudici favorevoli al riconoscimento di un regime di protezione alle persone abusate nei paesi di transito, e dunque in condizioni di particolare vulnerabilità, costituiscono applicazione dell’articolo 10 della nostra Costituzione.

Intanto, di fronte alla crescita esponenziale degli arrivi via mare in Italia, sembra calato il silenzio sui procedimenti penali intenttati contro le ONG, e persino sul processo in corso a Palermo nei confronti dell’ex ministro dell’interno Salvini, a parte sporadiche sparate giornalistiche, alla fine delle udienze, che corrispondono ancora ad evidenti esigenze di comunicazione con il proprio elettorato. Eppure, attraverso le regisltrazioni di Radio Radicale, tutti potrebbero farsi un opinione diretta della valenza dei processi penali in materia di soccorsi in mare. Ma se questo avviene per il proceso Open Arms a Palermo, nel quale sul banco degli imputati siede un ex ministro, per i procedimenti penali intentati contro le ONG prevale il regime di segretezza, non essendosi ancora arrivati a provvedimenti di rinvio a giudizio, salvo due casi, a Trapani ed a Ragusa, nei quali non è stato però consentito il ricorso alle videoregistrazioni. Eppure sono proprio i processi penali contro le ONG, pochi quelli ancora in corso, ed i procedimenti che si sono chiusi con una decisione di archiviazione, oltre una dozzina, che nel tempo hanno spazzato via tutte le tesi che sono state proposte da parti politiche di segno diverso per criminalizzare l’operato dei soccorritori e ridurre al silenzio testimoni, operatori dell’informazione e cittadini solidali.

1.2, Quale giurisdizione in acque internazionali ?

La suddivisione del Mediterraneo centrale in distinte zone di ricerca e salvataggio (zone Sar) affidate alla responsabilità degli Stati costieri è stata funzionale alle politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera perché ha permesso ad alcuni Stati costieri come Italia e Malta di ritirare gli assetti navali militari presenti in precedenza in acque internazionali, si pensi alla missione italiana Mare Nostrum nel 2014 ed alla operazione Triton di Frontex nel 2015, per garantire uno svolgimento più tempestivo delle operazioni di ricerca e salvataggio in acque internazionali. La residua presenza militare italiana in acque internazionali ( oggi missione Mediterrneo sicuro) è stata finalizzata alla vigilanza pesca ed al controllo del trafico commerciale, senza svolgere attività SAR ( di ricerca e salvataggio), se non in casi eccezionali. I guardiacoste libici hanno avuto così una totale libertà di azione non solo nelle loro acque territoriali, ma anche in acque internazionali, fino a decine di miglia dalla costa, tanto da arrivare a minacciare, non solo le navi umanitarie impegnate in operazioni di ricerca e salvataggio, ma, ancora di recente, le attività di pesca in alto mare dei pescherecci italiani. Si è così verificata una sinergia tra la dissuasione operata dalle autorità italiane nei confronti delle attività di ricerca e salvataggio svolte dalle Organizzazioni non governative e l’atteggiamento sempre più minaccioso delle diverse autorità libiche che però non garantivano porti sicuri di sbarco e quindi una effettiva attività di soccorso nella vastissima area di ricerca e salvataggio da loro dichiarata nel giugno del 2018, a seguito, evidentemente, del Memorandum d’intesa tra Italia e governo di Tripoli del 2 febbraio 2017. Le zone SAR, che sono aree di responsabilità per garantire il salvataggio delle persone e la sicurezza delle attività in mare si sono trasformate in spazi di giurisdizione, malgrado la fondamentale sentenza di condanna dell’Italia sul caso Hirsi, pronunciata nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, avesse riconosciuto l’estensione della giurisdizione statale anche in acque internazionali, in alto mare, ovunque le autorità nazionali assumessero decisioni che incidevano sulla vita e sulla libertà delle persone in pericolo.

Anche il governo maltese ha concluso accordi che consentono ai libici di effettuare intercettazioni in acque internazionali nella vastissima zona Sar maltese. Intercettazioni che avvengono in zone che ricadono sotto la vigilanza degli assetti aerei di Frontex e della missione navale europea Eunavfor Med- IRINI.

In diverse occasioni gli Stati costieri hanno così rifiutato di assumere il coordinamento di eventi di ricerca e soccorso al di fuori delle aree di propria competenza, limitandosi semmai ad operare secondo le modalità di monitoraggio e contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement) , per non essere poi costretti ad indicare alle imbarcazioni soccorritrici un porto sicuro di sbarco (Pos- Place of safety) nel proprio territorio. Le conseguenze le abbiamo verificate da anni, con una accekerazione impressionante nei periodi in cui aumentavno le partenze per effetto del peggioramento della situazione nei paesi dai quali provenivano i migranti. Come si sta verificando nel 2023, per effetto del sisma in Turchia ed in Siria, per le crescenti tensioni all’interno del Libano, per l’esplosione del conflitto civile in Sudan, con un effetto domino già verificabile da mesi in tutta la regione sub-sahariana, per l’ulteriore deterioramento delle condizioni di vita dei migranti intrappolati in Libia, e per la persecuzione alla quale sono sottoposti i migranti subsahariani bloccati in Tunisia. Circostanze queste ultime, nascoste dai grandi media e dai principali partiti, ma che sono emerse anche all’interno di procedimenti penali in Italia, malgrado il progressivo ampliamento della lista dei “paesi terzi sicuri”.

1.3 I processi sui casi di soccorso in mare come “processi politici

La commistione tra determinazioni amministrative “a fini politici”, la “difesa dei confini” dello Stato, con l’applicazione di norme penali, ha assunto un rilievo ancora maggiore quando davanti ai giudici, sul banco degli imputati, potevano finirci i decisori politici. Ed ha permesso di escludere la responsabilità penale prima ancora di accertare nel procedimento, chiuso con un “non luogo a procedere”, la ricorrenza degli elementi costitutivi delle fattispecie di reato contestate al ministro. Oppure quando c’è stato un rinvio a giudizio, come nel caso Open Arms/Salvini a Palermo, si assiste quasi al capovolgimento, non solo mediatico, dei rapporti tra accusa e difesa, e sembra che sul banco degli imputati si trovino le Organizzazioni nnon governative dalle quali sono partite le denunce per il rifiuto di atti di ufficio. Mentre nei confronti delle ONG, come nel caso Iuventa a Trapani, o nel caso Open Arms a Ragusa, sono rimasti aperti all’infinito procedimenti penali nei quali gli elementi probatori risultavano da atti di impulso amministrativo o da intercettazioni telefoniche dalle quali emerge soltanto, in materia di soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, il contrasto tra le ONG e le autorità di di coordinamento, se non casi di mancato coordinamento, da parte delle autorità militari italiane, frutto di ben precise scelte dell’esecutivo,. In aperta violazione del disposto delle Convenzioni internazionali che stabiliscono obblighi di salvataggio e sbarco in un porto sicuro. Convenzioni che, unitamente alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, avrebbero dovuto avere un ruolo sovraordinato rispetto alle determinazioni politiche ed amministrative delle diverse autorità statali, per effetto degli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione italiana.

Il processo penale è stato così utilizzato come strumento di governo delle migrazioni, e come ennesima manifestazione di un populismo giudiziario che ha trovato protagonisti e comparse anche all’interno della magistratura, e soprattutto nel caso delle autorizzazioni a procedere negate dal Parlamento per i procedimenti Gregoretti e Diciiotti, è diventato occasione di assestamento dei rapporti tra potere esecutivo e organi giurisdizionali. Il ruolo dei mezzi di informazione è stato martellante ed in molti casi ha allontanato l’opinione pubblica dalla reale percezione dei fatti. Ancora oggi questo populismo mediatico rischia di avere effetti nefasti anche all’interno delle aule dei tribunali, soprattutto sui giudici popolari, ed intaccare il principio di legalità che presuppone l’uguaglianza di tutti gli imputati davanti alla legge. Come si potrebbe verificare a Palermo, dopo le archiviazioni dei casi Diciotti e Gregoretti, e dopo la sfilata dei ministri del precedente governo, chiamati in causa da Salvini per affermare la natura collegiale delle scelte “politiche” sul caso Open Arms, con l’argomento difensivo ( e diversivo) della presenza di un sommergibile italiano nell’area dei primi soccorsi, nell’agsto del 2019, che avrebbe documentato comportamenti irregolari da parte degli operatori umantari, senza però intervenire nelle attività SAR, neppure a livello di comunicazione. Un vero argomento di distrazione di massa, ci si augura non del collegio giudicante, trattandosi di eventi anteriori alla fase critica oggetto dei capi di imputazione del procedimento penale a carico dell’ex ministro dell’interno, che si incentrano sul reiterato divieto di sbarco dopo una sentenza di un Tribunale amministrativo, del 14 agosto 2019, fino al 19 agosto, nei giorni successivi nei quali la Open Arms si trovava ormeggiata davanti al porto di Lampedusa, nell’impossibilità di proseguire una eventuale navigazione per le avverse condizioni meteo. Alla fine lo sbarco dei naufraghi si verificava soltanto dopo la visita a bordo e il provvedimento di sequestro della nave da parte della Procura di Agrigento.

L’uso della discrezionalità politica nel controllo delle frontiere marittime e nell’attività di respingimento dei confronti di imbarcazioni che avevano svolto attività di ricerca e salvataggio, come nel caso Cap Anamur nel 2004, oppure nei confronti di imbarcazioni cariche di migranti che chiamavano soccorso mentre erano a rischio di affondare, come si è verificato negli anni più recenti, costituisce dunque il perno costante delle diverse politiche migratorie dei governi che si sono succeduti nel tempo a partire dalla fine del secolo scorso. Da queste scelte politiche e legislative, ma anche da un uso distorto della discrezionalità amministrativa, sono scaturiti i procedinenti penali che riguardano i soccorsi in mare. Soltanto nel 2014 si può registrare una pausa di queste politiche di “non intervento”, se non di respingimento collettivo, con l’operazione Mare Nostrum, seguita alle grandi stragi del 3 e del 11 ottobre del 2013, nelle quali centinaia di persone perdevano la vita per effetto di ritardi ingiustificabili negli interventi da parte delle autorità marittime degli Stati più direttamente coinvolti. Nel 2014 infatti, la Guardia costiera e la Marina militare italiana procedevano al soccorso delle persone rinvenute in pericolo di vita in acque internazionali a prescindere dalle condizioni di galleggiabilità dei mezzi sui quali si trovavano e della zona specifica nella quale avveniva il loro ritrovamento, senza distinzione tra la zona di ricerca e salvataggio (SAR) affidata a Malta e la zona di ricerca e salvataggio (SAR) affidata l’Italia, in un periodo nel quale ancora non esisteva una zona di ricerca e salvataggio (SAR) di competenza “libica”. Ammesso che di una Libia come Stato unitario si possa parlare ancora oggi. Con la fine dell’operazione Mare Nostrum riprendevano le stragi in mare, culminate nel naufragio del 18 aprile 2015, nel quale a sud di Lampedusa perdevano la vita oltre 1000 persone. Dopo quella strage, per un breve periodo, i mezzi di Frontex intensificarono le loro attività di ricerca e salvataggio e fino al mese di luglio di quell’anno il numero delle vittime calò bruscamente, per riprendere a salire quando gli Stati costieri e la stessa agenzia Frontex, per mutati indirizzi politici a livello europeo, ritiravano dal Mediterraneo centrale la maggior parte dei mezzi navali di soccorso.

Seguiva quindi una fase (2016-2017) nella quale le attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali venivano sostanzialmente affidate ad un numero crescente di unità inviate dalle organizzazioni non governative, fase che terminava bruscamente nel luglio/agosto del 2017 con la simultanea adozione del cosiddetto Codice di condotta Minniti, che avrebbe dovuto regolamentare le attività di ricerca e salvataggio delle organizzazioni non governative, e per effetto dell’avvio di processi penali nei confronti di alcuni esponenti di queste stesse organizzazioni, accusati di svolgere attività di favoreggiamento dell’immigrazione illegale (caso IUVENTA). Anche se fino a quel momento tutte le loro attività si erano svolte nel quadro di una programmazione coordinata con le autorità marittime italiane, che dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum continuavano a cooperare con le Ong, avvalendosi persino di alcune unità navali di Frontex, contribuendo al salvataggi di decine di migliaia di persone.

Le politiche migratorie, che non si possono ridurre al termine di “controllo (se non gestione) dei flussi migratori ”, pure utilizzato impropriamente dal legislatore italiano nel Decreto legge n.1 del 2023, rimangono così al centro di procedimenti penali ancora aperti, anche se si sta estendendo il ricorso a misure sanzionatorie di carattere amministrativo, visto gli scarsi esiti, dal punto di vista del ridimensionamento delle attività del soccorso civile, dei procedimenti penali. Si moltiplicano le misure di tipo amministrativo, come i sequestri e le confsche affidate ai prefetti, organi eriferici del ministero dell’interno, dopo le Direttive dei ministri ed i fermi amministrativi, che i governi cercano di utilizzare sottraendosi alla giurisdizione penale, moltiplicando gli attacchi contro le Ong attraverso Guardia costiera, Capitaneria di Porto e Prefetture.

1.4 Strage di Cutro, strage di Stato o processi soltanto contro gli “scafisti” ? Il soccorso civile di nuovo sotto attacco.

Dopo la strage di Cutro, e le pesanti accuse rivolte da più parti a chi non ha coordinato tempestivamente le attività di soccorso prima e dopo il tragico schianto del caicco proveniente dalla Turchia, ma anche dopo una serie di “incidenti” nel Canale di Sicilia, ed a nord delle coste libiche, sta ripartendo un attacco politico-mediatico contro i soccorsi operati da navi civili. Navi anche di piccole dimensioni, finanziate dalla società civile, già colpite dal Decreto legge n.1 del 2023 che, intitolato falsamente sulla “gestione dei flussi migratori”, che nulla c’entrano con i soccorsi in mare, mirava esclusivamente a criminalizzare le attività di ricerca e salvataggio ancora operate dalle ONG presenti nel Mediterraneo centrale, imponendo porti di sbarco lontanissimi, con una evidente finalità dissuasiva, con pesanti pene pecuniarie e nuove possibilità di sequestro e confisca delle navi umanitarie. Si può dire adesso compiuta una svolta radicale, rispetto a quanto avveniva fino al 2017, nel rapporto tra soccorso civile e sistema istituzionale di ricerca e salvataggio in mare, centrato sui comandi della Guardia costiera (Centro di coordinamento dei soccorsi – IMRCC) e della Marina militare (CINCNAV). Che oggi diventano i principali accusatori degli operatori umanitari impegnati a soccorrere vite umane in acque internazionali, in aree nelle quali spesso le autorità statali, soprattutto quelle maltesi, hanno dimostrato di non arrivare ad effettuare la doverosa attività di ricerca e salvataggio (SAR). Perchè sono tante le vittime di zone SAR, zone di ricerca e salvataggio (search and rescue) istituite dagli Stati e riconosciute dall’IMO (Organizzazione internazionale del mare) per salvare persone in pericolo (distress) e non per contrastare quella che si continua a definire soltanto come “immigrazione clandestina”. Eppure dal 2015 al 2017 le navi del soccorso civile avevano svolto un ruolo essenziale per la salvaguardia della vita umana nelle acque del Mediterraneo centrale.

Nel 2017 le imbarcazioni delle Ong erano stabilmente inserite nel dispositivo di soccorso della Guardia costiera italiana, come si evince dai Rapporti annuali delle Capitanerie di porto. E si operavano anche 30 interventi in una giornata con una piena collaborazione tra unità civili e militari. Migliaia di persone che si potevano sbarcare in diversi porti, a rotazione, senza impegnare troppo a lungo le navi per trasferimenti vessatori, ma con un rapido ritorno nelle aree di soccorso. Tutto il contrario di quanto avviene adesso, con una situazione che a Lampedusa diventa esplosiva, perchè il vuoto che hanno fatto nella zona SAR libica, ed in quella maltese, dopo l’allontanamento delle ONG, ed il ritiro degli assetti navali europei, ha moltiplicato il numero dei barconi che puntano sulle coste italiane più vicine, dunque le isole delle Pelagie, ed arrivano in autonomia, se non fanno naufragio prima..

Ad esempio il 25 giugno 2017 venivano operati 31 interventi di soccorso con 3377 naufraghi salvati, ma già prima, il 6 maggio dello stesso anno erano stati operati 32 interventi di soccorso con 3579 naufraghi salvati .Gli stessi numeri di oggi. Essenziale in quel periodo il supporto operativo delle navi delle ONG, che nel 2017 salvavano 46601 naufraghi, a fronte di 28814 soccorsi dalla Guardia costiera, e circa 18000 persone soccorse da Frontex ed Eunavfor Med. Oggi Frontex ha ritirato quasi tutti gli assetti navali, e le unità della missione Eunavfor Med, che adesso viene denominata operazione IRINI, si limitano a tracciare le imbarcazioni che partono dalla Libia ed a collaborare con la sedicente Guardia costiera libica.

Questo ruolo di coordinamento, da parte delle autorità italiane, della sedicente Guardia Costiera Libica risulta particolarmente evidente nel 2017 e nel 2018 ed è accertato anche da una importante decisione del giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Catania nel caso Open Arms del 2018.

1.5 La finzione della zona di ricerca e salvataggio (SAR) “libica”.

Nei procedimenti penali in materia di soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, la questione della ripartizione delle zone di ricerca e salvataggio (SAR) tra Italia, Malta, Libia e Tunisia ha sempre assunto un rilievo centrale, fin dai tempi del processo Cap Anamur nel 2004. Il” punto di svolta nelle attività di ricerca e soccorso del Mediterraneo centrale è dato dalla istituzione nel giugno del 2018 di una zona di ricerca e salvataggio (SAR) libica come spazio di dissuasione dei soccorsi delle ONG, affidata quindi alle autorità di Tripoli che già allora, ma ancora oggi, non riescono a garantire l’intero controllo del territorio nazionale. I diversi governi provvisori che si sono succeduti a Tripoli negli ultimi anni hanno dimostrato gravi difficoltà a gestire la loro Marina Militare e la sedicente Guardia costiera “libica” il cui “coordinamento” è stato per lunghi anni affidato di fatto all’Italia, attraverso la missione Nauras con base nel porto militare di Tripoli. Questo coordinamento sembra ormai saltato ed attualmente sembra affidato, almeno in parte, alle autorità turche che nel 2020 hanno istituito una loro base navale in Tripolitania nella cittadina portuale di Khoms. Sono queste le ragioni che dovrebbero impedire alle autorità marittime italiane di indicare la sedicente Guardia costiera libica come autorità competente per svolgere attività di soccorso in una zona Sar “libica” che si presenta come uno spazio nel quale si realizzano respingimenti su delega italiana, ed europea, ma che non garantisce tempestive attività di ricerca e salvataggio. La presenza della missione europea Eunavfor Med IRINI non ha assicurato efficaci interventi di soccorso, lo confermano i dati ufficiali, e la stessa considerazione si puo’ fare per la missione italiana Mare Sicuro, oggi ribattezzata Mediterraneo Sicuro, pure presente con diverse navi militari ai limiti di quella stessa area, per garantire la sicurezza delle attività di pesca, oggetto di una perenne contesa commerciale tra i diversi paesi del Mediterraneo.

1.6 Conflitto di attribuzioni tra Corpo delle Capitanerie di Porto e Marina militare ?

Sembra anche in corso uno scontro per le attribuzioni di coordinamento tra Ministero dell’interno e Ministero della difesa, al punto che il ministro della difesa Crosetto vorrebbe acquisire le competenze sulle centrali operative che coordinano i soccorsi. Manovra non riuscita con l’articolo 10 del Decreto legge n.20 del 2023, poi espunto, che trasferiva poteri dal Corpo delle Capitanerie di porto ai comandi della Marina militare, ma che oggi si ripropone all’interno del confronto politico in corso tra le forze di governo. I procedimenti penali che si sono chiusi con le condanna di alti ufficiali della Guardia costiera e della Marina militare, responsabili di importanti centrali di coordinamento, ed in parte anche i documenti acquisiti nel corso dei procedimenti contro le ONG, in gran parte archiviati, hanno permesso di ricostruire catene di comando assai ramificate, e già interconnesse al loro interno, almeno ai livelli intermedi,, che sembrano oggi in lotta tra loro.

Diversi corpi dello Stato , seppure in competizione tra loro, operano così per “fare fuori” le Ong che hanno fatto troppe denunce per mancato coordinamento dei soccorsi e rimangono comunque scomode testimoni, nei casi di intercettazioni in acque ionternazionali, della collusione con Frontex ed i guardiacoste che partono dalla Tripolitania. Si arriva al punto di escludere che i naufraghi soccorsi in alto mare fossero in una situazione di pericolo (distress). O si ipotizza che le attività di soccorso delle ONG esporrebbero a pericolo i naufraghi, mentre sono nascoste le vittime degli interventi di soccorso operati con il coinvolgimento di grosse navi commerciali o di pescherecci che non dispongono di attrezzature idonee per attività di soccorso di massa. Dove non arrivano i processi in Italia ed i colpi di proiettile esplosi dalle motovedette libiche, con la pratica dei fermni amministrativi e con l’assegnazione di porti di sbarco “vessatori” arriva la burocrazia italiana al servizio della politica della “tolleranza zero” contro i soccorsi umanitari.

Il ministro delle infrastrutture e la Guardia costiera che è sotto i suoi comandi operano per screditare le Ong che si sono permesse di denunciare l’ex ministro dell’interno, e che non sono state mai condannate nei numerosi procedimenti penali aperti dalla magistratura nei loro confronti. E magari anche per rafforzare la traballante difesa di Salvini nel processo di Palermo, dove sta riuscendo il capovolgimento dei ruoli processuali con l’avvocato della difesa che, con le sue argomentazioni diversive, si sostituisce alla Procura per portare sul banco degli accusati la Ong, che con una serie di esposti aveva denunciato il ministro nel 2019.

1.7 Ricaduta dei più recenti decreti legge del governo Meloni sui procedimenti penali in corso.

Le previsioni normative adottate con il Decreto legge n.1 del 2023, smentiscono comunque le basi della difesa di Salvini nel processo Open Arms a Palermo, che si gioca per intero su una interpretazione distorcente dell’art.19 della Convenzione UNCLOS e quindi sulla legittimità del divieto di ingresso imposto dall’ex ministro dell’interno nell’agosto del 2019, anche dopo il decreto del TAR Lazio che ne sospendeva l’efficacia. Nel nuovo decreto, adesso convertito in legge, si riconosce infatti, come peraltro impongono le Convenzioni internazionali di diritto del mare ed il Regolamento Frontex n.656 del 2014, che il transito attraverso le acque territoriali per sbarcare i naufraghi in un porto sicuro ha carattere di passaggio “non inoffensivo” e si accantona la tesi difensiva della competenza dei soccorsi in acque internazionali in capo allo Stato di bandiera della nave soccorritrice, Poi, nello stesso decreto legge, con un autentica piroetta logica, si dettano le condizioni per vietare l’ingresso in porto della nave del soccorso civile che abbia operato in modo “non occasionale” ed abbia effettuato “soccorsi plurimi”. In ogni caso si estende l’area di responsabilità delle autorità italiane in acque internazionali e si riconoscono in capo a queste ultime precisi obblighi di garantire un porto sicuro di sbarco in Italia. Anche se si vorrebbe imporre che la nave socorritrice abbia effettuato un unico intervento di ricerca e salvataggio. Una previsione che va contro gli obblighi di soccorso imposti dalla Convenzione UNCLOS, dalla Convenzione di Amburgo, dai Regolamenti europei, e persino dal Codice della Navigazione italiano che sanziona l’omissione di soccorso. In base all’art.1113 Cod. Nav. “Il comandante di nave, di galleggiante o di aeromobile nazionali o stranieri, che omette di prestare assistenza ovvero di tentare il salvataggio nei casi in cui ne ha l’obbligo a norma del presente codice, è punito con la reclusione fino a due anni“, salvo pene più gravi nei casi in cui dal fatto derivino morte o lesioni personali per i naufraghi. Una norma che si applica anche in acque internazionali, ovunque si estenda la giurisdizione italiana, come è stato accertato dai giudici del Tribunale di Roma nel “caso Libra”, relativo alla” strage dei bambini” dell’11 ottobre 2013.

Le accuse che si rilanciano oggi contro le Organizzazioni del soccorso civile sono prive di fondamento, anche se non si può escludere che qualche procura ritorni ad aprire procedimenti penali contro gli operatori umanitari. Non si può parlare di “intralcio” delle attività SAR, di ricerca e salvataggio, se si trasmettono molte richieste di aiuto in giornate in cui si verificano decine di eventi. I comandanti delle navi, e chiunque sia a conoscenza di persone in pericolo in mare, sono obbligati a chiamare la Centrale operativa della Guardia costiera (IMRCC) per sollecitare il coordinamento dei soccorsi. In passato le Ong sono state messe sotto accusa, con denunce poi archiviate, perchè non avvertivano tempestivamente le Centrali operative, adesso che lo fanno, come lo hanno sempre fatto, secondo quanto previsto dalla Convenzione SAR di Amburgo, dal Manuale internazionale IAMSAR, e dal Piano SAR nazionale del 2020, sono di nuovo messe sotto accusa perchè “intralcerebbero i soccorsi”. Una sfida al principio di realtà. Un’accusa infamante che si ritorcerà contro chi la sta diffondendo.

Gli argomenti addotti per attaccare le ONG, perchè opererebbero troppi interventi di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali “per portare i migranti in Italia”, o metterebbero in salvo a bordo troppi naufraghi, rispetto alla capienza dei loro mezzi, non sono neppure tanto nuovi e da tempo la giustizia internazionale ne ha smentito le basi.. Già la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ne ha dimostrato l’infondatezza, ponendo un limite alla prassi dei fermi amministrativi inaugurata dalla ex ministro dell’interno Lamorgese e proseguita fino agli ultimi giorni del governo Draghi, con il fermo amministrativo della Sea Watch 3 a Reggio Calabria il 23 settembre del 2022. Una politica soft di contrasto dei soccorsi civili, in violazione del diritto internazionale ed eurounitario, con l’uso improprio delle “navi quarantena” ed il Viminale che imponeva lunghi tempi di attesa prima dello sbarco, sulla base della distinzione tra “eventi migratori” ed “eventi di soccorso” (SAR), una prassi che già negli anni scorsi avrebbe dovuto essere oggetto di denuncia davanti alle corti internazionali, se non intervenivano i tribunali italiani. Ma su questo terreno si è registrata una linea più morbida da parte delle Organizzazioni non governative, che hanno preferito attendere giorni pendolando tra Malta e la Sicilia prima di ottenere un porto di destinazione, che le autorità mimisteriali si sono ben guardate dall’assegnare come Place of safety (POS), circostanza che avrebbe comportato il riconoscimento delle attività di ricerca e salvataggio operate dalle stesse ONG. L’azione del soccorso civile si è andata così indebolendo, già prima dell’insediamento del nuovo governo Meloni, ed i costi sono lievitati enormemente, con la conseguenza che le missioni di soccorso operate da navi umanitarie nel Mediterraneo centrale si sono rarefatte. E sono aumentate le intercettazioni operate dalle motovedette donate alla Libia e conseguentemente le vittime in mare, e nei centri di detenzione nei quali dopo essere stati intercettati in acque internazionali, i naufraghi venivano rinchiusi ancora una volta.

1.8 Gli effetti (mancati) della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 2 agosto 2022 in materia di fermi amministrativi.

Per i giudici europei, e secondo la logica del diritto, non disgiunta da un minimo di umanità, non possono essere considerati “passeggeri” i naufraghi che vengono soccorsi in mare, dunque non si posono stabilire limiti alle persone che si imbarcano a bordo, e solo il comandante puà decidere quando interrompere una attività di salvataggio. Gli Stati di bandiera non posono essere chiamati a coordinare attività SAR, coordinamento che spetta agli Stati costieri più vicini, Le navi delle ONG non possono essere quindi costrette, comunque, a dotarsi di ulteriori certificazioni dello Stato che è obbligato a garantire il porto di sbarco (POS), certificazioni che in passato le autorità italiane hanno invece richiesto a loro discrezione come pretesto per giustificare i fermi amministrativi. Adesso con il Decreto legge n.1 del 2023 si sono inventati nuovi pretesti per giustificare i fermi amministrativi, come il divieto di soccorsi “multipli”, ma presto se ne occuperanno i tribunali, e se necessario si ritornerà davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

2. Il caso Cap Anamur, esito del fallimento di una trattativa politica

2.1 Il primo processo alla solidarietà in mare, dopo gli arresti cinque anni di udienze.

Il Tribunale di Agrigento nell’udienza del 7 ottobre 2009 pronunciava una sentenza di assoluzione con formula piena “perché il fatto non costituisce reato” nei confronti di Elias Bierde , del comandante Schmidt e del suo secondo, imputati di agevolazione dell’ingresso di clandestini dopo avere soccorso, nel giugno 2004, 37 naufraghi alla deriva cento miglia a sud di Lampedusa. Veniva anche disposto il dissequestro del deposito cauzionale che era stato versato dopo il sequestro della nave, restituita al comitato Cap Anamur e poi venduta. Il messaggio chiaro della sentenza va oltre il riconoscimento della causa di giustificazione prevista dall’art. 54 del Codice penale, essendosi verificati gli estremi di un soccorso in stato di necessità, gli Stati devono rispettare il diritto internazionale del mare, che vieta anche i respingimenti collettivi, ed il divieto di refoulement affermato dalla Convenzione di Ginevra.

Dopo anni di indagini, e dopo la audizione di numerosi testimoni, tutte le accuse formulate dalla Polizia giudiziaria e dalla Procura di Agrigento sono risultate destituite di ogni fondamento. E’ caduta la iniziale ipotesi accusatoria della forzatura del blocco navale che era stato imposto alla Cap Anamur, tenuta per due settimane al largo delle coste siciliane per decisione del governo italiano, dopo il fallimento delle trattative con il governo tedesco per il trasferimento dei naufraghi in Germania. Si riconosceva invece la situazione di stato di urgenza e necessità, determinata a bordo della nave da una così lunga permanenza dei naufraghi, ai quali venivano impediti lo sbarco e la possibilità di fare valere la loro richiesta di asilo o di protezione umanitaria. E’ apparsa inoltre evidente la pretestuosità della ricostruzione dei fatti che – per contestare le aggravanti derivanti dalla ipotesi associativa- è giunta a coinvolgere anche il “secondo di bordo”, soggetto del tutto privo di autonoma capacità decisionale sulla condotta della nave, rimessa esclusivamente ai poteri del comandante. In questa prospettiva risultava ancora più ingiustificata la carcerazione preventiva imposta agli imputati nei primi giorni dopo lo sbarco.

Il Tribunale di Agrigento richiama le fonti internazionali che definiscono l’obbligo degli Stati costieri di assegnare un porto di sbarco sicuro al termine di una operazione di soccorso svolta sotto il loro coordinamento. Ocorre tenere presente che al tempo dei fatti non era stata ancora dichiarata una zona SAR ( di ricerca e salvataggio) “libica” e che nel corso del 2004, l’Organizzazione internazionale del mare (OIM) integrava le linee guida di condotta per le attività di ricerca e salvataggio in mare, già dettate dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare..

Con le linee guida adottate in sede Imo è stato definito chiaramente il concetto di Place of Safety (POS), definito in particolare con la risoluzione MSC 167 adottata il 20 maggio 2004. Il Place of safety è definito come la località in cui le operazioni di soccorso si considerano concluse e dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non sia minacciata, dove le necessità umane primarie siano soddisfatte e possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti della destinazione finale. Il Tribunale di Agrigento richiama espressamente le linee guida IMO secondo cui lo stato responsabile per la regione SAR in cui sono stati recuperati i sopravvissuti deve occuparsi di fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito nel tempo più breve ragionevolmente possibile. Lo stesso Tribunale richiama le linee guida che stabiliscono espressamente che la nave soccorritrice costituisce soltanto un place of safety di natura temporanea e che la nave debba essere liberata nel tempo più breve possibile dal peso di gestire le persone soccorse.

2.2 Le motivazioni della sentenza di assoluzione

Le motivazioni della sentenza di assoluzione mettono bene in evidenza le responsabilità di chi volle montare il caso a livello politico internazionale per lanciare un messaggio dissuasivo verso gli interventi di salvataggio, un messaggio che negli anni successivi ha comportato migliaia di morti. Le stesse motivazioni enunciano principi di diritto, come l’obbligo di condurre i naufraghi in un “place of safety”, e non nel porto più vicino, che sono stati costantemente violati dalle autorità italiane con la prassi dei respingimenti congiunti (caso Hirsi)i, o su delega, verso la Libia.

Il Tribunale di Agrigento aggiunge anche che, tanto la Libia che Malta, non possono essere ritenuti porti sicuri di sbarco, e che il capitano della Cap Anamur aveva correttamente riferito di essere a conoscenza dell’esistenza a quel tempo di un trattamento non conforme agli standard internazionali per i naufraghi sbarcati a Malta, e che non risultava che la Libia avesse ratificato la Convenzione di Ginevradel 1951 sui rifugiati, che invece era stata ratificata dall’Italia. Sulla base di queste considerazioni il Tribunale di Agrigento giunge all’assoluzione piena degli imputati, non solo sulla base dell’esimente dell’art. 54 del Codice Penale, ma riconoscendo l’adempimento di un dovere, e quindi anche l’esimente dell’art. 51 dello stesso Codice penale, in quanto il loro comportamento era risultato conforme agli obblighi di soccorso stabiliti dalle Convenzioni internazionali.

Il periodo di tempo trascorso tra la azione di salvataggio e la richiesta di attracco della Cap Anamur a Porto Empedocle, non era certo imputabile ad una scelta nell’interesse personale dei responsabili della cap Anamur, o alla ricerca di un profitto ( il cd. dolo di profitto). In quello stesso periodo vi erano stati contatti tra i governi italiano, tedesco, maltese e la nave, i cui responsabili cercavano di fare sbarcare i naufraghi in un “place of safety” nel pieno rispetto delle Convenzioni internazionali a salvaguardia della vita umana a mare e del diritto di asilo. I ritardi ed il clamore derivante da questa vicenda sulla stampa di tutto il mondo derivava esclusivamente dalle scelte di sbarramento dei governi coinvolti, una responsabilità che porta i nomi dell’allora ministro dell’interno Pisanu, e dei suoi omologhi tedesco Schily e inglese Blunkett.

Una importante affermazione della giurisdizione, la sentenza del Tribunale di Agrigento, ed un chiarimento di circostanze che nei rapporti di polizia, talora contraddittori, anche alla luce delle successive deposizioni rese dagli agenti in aula, tendevano ad addossare ai responsabili della Cap Anamur sia i ritardi nelle comunicazioni sullo stato di emergenza che si viveva a bordo della nave, dopo che i ministri dell’interno di Germania e Italia non erano riusciti a trovare una intesa sulla richiesta di ingresso e di asilo presentata dai naufraghi.

Una sentenza che ha costituito una pietra miliare dell’evoluzione giurisprudenziale in materia di soccorsi in acque internazionali, affermando principi basilari che vengono ripresi dalla Corte di Cassazione e dai giudici ordinari anche con sentenze successive alla istituzione della zona SAR “libica”.

La vicenda processuale, con il concorso di tutte le parti, ha permesso di accertare come i dinieghi frapposti per settimane all’ingresso della Cap Anamur nelle acque territoriali fossero destituiti di qualsiasi fondamento giuridico, derivando da “scelte politiche” dell’allora ministro dell’interno Pisanu, “scelte politiche” che poi si sono tradotte nel ritiro “in autotutela” dei permessi di protezione umanitaria concessi a 21 dei rifugiati dopo lo sbarco in Sicilia, ed ancora nella espulsione sommaria di tutti i naufraghi, meno due, malgrado le decisioni di sospensiva provenienti da giudici diversi.

La sentenza di Agrigento costituisce una importante affermazione dello stato di diritto di fronte al tentativo delle autorità amministrative italiane di configurare “a posteriori” una fattispecie di responsabilità penale, in violazione del principio di legalità e della responsabilità personale sui quali si basa nel nostro sistema il diritto penale.

3. Il caso dei pescatori tunisini nel 2007, dissuasione dei salvataggi ed omissioni di soccorso

3.1 La dissuasione giudiziaria dei salvataggi operati dai pescherecci nel Canale di Sicilia

Le motivazioni della sentenza sul caso Cap Anamur contraddicono la successiva sentenza del Tribunale di Agrigento nel processo a carico dei sette pescatori tunisini che nel 2007 salvarono altri naufraghi alla deriva nel Canale di Sicilia. Una sentenza che in primo grado, se ha affermato l’assoluzione degli equipaggi, ha condannato i due comandanti dei pescherecci che operarono l’ntervento di salvataggio, una sentenza resa sulla base di motivazioni che sono oggi ribaltate dalle motivazioni fornite dai giudici dello stesso tribunale con riferimento agli imputati responsabili della Cap Anamur. Lo stato di necessità in caso di salvataggio in mare aperto non può dipendere dalla nazionalità dei soccorritori, né dalle determinazioni discrezionali e successive delle autorità di polizia. La Corte di Appello di Palermo, presso la quale veniva presentato il ricorso contro la sentenza del tribunale di Agrigento che condannava i due comandanti tunisini autori di un intervento di salvataggio, ha invece assolto anche i comandanti di due pescherecci tenendo conto delle motivazioni della sentenza sul caso Cap Anamur.

I sette pescatori venivano arrestati appena sbarcati a Lampedusa nella serata del giorno 8 agosto 2007 dalla Guardia di Finanza- Sezione navale di Palermo, Team antimmigrazione e della Guardia Costiera di Lampedusa. Si contestavano loro i reati di cui agli articoli 110 c.p., 12 commi 3 e 3 bis del D.lvo 286/98 , “per avere in concorso tra di loro ed al fine di trarne profitto, compiuto atti diretti a procurare l’ingresso nel territorio dello Stato, in violazioni delle disposizioni del T.U. sull’immigrazione, di 44 cittadini extracomunitari, trasportati a bordo dei motopesca “Mohamed El hedi” e “Morthada” dalla Tunisia alle coste italiane”. Successivamente il capo di imputazione contestato dalla procura di Agrigento veniva derubricato come agevolazione all’ingresso semplice di “clandestini”, ai sensi del primo comma dell’art. 12 del testo unico 286 del 1998, ed infine, con una contestazione suppletiva, abbandonata la tesi dell’agevolazione dell’ingresso di immigrati privi di documenti validi, si contestava una semplice resistenza a pubblico ufficiale per avere proseguito la rotta verso Lampedusa malgrado i tentativi di blocco navale messi in atto dalle unità militari italiane.

La sentenza pronunciata dal Tribunale di Agrigento, malgrado smentisca la tesi, inizialmente adottata dalla Procura, tendente a dimostrare la responsabilità di tutti e sette pescatori tunisini per il reato di agevolazione dell’ingresso di clandestini, perviene ad una condanna per resistenza a pubblico ufficiale che si basa su considerazioni che già nel dispositivo appaiono gravemente contraddittorie, anche alla luce di quanto emerso nella istruttoria dibattimentale. Non si comprende come possa essere caduta l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e poi si sia giunti alla condanna per “resistenza” di chi stava conducendo a terra i naufraghi che aveva salvato da morte certa. Resistenza a quali ordini ? Forse l’ordine di attendere al confine delle acque territoriali una decisione politica da parte del ministero dell’interno, o la disposizione immediata di fare rotta verso la Tunisia? E in quali atti si sarebbe concretizzata questa asserita “resistenza”, forse nella rotta seguita dalle imbarcazioni tunisine stracariche di migranti mentre i mezzi delle forze armate militari incrociavano pericolosamente la loro rotta per bloccarle?


3.2. Processo penale e ruolo dei media nel caso dei pescatori tunisini

La tesi accusatoria accolta in prmo grado dal Tribunale di Agrigento e poi cancellata dalla Corte di appello di Palermo, va letta anche alla luce di quanto riferito dalla stampa nei giorni successivi al salvataggio ed all’arresto dei pescatori tunisini. Si sperimentavano giù in quel periodo le condanne sparate attraverso i titoli dei giornali. In un articolo de “Il Giornale” dell’8 settembre 2007 i pescatori tunisini, che nelle acque del Canale di Sicilia avevano salvato 44 migranti, tra i quali donne in stato di gravidanza, minori e richiedenti asilo, venivano definiti come “mercanti di uomini”.

Nell’articolo del “Giornale”si criticava poi la Procura di Agrigento, che si sarebbe mostrata “cauta”, “tanto da scontrarsi in aula” con il Presidente del Tribunale che sollecitava con energia la contestazione agli imputati dell’articolo 1100 del codice della navigazione, ovvero la resistenza in mare, esattamente la stessa norma che veniva poi ricordata dal Tribunale per giungere alla condanna dei comandanti dei due pescherecci.

Un successivo articolo dello Spiegel, il più importante periodico tedesco, in una dichiarazione dello stesso autore dello “scoop” sul Giornale, riproponeva la stessa versione dei fatti, tendente ad accreditare nell’opinione pubblica tedesca la versione fornita dalle forze di polizia, secondo le quali i pescherecci tunisini avrebbero tentato di forzare il “blocco” imposto dalle unità italiane che, ormai in prossimità di Lampedusa, dopo avere assistito i pescherecci nel salvataggi e nella loro rotta di avvicinamento, dichiaravano cessato lo stato di allarme e avevano intimato “il dietrofront immediato”, il rientro verso un porto tunisino, malgrado le pessime condizioni del mare e il grave stato di salute di alcuni dei naufraghi, poi documentato dai ricoveri urgenti in ospedale a Palermo.

In realtà i fatti erano andati ben diversamente da come riferito dal Giornale, e poi dallo Spiegel ,come era emerso, già nel 2007, dalle considerazioni contenute nelle motivazioni dei provvedimenti dei Tribunali di Palermo ( in sede di riesame) e di Agrigento, che rimettevano in libertà i pescatori dopo settimane di ingiusta carcerazione, ancora più ingiusta alla luce della definitiva caduta dell’ipotesi accusatoria dell’agevolazione di ingresso di clandestini, con la sentenza della Corte di Appello di Palermo.

Mentre l’opinione pubblica è stata informata del fatto che i pescatori tunisini “erano mercanti di uomini”, nessuno ha riportato a quegli stessi lettori l’andamento del dibattimento processuale che giorno dopo giorno ha smentito quella affrettata affermazione di colpevolezza, poi smentita definitivamente dalla Corte di appello di Palermo. E ancora una volta dalle accuse contro i soccorritori sono emerse gravi prove sul comportamento degli agenti istituzionali da cui provenivano quelle stesse accuse.

3.3 La prassi delle “manovre diversive” per impedire l’ingresso nelle acque terrioriali.

Una considerazione desstava già allora un grave allarme, anche nella prospettiva delle prassi di respingimento collettivo in mare, una pratica vietata dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e da altre Convenzioni internazionali, sulla quale però si basa da tempo la politica italiana dei controlli di frontiera nelle acque internazionali.

Nella vicenda dei pescatori tunisini, dopo l’iniziale autorizzazione a procedere nella direzione di Lampedusa, della quale sembra sparita ogni traccia nelle relazioni di servizio dell’unità della Guardia di finanza intervenuta durante le prime operazioni di salvataggio, emerge con chiarezza il tentativo tardivo di blocco e di respingimento collettivo in alto mare, perpetrato da mezzi della Guardia Costiera italiana quando i due pescherecci tunisini erano già in vista di Lampedusa, una prassi introdotta a partire dal mese di luglio del 2007, in contemporanea con l’avvio delle operazioni Frontex nel Canale di Sicilia, e forse anche con l’avvicendamento dei vertici del Corpo delle Capitanerie di porto.

Dai verbali del Team immigrazione della Guardia di Finanza e della Guardia costiera, settima squadriglia con base a Lampedusa, riportati nell’ordinanza del Tribunale di Agrigento del 10 ottobre 2007, risulta che i comandanti dei pescherecci tunisini si sarebbero sottratti al divieto di ingresso nelle acque territoriali “compiendo molteplici, repentini e bruschi cambi di rotta, virate ed accostate ed impedendo alla motovedetta di affiancarsi” giungendo addirittura a minacciare “di gettare in mare gli immigrati”.

Nel corso del dibattimento è però apparso evidente il tentativo di affiancamento, in realtà tentativi reiterati di blocco navale, dei due pescherecci da parte dei mezzi militari italiani al fine di respingere fuori dalle acque territoriali una imbarcazione carica di migranti. Una pratica che si pone in contrasto con tutte le Convenzioni internazionali che stabiliscono il riconoscimento del diritto di asilo anche in acque internazionali, come diritto di accedere al territorio nazionale per presentare una domanda di asilo, e il dovere assoluto di salvaguardia della vita umana in mare. Lo stesso comportamento delle unità militari italiane, seppure rimasto a livello di tentativo di blocco navale, risulta in contrasto con l’art. 19 del testo Unico sull’immigrazione, con l’art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo e con il Protocollo aggiuntivo alla stessa Convenzione, ribadito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art.19), che vietano i respingimenti collettivi, con particolare riferimento ai minori ed alle donne in stato di gravidanza.

Un rappresentante della guardia costiera ha riferito ripetuti tentativi di incrociare la rotta dei pescherecci al fine di dissuadere l’avvicinamento a Lampedusa. Esattamente quei tentativi che anni prima, nel 1997, avevano portato al disastro causato dalla nave militare Sibilla che, dopo simili tentativi di incrocio, causò l’affondamento di una imbarcazione carica di migranti, con decine di morti. Un processo concluso con la condanna del comandante a molti anni dai fatti è rimasto dimenticato ed è ormai oggetto di rimoszione ed agli eredi delle vittime è stato persino negato qualsiasi risarcimento.

Qualcuno all’interno della marina militare ricorderà ancora oggi questa vicenda, diventata addirittura oggetto di una battuta, secondo l’articolo apparso su Il Giornale nel 2007, nel quale si afferma tra l’altro che si sarebbe trattato di “una sorta di match race con affiancamenti e cambi di rotta improvvisi respinti da tentativi di speronamento e andature sottobordo a zig – zag”. La cronaca del Giornale è molto precisa e sicuramente ispirata da qualcuno che aveva partecipato all’operazione di blocco e di respingimento in mare.

Secondo lo stesso Giornale “ quando l’incontro-scontro in mare diventa inevitabile, da terra arriva l’ok del magistrato di turno a permettere l’attracco dei pescherecci nel porto di Lampedusa”, che peccato, sembrerebbe, non avere potuto assistere al momento finale di questa “Coppa america per clandestini” come la definisce il Giornale.

I comandanti dei due pescherecci tunisini venivano così condannati in primo grado proprio perché avrebbero fatto resistenza alle iniziative di contrasto dei mezzi della marina militari italiana che volevano impedire ad ogni costo l’attracco a Lampedusa, con l’obiettivo di rimandare verso la Tunisia i pescherecci con il loro carico di naufraghi. Un viaggio a ritroso che i pescherecci non avrebbero potuto compiere con quel carico di persone, senza rifornimenti e senza carburante in quantità tali da garantire il rientro sicuro in un porto tunisino. Un viaggio, assai probabilmente, verso un ulteriore naufragio.

Brani significativi delle deposizioni degli ufficiali della Marina durante il dibattimento, e la cronaca del “Giornale” assai attendibile anche per la fonte dalla quale evidentemente proviene, richiamavano come possa applicarsi in concreto, nelle acque del canale di Sicilia, il Decreto ministeriale 14 luglio 2003 che stabilisce le competenze di coordinamento della Direzione centrale Polizia di frontiera del Ministero dell’interno, in concorrenza con le funzioni assegnate alla Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC), e regole di ingaggio delle unità della marina, della finanza e delle capitanerie di porto nelle attività di contrasto dell’immigrazione clandestina a mare, consentendo il blocco delle imbarcazione cariche di “clandestini” in modo da costringerle a ritornare indietro.

Un utile contributo, quello del “Giornale”, per comprendere quanto poco sia stato considerato, dalle unità che sono intervenute nel corso di questa operazione, e da chi ha impartito gli ordini superiori, il richiamo all’assoluta preminenza dei doveri di salvaguardia della vita umana a mare, doveri affermati, oltre che nello stesso decreto ministeriale del 14 luglio 2003, nella legge italiana e nelle convenzioni internazionali. Un elemento, che oggi alla luce della sentenza di condanna del tribunale di Agrigento, preoccupa e amareggia, dopo che per anni le unità della Marina militare italiana hanno salvato migliaia di naufraghi nel Canale di Sicilia, intervenendo anche in acque di competenza delle autorità maltesi e libiche. Un attività di salvataggio che è stata aspramente criticata dagli attuali vertici politici e che è forse costata il posto e la carriera a quegli uomini che alle direttive politiche hanno anteposto la salvaguardia della vita umana a mare.

Particolarmente interessante a tale riguardo la testimonianza resa durante il processo di primo grado dall’allora comandante della Guardia Costiera di Lampedusa.
Secondo quanto dichiarato da questo alto ufficiale “dopo che la nave militare Vega avverte il comando dell’assenza di emergenza sanitaria a bordo dei motopescherecci e si allontana dalla zona per intervenire in altri soccorsi, il teste trasmette l’ordine di non ingresso nelle acque territoriali, da impartire ai motopescherecci tunisini, alle due motovedette della Guardia Costiera presenti sul luogo. Le due motovedette, riferisce il teste, comunicano che i motopescherecci tunisini non osservano l’ordine di allontanarsi, impartito con ausilio di megafono in italiano, inglese, francese e si dirigono verso Lampedusa. I comandanti delle motovedette riferiscono via radio cambi repentini di rotta dei pescherecci tunisini con pericolo per le motovedette accanto. Le modalità di allontanamento, poste in essere dalla Guardia Costiera, riferite sono: tentativi di affiancamento dei due motopescherecci per scoraggiarne la corsa (le imbarcazioni tunisine, di contro, pongono in essere un movimento a zig zag sul mare), comunicazione via radio (i motopescherecci tunisini non rispondono più, cercano collegamento radio con altri interlocutori), uso del megafono. A questo punto il teste paventa la possibilità che se l’atteggiamento dei due motopescherecci non fosse stato così ostile, la vicenda si sarebbe potuta chiudere in altro modo”.

I resoconti di quanti intervenivano nelle successive attività di salvataggio sono apparsi nel corso del procedimento penale in grado di appello a Palermo lacunosi e contraddittori. Successivamente al soccorso prestato dai pescatori tunisini, questi con i naufraghi a bordo, incontrarono infatti un’altra imbarcazione di colore grigio, una nave militare italiana, e poco dopo arrivava pure un elicottero. Successivamente dalla nave militare venne calata una scialuppa ma il medico che vi si trovava a bordo non salì ( come affermato in un primo momento) sul peschereccio dove si trovava il comandante Naciri insieme ad altre 29 persone ed a una donna in stato avanzato di gravidanza, che intanto continuava a restare coricata perché non riusciva ad alzarsi. Sembra dunque accertato che l’intervento delle unità navali italiane di soccorso marittimo sarebbe stato esclusivamente finalizzato ad accertare quali fossero le condizioni di salute di una singola persona e che, dunque, verificato che tali condizioni di salute non erano cattive (e neanche quelle degli altri migranti), l’attività di soccorso marittimo da parte delle unità italiane poteva dirsi esaurita.

La ricostruzione dei fatti emersa nel corso del dibattimento, appare in netto contrasto sia con il contenuto delle Convenzioni di diritto internazionale del mare (che obbligano l’Italia a garantire il soccorso e l’assistenza a persone che, salvate in mare da navi private, devono considerarsi naufraghi a tutti gli effetti), che con lo specifico ordine che risulta essere stato impartito da M.R.C.C. Roma alle ore 16.29 dell’8.8.2007 (con il quale disponeva nei confronti degli anelli inferiori della catena di comando di provvedere all’assistenza e soccorso di tutti i migranti che si trovavano sul natante alla deriva).

La Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979 (Convenzione SAR) obbliga gli Stati parte a “…garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in mare … senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali viene trovata” (capitolo 2.1.10) ed a “… fornirle le prime cure mediche o di altro genere ed a trasferirla in un luogo sicuro” (capitolo 1.3.2.); ed ai sensi inoltre degli emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR. Questi obblighi di salvataggio, del resto, enivano riconosciuti da testi appartenenti alla Marina militare, che hanno testualmente dichiarato che “nelle acque internazionali se noi trovassimo un naufrago, ovvero una persona in acqua, noi abbiamo l’obbligo di prenderla che stia bene o che sia male”

3.4 Malgrado l’assoluzione l’effetto dissuasivo della condanna in primo grado produce vittime

La terza sezione di Corte d’appello di Palermo ha completamente scagionato anche i due comandanti tunisini, affermando che il fatto non costituisce reato a causa dello stato di necessità nell’azione di salvataggio a causa delle condizioni di salute dei naufraghi, tra cui un bambino gravemente malato. Questa importanted decisione non ha tuttavia impedito che dopo quel procedimento penale, costato ai pescatori tunisini la perdita delle imbarcazioni, e dunque della principale fonte di sostentamento delle proprie famiglie, altri pescatori ignorassero le richieste di soccorso provenienti in acque internazionali da barconi sovraccarichi di naufraghi a rischio di annegare, fino al caso estremo di omissione di socorso verificatosi pochi mesi dopo con conseguenze tragiche.

Ruggero Marino, comandante del peschereccio Enza D, nel gennaio 2009 ometteva di prestare soccorso a un barcone in avaria con 60 “clandestini” rigettando in mare uno di loro (che era riuscito a salire sul peschereccio) e causandone la morte per annegamento. Il comandante veniva condannato a 12 anni di reclusione, grazie alle testimonianze dei naufraghi sopravvissuti. Ma chissà quanti altri pescatori, dopo avere avvistato barconi sovraccarichi di persone in stato di pericolo, hanno fatto finta di non vedere e ancora oggi cambiano rotta, senza neppure avvertire le autorità statali di coordinamento dei soccorsi.

Durante il procedimento, il comandante Ruggiero Marino giustificava il suo gesto affermando che lo aveva fatto “per non passare guai, non volevo che mi sequestrassero l’imbarcazione per complicità con i clandestini”, quasi a volere convincere se stesso e tutti che non poteva fare altrimenti. L’avvocato Marino del foro di Agrigento sottolineava che quelle pazzesche giustificazioni non erano soltanto l’aspetto più drammatico della vicenda costata la vita di una persona, ma anche il punto-chiave per spiegare un clima: «perché quello era davvero il messaggio che girava: non aiutate i profughi in mare, se no vi sequestriamo le barche e vi denunciamo».

Il 21 luglio 2009 il tribunale di Agrigento (sentenza 236/09) condannava il comandante Ruggiero Marino; decisione che sarà confernata il 21 giugno 2010 dalla Corte d’assise d’appello: 12 anni di carcere. Malgrado quella condanna, i salvataggi operati da pescherecci negli anni successivi si riducevano fino al punto di cessare completamente e dalla fitta rete di imbarcazioni da pesca che operavano nel Canale di Sicilia cessavano persino le chiamate di soccorso rivolte alla Centrale di coordinamento della Guardia costiera (IMRCC).

4. Il caso Iuventa nel 2017: dal “codice di condotta” per le ONG alle intercettazioni di massa.

4.1 La trasformazione di un procedimento penale nella fase delle indagini preliminari

Rispetto ai primi atti di indagine che avevano comportato il coinvolgimento della ONG Jugend Rettet, per cui operava la Iuventa, e di numerosi membri dell”equipaggio, oltre ad alcuni operatori umanitari poi usciti dal procedimento, una mole immensa di intercettazioni telefoniche ha ampliato nel corso degli anni il numero degli indagati che sono arrivati, in base all’Avviso di conclusione delle indagini preliminari dell’11 gennaio 2021, a 21 persone, tra operatori umanitari ed equipaggio non solo della Iuventa, ma anche delle navi VOS HESTIA di Save The Children e VOS PRUDENCE di Medici senza frontiere, nonchè i legali rappresentanti di queste associazioni. Sembrerebbe invece che nel frattempo la posizione di altri 5 indagati sia stata archiviata. Come veniva archviata la posizione della associazione tedesca Jugend Rettet per cui la nave IUVENTA operava. Tre sono i fatti contestati dalla Procura di Trapani. Il primo si sarebbe verificato il 10 settembre 2016, a 15 miglia circa dalle coste libiche. Secondo l’accusa, un’imbarcazione carica di migranti si sarebbe avvicinata alla Iuventa per poi allontanarsi nuovamente con due sole persone a bordo. L’unica fonte di prova è costituita dalle testimonianze di tre agenti di una società rivata di security, imbarcati sulla Vos Hestia di Save the Children.  Giova ricordare anche che lo stesso 10 settembre del 2016, proprio  in occasione di uno dei soccorsi che la procura di Trapani contesta oggi agli operatori del gommone di servizio della Juventa, la Guardia costiera libica sequestrava due operatori della nave umanitaria Sea Eye.

Gli altri due fatti contestati dalla Procura di Trapani si sarebbero, invece, verificati entrambi il 18 giugno 2017. In questi casi la principale fonte d’accusa è un agente dei servizi segreti sotto copertura imbarcato a bordo della nave Vos Hestia di Save The Children. Il decreto di sequestro preventivo dà atto che in occasione di uno dei due soccorsi operati dalla Iuventa il 18 giugno del 2017, il barchino dei migranti era “scortato”, oltre che da una imbarcazione ritenuta appartenente ai trafficanti, anche da una “motovedetta libica”, circostanza che sembra svanita nel corso delle successsive indagini, ma che dà la misura dei rapporti esistenti a quel tempo tra trafficanti e sedicente Guardia costiera libica. Sempre secondo lo stesso Decreto di sequestro preventivo “La Guardia Costiera libica ha assistito passivamente al trasferimento a bordo della iuventa senza mai intervenire per procedere all’identificazione ed al controllo delle imbarcazioni utilizzate dai trafficanti durante le successive fasi di rientro; scelta incomprensibile se non nel quadro di una grave collusione tra singole unità della Guardia costiera ed i trafficanti di esseri umani” (si rinvia al riguardo alla relazione dell’agente sotto copertura e alle fotografie accluse). Sembra già evidente in questo passaggio di un documento del giudice delle indagini preliminari di Trapani la prova di “consegne concordate”, almeno nel soccorso delle prime ore di giorno 18 giugno 2017, non tra i trafficanti e la Iuventa, ma tra gli stessi trafficanti e i componenti della Guardia costiera libica che erano presenti sul luogo dei soccorsi senza intervenire.

Il 2 agosto del 2017, mentre si trovava in acque internazionali, dopo aver eseguito il trasbordo di due migranti siriani salvati dal navi della Guardia costiera italiana, alla comandante della nave veniva richiesto di approdare nel porto di Lampedusa per sottoporsi a controlli. Lo stesso giorno veniva notificato alla stessa comandante un decreto di sequestro preventivo firmato dal Giudice delle indagini preliminari di Trapani. Decreto di sequestro che evidentemente era pronto già prima dell’ingresso della Iuventa in porto.

4.2 L’intervento interlocutorio della Cassazione ed il rinvio al giudizio di merito per l’accertamento dei fatti e delle responsabilità.

Nel 2018 la Corte di cassazione si era pronunciata per la conferma del decreto di sequestro preventivo della nave, soltanto sotto il profilo della legittimità della procedura, ma rinviava al giudizio di merito in tribunale per l’accertamento dei fatti, tanto che la posizione della maggior parte degli originari imputati veniva successivamente archviata. Secondo la Corte di Cassazione “ Costituirà, quindi, l’oggetto del giudizio di merito, a cognizione piena l’approfondita verifica di tale snodo, delicatissimo e cruciale, che impone di discernere fra l’attività, meritoria e salvifica, messa in essere da chi si muove nell’ambito segnato dall’art. 12, comma 2, d.lgs. n. 286 del 1998 (secondo cui, fermo restando quanto previsto dall’art. 54 del codice penale, non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato), nella cornice fissata dal’obbligo di salvataggio in mare scolpito dal diritto consuetudinario internazionale e richiamato da molteplici Convenzioni (fermando l’attenzione alla sole Convenzione di Montego Bay sopra citata per altri aspetti, l’art. 98 prescrive che ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, fra le altre attività, presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo e proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto), e l’attività di chi – consapevolmente concorrendo con i trafficanti di esseri umani – agisce nel senso di agevolarne le condotte illecite e consentire la loro concreta perpetrazione”.

Dunque si trattava di una decisione che non faceva stato nell’accertamento dei fatti, e delle normative che disciplinano i soccorsi in mare.  Già nel 2018 la Procura di Palermo chiedeva l’archiviazione, poi disposta dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Palermo, di una indagine contro alcune ONG avviata sulla base di segnalazioni analoghe a quelle che nel 2017 erano state inviate alla Procura di Trapani, con riferimento ad altre ONG, tra cui la stessa Jugend Rettet. Il 19 giugno 2018 erano stati chiusi i procedimenti penali a carico della Sea Watch e della Golfo Azzurro., con riferimenti anche alla IUVENTA, oggetto delle indagini di Trapani. “Alla luce delle indagini svolte, non si ravvisano elementi concreti che portano a ritenere alcuna connessione tra i soggetti intervenuti nel corso delle operazioni di salvataggio a bordo delle navi delle Ong e i trafficanti operanti sul territorio libico”, avevano scritto i pmLe indagini svolte non hanno permesso di appurare la commissione di condotte penalmente rilevanti da parte del personale Ong”.

4. 3. Nuovi capi di imputazione e attendibilità delle fonti di denuncia: ancora una volta un processo politico

Nel caso Iuventa si tratta di un inchiesta che ha visto cambiare nel corso del tempo sia gli indagati che i capi di imputazione, che si sono moltiplicati soprattutto per effetto di numerose intercettazioni, ben al di là dell’originario materiale probatorio, di dubbia attendibilità, proveniente da agenti infiltrati presenti a bordo della VOS HESTIA di Save The Children. Ma anche andando ad approfondire gli atti del procedimento, si tratta di centinaia di pagine, e saranno gli avvocati difensori ad entrare nel merito delle singole contestazioni, risulta difficile, al di là della quantità dei materiali, soprattutto captazioni telefoniche, ritrovare nessi logici e ricostruzioni in linea con il reale svolgersi dei fatti, ben chiarito invece da Rapporti internazionali, come quello del Forensic Oceanography di Londra.

In base al Diritto internazionale, recenti sentenze della Corte di Cassazione hanno riconosciuto le Convenzioni internazionali di diritto del mare ed i loro allegati come fonte primaria degli obblighi di comportamento dei comandanti e delle autorità statali tenute ad intervenire nel corso di eventi SAR ( di ricerca e salvataggio). A margine del caso Iuventa non si tratta dunque di auspicare una nuova legislazione in materia di soccorsi in mare che nessuno Stato può autonomamente modificare, ed appare utopico allo stato degli odierni rapporti politici, in Italia ed in Europa, attendersi una riformulazione più puntuale del reato di agevolazione dell’immigrazione clandestina. Reato che l’art. 12 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998 prevede come una fattispecie a larghissimo spettro, tanto da far dubitare che sia rispettato il principio costituzionale della cd. “riserva di legge” in materia penale. Il procedimento Iuventa andrebbe chiuso già alla luce della legislazione vigente e del sistema delle cause di giustificazione previste dal codice penale, esattamente come nel febbraio del 2020 ha deciso la Corte di cassazione sul caso Rackete, e come hanno deciso diversi altri giudici di merito nei loro provvedimenti di archiviazione dei procedimenti avviati da alcune procure siciliane contro le ONG impegnate nei soccorsi nelle acque internazionali.

Se di “processo politico”, e dunque di una prima anomalia, si deve parlare, non è certo per scelta degli indagati, ma per la documentata interazione tra ambienti politici ed organi inquirenti nella fase iniziale delle indagini. Si deve innanzitutto risalire al tempo nel quale venivano avviate le indagini, nella seconda metà del 2016, quando dall’Agenzia europea Frontex provenivano segalazioni di comportamenti “sospetti” delle navi delle ONG che in quel periodo, in sinergia con la Guardia costiera italiana, operavano nel Mediterraneo centrale una preziosa attività di soccorso che gli Stati non garantivano più, dopo la chiusura dell’operazione Mare Nostrum nel 2015 e di Triton (di Frontex) alla fine del 2016. Operazioni di navi inviate dalla societa civile che, ben prima che venisse costituita una fittizia “zona SAR libica” nel giugno del 2018, svolgevano attività di soccorso fino a 12 miglia dalle coste libiche ( nel caso di Triton fino a 135 miglia a sud di Lampedusa) . Risulta che in quel periodo anche assetti militari italiani operavano attività SAR all’interno delle acque territoriali libiche (12 miglia), quando erano in gioco vite umane. Tra le contestazioni contenute negli atti di accusa la circostanza che l’intervento della Iuventa avrebbe “sottratto” un centinaio di migranti alla “Guardia costiera libica”, come se gli estensori di questi atti non fossero consapevoli dei comportamenti criminali di questa stessa Guardia costiera in episodi ampiamente documentati nei quali le attività di interdizione dei soccorsi operati dalle ONG producevano vittime. Per non parlare delle condizioni terribili nelle quali si venivano a trovare, sistematicamente esposti a stupri ed a torture a scopo di estorsione, tutti i naufraghi che non venivano “sottratti” ala sedicente Guardia costiera libica, allora quasi inesistente come Centrale di coordinamento (MRCC) e neppure riconosciuta dall’IMO, e riportati nei campi di detenzione allestiti a terra, sotto il controllo delle stesse milizie che controllavano i guardiacoste. Eppure, malgrado la situazione dei migranti in Libia fosse disperata, gli Stati europei e l’italia in particolare ritraevano gli assetti navali prima presenti in acque internazionali e dunque il ruolo delle ONG che salvavano i migranti forzati in fuga da quel paese era assolutamente meritorio e conforme alle norme di diritto internazionale. In un’intervista pubblicata sul quotidiano tedesco Die Welt, il capo di Frontex Fabrice Legeri confermava l’impostazione delle accuse rivolte alla Iuventa ed alle altre navi umanitarie, sostenendo che l’elevato numero di operazioni di soccorso compiute dalle ONG «rende più difficile per le autorità di sicurezza europee indagare sulle reti dei trafficanti». I diritti umani, la stessa vita delle persone, venivano cosi’ indicati come variabili da sacrificare in nome della difesa dei confini e del contrasto dell’immigrazione irregolare.

Come si evince da un Rapporto di Human Rights Watch del 2017, Il 10 maggio e il 23 maggio di quell’anno, le navi di pattuglia delle forze di guardia costiere libiche in acque internazionali erano intervenute nei soccorsi già in corso da parte di organizzazioni non governative, con comportamenti minacciosi tali da provocare il panico senza fornire giubbotti di salvataggio a persone in cerca di salvataggio su navi non idonee alla navigazione . Il 23 maggio 2017 , gli operatori umanitari assistevano – e filmavano – agenti della guardia costiera libica che sparavano colpi in aria. Venivano quindi raccolte testimonianze corroborate da parte dei sopravvissuti secondo cui gli ufficiali avevano sparato anche colpi in acqua dopo che i migranti erano saltati in mare. In quella data tre navi delle ONG erano coinvolte in una operazione SAR (ricerca e salvataggio) sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana (MRCC) Save the Children con la Vos Hestia, l’Aquarius, di Medici senza frontiere; e la Iuventa, di Jugend Rettet. Sotto il coordinamento del Centro ufficiale di coordinamento per il salvataggio marittimo in Italia (IMRCC) di Roma, i soccorritori lavoravano insieme per diverse ore per trasferire i migranti dai gommoni fatiscenti alle loro imbarcazioni. Gia’ nel 2017 dunque, durante le operazioni di soccorso, la Guardia costiera libica circondava i mezzi di soccorso e sparava colpi in mare in prossimità dei gommoni terrorizzando i migranti che si gettavano in acqua. Si trattava di circostanze ben note alla Guardia costiera ed alla Marina italiana che a quel tempo collaboravano stabilmente con le navi delle Organizzazioni non governative. Come si fa ancora oggi a parlare di migranti “sottratti” alla Guardia costiera libica?

4. 4 Il ruolo di Matteo Salvini nella prima fase delle indagini sul caso Iuventa

Nel mese di marzo del 2017 le carte dell’indagine sulla IUVENTA, condotta da un agente, per quanto risulta, dello SCO e dagli ex poliziotti, reclutati come componenti della security della nave Vos Hestia di Save The Children, venivano “passate” a Matteo Salvini, La seconda anomalia del “caso Iuventa” nasce dunque dallo stretto legame tra attività di indagine affidate nel 2016 anche al Servizio Centrale Operativo (SCO), le attività di documentazione di agenti dei servizi di sicurezza ptivati a bordo della Vos Hestia di Save The Children, e le comunicazioni di queste indagini fatte ad alcuni politici, come Salvini, che ne faceva uso propagandistico, fino destinataal sequestro della nave Iuventa avvenuto a Lampedusa il 2 agosto del 2017. Erano i giorni in cui l’allora ministro dell’interno Marco Minniti tentava di imporre alle ONG un Codice di condotta che nella parte relativa alla collaborazione con la sedicente Guardia costiera libica, sulla base del Memorandum d’intesa stipulato con il governo di Tripoli il 2 febbraio 2017, anticipava i contenuti del Decreto sicurezza bis n.53 del 2019, pur rimanendo privo nel frattempo di copertura legislativa. Di fatto politici di governo e di opposizione entravano in concorrenza per dimostrare l’efficacia delle loro politiche sulla sicurezza dei confini marittimi attaccando l’essenziale ruolo delle ONG nei soccorsi nel Mediterraneo centrale. Ma la bolla mediatica montata attorno al caso Iuventa era destinata a scoppiare.

Come riportava il Post nel febbraio del 2019, L’ex poliziotto Pietro Gallo dice di essere pentito per il ruolo che ha avuto nella creazione del cosiddetto “scandalo ong”, la polemica contro le organizzazioni non governative impegnate nei salvataggi di migranti nel Mediterraneo centrale. Tra il 2016 e il 2017, quando lavorava come agente di sicurezza a bordo della nave Vos Hestia dell’ong Save the Children, Gallo fornì informazioni e dossier sulle ong ai servizi segreti e allo staff di Matteo Salvini; le sue azioni contribuirono a trasformare i salvataggi in mare in un argomento politico controverso e le ong nell’avversario principale di opinionisti e forze politiche contrarie all’immigrazione. Inoltre, l’indagine su tre ong portata avanti dalla procura di Trapani e partita dalle sue denunce è una delle poche ancora in corso”. La “confessione” di Gallo è contenuta in un’intervista, pubblicata dal Fatto Quotidiano rilasciata al giornalista Antonio Massari. Eppure il procedimento Iuventa continua a basarsi su quelle accuse captate nelle conversazioni tra gli agenti della sicurezza privata imbarcati a bordo della Vos Hestia di Save The Children. Come riporta la stessa fonte, “Gallo si imbarcò per la prima volta sulla Vos Hestia nel settembre del 2016 insieme un altro ex poliziotto, Lucio Montanino. Un’altra ex poliziotta, che avrà una parte importante in questa storia, Floriana Ballestra, rimase invece a terra. Tutti e tre erano impiegati dalla Imi Security Service, una società di sicurezza privata ingaggiata per svolgere servizio sulla nave noleggiata da Save the Children, una delle ong più note e organizzate tra quelle che hanno operato nel Mediterraneo Centrale”. Risulta quindi di dominio pubblico la circostanza che “Era proprio lì che Gallo e i suoi colleghi della Imi Security Service si trovavano a operare alla fine del settembre 2016. Erano passati appena venti giorni dal loro imbarco sulla Vos Hestia, ma Gallo e gli altri avevano già deciso che l’attività delle ong era irregolare e andava denunciata. Gallo e Floriana Ballestra, che era rimasta a terra, scrissero allora allo staff di Matteo Salvini e ad Alessandro Di Battista, importante dirigente del Movimento 5 Stelle, mentre Ballestra inviò una relazione lunga una decina di pagine al Dipartimento di Informazioni sulla Sicurezza, cioè i servizi segreti. Infine, il 14 ottobre, un paio di settimane dopo aver avvertito politici e servizi segreti, Gallo decise di fare una vera e propria denuncia ai carabinieri.” Secondo Gallo e Ballestra, l’ong tedesca aveva rapporti ambigui con i trafficanti e sembrava che fosse in combutta con loro per trasferire i migranti dalle imbarcazioni di fortuna alla loro.” Esattamente le stesse valutazioni riprodotte nel decreto di sequestro della nave e nei capi di imputazione contestati agli imputati.

Sulle prime fasi dell’indagine non mancano ombre inquietanti. Secondo quanto pubblicato da Famiglia Cristiana in un articolo a firma di Andrea Palladino, pochi giorni dopo il sequestro della Iuventa a Lampedusa, “Spunta un collegamento tra le attività dell’organizzazione di estrema destra Defend Europe contro i migranti e il sequestro della nave Iuventa della Ong tedesca Jugend Rettett, avvenuta il 2 agosto su ordine della procura di Trapani. Collegamento che – ricostruisce Famiglia Cristiana – prende due nomi e due volti specifici, quelli di Cristian Ricci e Gian Marco Concas. Il primo è alla guida della società di sicurezza privata Imi Security Service, ovvero il gruppo di mercenari che ha denunciato le ‘anomalie’ della nave Iuventa, facendo aprire il fascicolo della Procura di Trapani.” Pohi giorni dopo il sequestro della Iuventa a Lampedusa la sedicente Guardia costiera libica tentava di sequestrare un altra nave delle ONG, la Proactiva Open Arms. Questo il contesto all’origine dell’indagine sul caso Iuventa, che poi si estenderà ad altre navi delle Ong.

In quei mesi la Iuventa, come la Vos Hestia, insieme alle altre imbarcazioni delle Ong, operava a poca distanza dalle acque territoriali libiche, in un braccio di mare che dalla fine della missione Mare Nostrum nel 2014 era stato lasciato sostanzialmente scoperto: la nuova missione navale di Frontex frutto dell’accordo tra le istituzioni europee e il governo Renzi (Triton, diventata Themis) aveva come scopo la tutela delle frontiere italiane, e quindi le navi che ne facevano parte raramente si avvicinavano alle acque libiche, come invece spesso avveniva con Mare Nostrum, una missione esplicitamente dedicata al salvataggio.

4.5 . Il divieto di trasbordo e la fine del coordinamento dei soccorsi civili con la Guardia costiera italiana

Tra i fatti contestati ancora oggi agli indagati nel procedimento Iuventa ricorre un caso di “trasbordo” che sarebbe successivamente stato al centro dei divieti introdotti surrettiziamente, non essendo fonte legislativa, dal Codice di condotta Minniti. Trasbordi da nave a nave, anche su navi militari italiane, che però costituivano almeno fino al mese di luglio del 2017, una prassi costantemente osservata dalle ONG, con il pieno avallo della Centrale di coordinamento della Guardia costiera italiana (IMRCC). E’ ampiamente provato che nella normalità dei casi (e parliamo di oltre 10.000 vite salvate in alto mare dalla IUVENTA) da questa nave venivano effettuati normalmente trasbordi su navi delle ONG (e non solo) più grosse al fine di garantire maggiore efficacia e tempestività alle attività di salvataggio, come previsto dal Diritto internazionale del mare, che non vieta affatto i trasbordi di persone tra navi soccorritrici ma impone massima rapidità ed efficacia nei soccorsi.

Semmai, proprio un trasbordo era servito ad “incastrare” la Iuventa. E’ bene ricordare che in occasione dell’ingresso a Lampedusa e del sequestro disposto dall’autorità giudiziaria, la Iuventa non operava attività di soccorso e si trovava in acque internazionali, venendo costretta a fare ingresso nel porto di Lampedusa su ordine della Guardia costiera italiana, che aveva imposto il trasbordo di due(!) migranti siriani soccorsi in precedenza in acque internazionali da unità navali appartenenti alla stessa Guardia costiera. Questo si, stando alle prassi di quel periodo, era un trasbordo davvero insolito ed evidentemente mirato a fare entrare la nave in un porto italiano al fine di procedere al sequestro ed al successivo esercizio dell’azione penale.

4.6. Gli operatori umanitari complici degli scafisti ? Chi sono i veri complici dei trafficanti.

La terza anomalia dell’indagine Iuventa risulta dalla circostanza che inizialmente si contesta all’equipaggio della nave, che operava proprio al limite delle acque territoriali libiche, di avere salvato vite umane in pericolo, come è prescritto dal diritto internazionale, in tre episodi, uno nel setembre del 2016 e in due casi nel giugno del 2017, in collaborazione con i trafficanti. Collaborazione ravvisabile, secondo l’accusa, nell’allontanamento dalla nave dei barchini ormai vuoti dopo i soccorsi, o della mera presenza di imbarcazioni di presunti trafficanti non meglio identificati sulla scena dei soccorsi, come se si trattasse di “consegne concordate”. Qui saranno certamente utilizzate le numerose intercettazioni disposte nel corso delle indagini. Mancano tuttavia allo stato, prove evidenti di una qualsiasi collusione. Mentre, come si è visto, persno il decreto di sequestro dà atto della presenza sulla scena del soccorso operato nelle prime ore del 18 giugno 2017 di una unità navale qualificata come guardia costiera libica. Le contestazioni contenute nei capi di imputazione sono ricavate sulla base di mere presunzioni desunte dalle osservazioni e dalle dichiarazioni degli agenti infiltrati presenti a bordo della VOS HESTIA. Che peraltro in tempi successivi ritrattavano o ridimensionavano quanto dichiarato in precedenza., arrivando persino a dichiarare il loro “pentimento”. Dalla mera presenza di imbarcazioni di “presunti” trafficanti, peraltro non meglio identificati, nella zona dei soccorsi operati dalla Iuventa, e dalle rotte dei mezzi di servizio della Iuventa durante le operazioni di ricerca e salvataggio, negli atti di accusa, sembrerebbe desumersi invece , direttamente, che vi fosse un accordo tra non meglio identificati trafficanti ( o scafisti?) e parte dell’equipaggio della nave per agevolare l’ingresso “illegale” dei naufraghi in Italia. Mentre è afatto notorio come già in quel periodo, come in tempi più recenti, le Ong fossero sotto tiro, come la condizione dei migranti in fuga dalla Libia fosse terribile e quanto atroci fossero gli abusi ai quali venivano esposti i naufraghi intercettati in alto mare dalla guardia costiera libica e riconsegnati alle milizie che gestivano i centri di detenzione. Da più rapporti internazionali si ricava anche un elevato livello di collusione tra i trafficanti e la guardia costiera libica,che in diverse occasioni minacciava con le armi le navi delle ONG. Sarebbe stato legittimo che i comandanti delle imbarcazioni delle ONG si ritirassero dalla scena dei socccorsi per effetto delle richieste delle autorità libiche ? Secondo l’art. 10 co. 1 Cost., ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute” tra le quali rientra ormai anche il principio di “non-refoulement’ ed a questo principio era improntato il rifiuto dei comandanti delle navi delle ONG che si rifiutavano di collaborare con la sedicente Guardia costiera libica nella intercettazione dei migranti in alto mare e nella loro riconduzione a terra.

Un rapporto  sulla Lbia,  redatto da un gruppo di esperti delle Nazioni Unite,  documentava già nel 2017 come ” gruppi armati, alcuni dei quali hanno ricevuto un mandato o almeno un riconoscimento dalla Camera dei rappresentanti o dal Consiglio di presidenza, non sono stati sottoposti a un controllo giudiziario significativo. Ciò ha ulteriormente aumentato il loro coinvolgimento nelle violazioni dei diritti umani, inclusi rapimenti, detenzioni arbitrarie ed esecuzioni sommarie. I casi indagati dal gruppo comprendono abusi”. Secondo lo stesso rapporto, “Abd al-Rahman Milad (alias Bija), e altri membri della guardia costiera, sono direttamente coinvolti nell’affondamento delle barche dei migranti usando armi da fuoco. A Zawiyah, Mohammad Koshlaf ha aperto un rudimentale centro di detenzione per i migranti nella raffineria di Zawiyah. Il gruppo di esperti scientifici ha raccolto informazioni su abusi contro i migranti da parte di diverse persone (cfr. Allegato 30). Inoltre, il gruppo di esperti scientifici ha raccolto notizie di cattive condizioni nei centri di detenzione dei migranti a Khums, Misratah e Tripoli. Secondo lo stesso rapporto “il capo della guardia delle strutture petrolifere di Zawiyah, Mohamed Koshlaf, noto anche come Kasib o Gsab (v. punti 105 e 258), è coinvolto nell’approvvigionamento di carburante per i trafficanti. Comanda anche la cosiddetta milizia Nasr.81 Suo fratello, Walid Koshlaf, noto anche come Walid al-Hadi al-Arbi Koshlaf, gestisce la parte finanziaria dell’azienda. Il capo della guardia costiera di Zawiyah, Abd al-Rahman Milad (alias Bija) (vedi anche punti 59, 105 e 258), è un importante collaboratore di Koshlaf nel settore dei carburanti.”

Le contestazioni rivolte ai comandanti delle altre navi coinvolti nell’inchiesta ed alle relative ONG si basano soprattutto nelle “false dichiarazioni” sullo svolgersi dei soccorsi che dalle Ong avrebbero trasmesso alla Centrale operativa della Guardia costiera ed alla circostanza che i comandanti ed i capi missione non avrebbero segnalato presunti scafisti presenti tra i naufraghi. Contestazioni che sembrano legarsi soprattutto alle prescrizioni di comunicazione che si volevano imporre con il Codice di condotta Minniti, atto convenzionale che non diventò mai fonte di obblighi giuridicamente vincolanti, ma contribuì in modo determinante, anche a livello mediatico, alla criminalizzazione dei soccorsi umanitari nel Mediterraneo centrale. Si contesta pure che i soccorsi sarebbero stati effettuati nei confronti di imbarcazioni da pritenere ancora in buono stato di navigabilità. Si può invece ritenere che in tutti i casi contestati ricorresse una situazione di pericolo grave ed imminente. La nozione di distress è così stabilita dalla Convenzione di Amburgo del 1979 (Annex, ch. 1, para. 1.3.11): «[…] una situazione in cui vi sia ragionevole certezza che un’imbarcazione o una persona sia minacciata da un pericolo grave ed imminente e che richieda immediata assistenza». A fronte di questa previsione assai generica, il Regolamento europeo Frontex n.656/2014 specifica diversi criteri per accertare se ricorra una situazione di distress che ricorre quando sono ricevute informazioni affermative secondo cui una persona o un natante è in pericolo e necessita di assistenza immediata; oppure quando in seguito a una fase di allarme, ulteriori tentativi falliti di stabilire un contatto con una persona o un natante e più estese richieste d’informazioni senza esito portano a pensare alla probabilità che esista una situazione di pericolo; oppure quando sono ricevute informazioni secondo cui l’efficienza operativa del natante è stata compromessa al punto di rendere probabile una situazione di pericolo. Si deve ritenere al riguardo che proprio per gli indicatori (tra i quali il carico, il bordo libero, la sicurezza del mezzo, il propulsore) già riportati nel Piano SAR nazionale del 1996, in conformità con il manuale IAMSAR e con la convenzione SOLAS, tutte le imbarcazioni sovraccariche di migranti che si trovano a navigare nelle acque internazionali (alto mare) del Mediterraneo centrale, tutte in condizioni di grave sovraccarico, siano da ritenere in una situazione di distress, ovvero di pericolo imminente, senza attendere che la situazione a bordo, come possibili vie d’acqua o il fermo del motore, o le condizioni meteo, divenga talmente grave da comportare la perdita di vite umane. Perdite che infatti si sono verificate in diverse occasioni, nel corso delle “attività di valutazione” da parte delle autorità competenti.

4.7 L’aggiornamento delle ipotesi accusatorie. Navi delle ONG “inadeguate” per attività di ricerca e salvataggio.

Appaiono poi emblematiche di uno “standard” argomentativo ben preciso, anche con riferimento ad accuse rivolte negli anni successivi contro le ONG, la contestazione che le navi non avrebbero avuto i requisiti, mai dimostrati, richiesti dalla legislazione italiana per la categoria delle navi di soccorso, e l’”ingiusto profitto che le società noleggiatrici avrebbero ricavato dalle attività delle navi oggetto di indagine, consistente soltanto nel pagamento di quanto previsto dai contratti di noleggio. Che evidentemente erano stati stipulati in data molto anteriore ai fatti contestati, ed erano ben noti alle autorità italiane che si erano avvalse a lungo delle navi delle ONG poi sottoposte ad indagine, per soccorrere, dal 2016 in poi, diverse decine di migliaia di persone che, dopo il ritiro più a nord delle navi di Frontex e della Guardia costiera italiana, non avrebbero più avuto alcuna possibilità di salvezza.

4.8 Si affaccia la tesi della normale galleggiabilità delle imbarcazioni stracariche di migranti

Per arrivare a sostenere la natura arbitraria dei soccorsi operati dalla Iuventa, che si rivela nulla più che una mera presunzione, si sostiene con gli atti di accusa che le persone a bordo dei barchini non correvano alcun rischio di annegare, come se già il sovraccarico e la mancanza di mezzi di salvataggio non integrasse una situazione di distress. Non si comprende bene sulla base di quali osservazioni e di quali parametri gli inquirenti giungono a quste conclusioni. Che le piu’ recenti sentenze di archiviazione dei procedimenti contro le ONG smentiscono. I comandanti delle navi civili che siano a conoscenza della ricorrenza di un evento SAR, cone si verifica quando hanno notizia della presenza di un imbarcazione sovraccarica in alto mare sono obbligati ad intervenire con la massima rapidità possibile.

L’art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS, resa esecutiva in Italia con legge 2 dicembre 1994 n. 689), dispone che “Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa;
c) presti soccorso, in caso di abbordo, all’altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all’altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa è immatricolata, e qual è il porto più vicino presso cui farà scalo. 2. Ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali”.
Obbligo quest’ultimo che le autorità libiche non avevano certo adempiuto nel 2017, e neppure successivamente, con il concorso della missione NAURAS della Marina militare italiana allora di base a Tripoli.

Non si vede dunque su quale base normativa si possa affermare che le operazioni di salvataggio sarebbero state una sorta di agevolazione dell’immigrazione illegale perchè si sarebbero svolte senza il “coordinamento” della Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC). Come se nei casi di soccorso in mare, la mancanza di coordinamento da parte delle autorità marittime degli Stati costieri cancellasse gli obblighi di soccorso immediato a carico del comandante della nave. Che è l’unica autorità che può valutare da vicino il rischio reale e la ricorrenza di un caso di distress. ’Perchè si possa configurare un evento SAR non occorre una comunicazione formale da parte della Centrale operativa della Guardia costiera (IMRCC) o tanto meno da altre autorità militari o politiche. Il comandante della nave ha comunque un obbligo preciso di intervento immediato in caso di distress, di cui risponde anche con il reato di omissione di soccorso, ed è l’unica autorità competente nella valutazione della situazione di pericolo e quindi nella tempistica dell’intervento, del quale deve soltanto avvisare, appena possibile, le autorità marittime competenti.

In base alla risoluzione (MSC n. 167 del 20 maggio 2004) del Maritime Safety Committee dell’OMI (Organizzazione marittima nternazionale), dal titolo “Guidelines on the Treatment of Persons rescued at Sea”,il governo responsabile per la regione SAR in cui sono stati recuperati i sopravvissuti è tenuto ad individuare il luogo sicuro di sbarco e a fornirlo direttamente o ad accertarsi che tale luogo venga fornito da parte di altro Stato. Nel 2016 e nel 2017 la Libia non poteva garantire porti sicuri di sbarco e non esisteva neppure la finzione della zona SAR libica istituitasoltanto il 28 giugno 2018. Non si poteva collaborare pertanto con la sedicente guardia costiera libica senza infrangere il principio di non refoulement ed il conseguente divieto di respingimenti colletivi, già affermato la Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, verificatosi con respingimenti collettivi in Libia attuati direttamente dalla Guardia di finanza italiana il 6 maggio del 2009.

Il Memorandum d’intesa del 2017 stipulato da Gentiloni e da Minniti non poteva derogare quanto previsto dal diritto internazionale e dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, imponendo nuovi obblighi ai comandanti delle navi soccorritrici, segnatamente di collaborare con le autorità libiche. Secondo l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, “È nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale. Ai fini della presente convenzione, per norma imperativa di diritto internazionale generale si intende una norma che sia stata accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale degli Stati nel suo insieme in quanto norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente lo stesso carattere”.

Non si riscontrano nelle Convenzioni internazionali SOLAS e SAR obblighi di informazione preventivi a carico di un comandante che intervenga per svolgere attività di salvataggio in mare. Si prevede soltanto che la nave soccorritrice proceda al soccorso “informando, se possibile, l’unità in pericolo o l’Autorità SAR”. Attendere del resto che uno Stato costiero riceva una specifica comunicazione da parte della nave soccorritrice potrebbe condannare a morte persone che vanno soccorse immediatamente. Se in presenza di più eventi di soccorso contemporanei una singola imbarcazione in situazione di distress non venga segnalata immediatamente, questa circostanza non permette certo di confgurare una responsabilità penale per agevolazione dell’immigrazione clandestina, soprattutto quando si opera in acque non italiane e quando le stesse persone soccorse vengono trasbordate successivamente in acque internazionali su mezzi coordinati dalla Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC)S.Occorrera’ valutare per questo come si sono formate le prove che vengono addotte nei capi di imputazione, relative a difetti di comunicazione tra le navi delle ONG e la Centrale di coordinamento della Guardia costiera italiana. Se ci sara’ un dibattimento le verifiche documentali e le indagini difensive saranno al centro di ogni udienza.

Sono gli stessi rapporti di attività della Guardia costiera italiana per il 2017 che dimostrano come fosse costante il coordinamento delle ONG da parte della Centrale operativa della stessa Guardia costiera (IMRCC) almeno fino a quando con il Codice Minniti il ministero dell’interno tentava di introdurre norme regolamentari, prive di alcun autonomo rilievo normativo, che però incidevano negativamente anche sui rapporti tra ONG, Guardia costiera ed altre autorità preposte al controllo delle frontiere marittime .Partiva proprio in quel periodo una furiosa campagna di criminalizzazione dei soccorsi umanitari. Tanto che successivamente, in tempi diversi, sia MSF che Save The Children erano costrette a sospendere le proprie attività di soccorso nel Mediterraneo centrale.

4.9. Le anomalie delle attività di inchiesta e le intercettazioni telefoniche di massa

Rispetto alle anomalie riscontrate nella fase di avvio dell’indagine sulla iuventa, poi estesa ad altre ONG, le anomalie riscontrate nelle intercettazioni di giornalisti, avvocati e docenti universitari appaiono poco rilevanti sul piano dell’economia processuale, ma rimangono un inquietante messaggio che si è rivolto a quanti volevano fare chiarezza su questo caso. Ripercorrendo le fasi delle indagini successive al sequestro della nave Iuventa, dal 2018 al 2021, si nota un netto cambio di registro, particolarmente evidente negli atti di conclusione delle indagini preliminari depositati soltanto nel 2021. Le contestazioni infatti sembrano risentire dell’impostazione tipica di altre inchieste relative a navi umanitarie che operavano attività SAR nel Mediterraneo centrale, con tutti i classici temi di accusa che le più recenti sentenze della Corte di Cassazione hanno demolito, costringendo all’archiviazione della maggior parte dei procedimenti penali ancora aperti contro le ONG. Identiche argomentazioni, basate su un presunto comportamento fraudolento delle navi soccorritrici, che si ritrovano adesso nelle posizioni della difesa del senatore Salvini, nel processo Open Arms a Palermo. La stessa difesa del senatore Salvini certamente utilizzerà quanto verrà deciso a Trapani sul caso Iuventa, in caso di rinvio a giudizio degli attuali indagati, per l’ulteriore capovolgimento del processo di Palermo. In modo da nascondere i capi di imputazione a carico dell’imputato dietro una valanga di accuse contro le ONG, anche su materie, come gli obblighi di soccorso in mare, che sono state oggetto di procedimenti chiusi con archiviazione delle accuse contro le ONG e sulle quali la Corte di cassazione, in particolare sul caso Rackete, ha espresso una precisa valutazione di liceità con riferimento al comportamento dei comandanti delle navi e dei capomissione. Se si volesse indagare davvero sulle “consegne concordate”, l’attenzione degli inquirenti dovrebbe rivolgersi nei confronti degli agenti istituzionali che collaborano stabilmente con le autorità libiche nei respingimenti collettivi su delega, vere e proprie “rendition”, piuttosto che sulle ONG che nel corso degli ultimi anni, hanno dovuto svolgere un ruolo di supplenza rispetto agli obblighi di ricerca e soccorso in acque internazionali che gli Stati e gli assetti operativi delle operazioni europee ancora attive (Eunavfor Med) non rispettano più. E intanto la Iuventa rimane a marcire nel porto di Trapani, ormai inutilizzabile per soccorrere altre vite in pericolo in alto mare. Per queste vite, che potranno andare perdute, quali forme di risarcimento saranno possibili?

5. Il caso Libra : dalla “strage dei bambini” nel 2013 alla sentenza del Tribunale di Roma nel 2022.

5.1. Un processo penale tra richieste di archiviazioni ed ostruzionismi di Stato

La sentenza del Tribunale di Roma che ha accertato la prescrizione nel processo sul caso Libra, nel quale si verificò quella che è stata definita “la strage dei bambini”, se chiude il procedimento penale a carico dei due imputati, due alti ufficiali della Guardia costiera e della Marina militare, contiene l’accertamento di gravissime responsabilità istituzionali che si proiettano su decisioni politiche e prassi amministrative ancora attuali. Per una migliore interpretazione di quanto scritto nella sentenza, occorre ascoltare la registrazione delle udienze integralmente disponibile su Radio Radicale. Il quadro che se ne ricava è drammatico, per la sorte di tante persone che interventi di soccorso più tempestivi avrebbero potuto salvare.

I fatti del “naufragio dei banbini” sembravano già accertati da anni in base alle risultanze documentali del dibattimento,, ma la resistenza delle amministrazioni statali coinvolte, le reiterate richieste di assoluzione da parte della Procura, ed i tempi del processo penale, malgrado l’impegno delle parti civili, in particolare dell’avvocato Alessandra Ballerini, fin dall’inizio contraria ad ogni ipotesi di archviazione, hanno impedito la condanna degli imputati, ma non l’accertamento di precise responsabilità penali, rilevanti sul piano civile, malgrado la prescrizione, e di gravi comportamenti omissivi a carico dell’intero sistema italiano di coordinamento dei soccorsi in mare. Va ricordato che dopo questa strage, seguita alla strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, veniva decisa l’Operazione Mare Nostrum, che per un anno operò senza limiti di intervento anche in acque libiche e maltesi. Ma all’inizio del 2015 l’operazione ebbe termine, e dopo un breve periodo, segnato da una maggiore presenza di unità navali europee, nell’ambito della missione Triton di Frontex, con l’arivo della missione europea a guida italiana Sophia di Eunavfor Med e con il ritiro dalle acque internazionali delle unità navali statali italiane ed europee, nel Mediterraneo centrale si venne a creare un vuoto che l’arrivo dele ONG nel 2016 riusciva a compensare solo in parte. Fino a quando procedimenti penali e misure di fermo amministrativo non riducevano la capacità operativa delle navi del soccorso civile.

Il 27 gennaio 2021 il Comitato per i diritti umani dell’ONU aveva affermato una responsabilità concorrente a carico di Italia e Malta per il naufragio dell’11 ottobre 2013. Responsabilità derivante da un inefficace coordinamento tra autorità maltesi e italiane. Da un lato le autorità maltesi non erano prontamente intervenute, nonostante avessero l’obbligo giuridico di farlo. Dall’altro le autorità italiane avevano ritardato il proprio intervento sostitutivo (tra l’altro sollecitato da Malta), pur avendo la possibilità materiale di salvare i naufraghi. Esattamente come adesso ha cnfermato il Tribunale di Roma. Secondo il Comitato ONU,”“Gli stati interessati sono tenuti, in base al diritto internazionale del mare, a prendere provvedimenti per proteggere la vita di tutte le persone che si trovano in una situazione di pericolo in mare”. E ancora ““anche se l’imbarcazione che stava affondando non si trovava nella zona SAR italiana, le autorità italiane avevano il dovere di appoggiare la missione di ricerca e soccorso”. E invece sembra che la situazione di grave pericolo nel quale si trovava l’imbarcazione carica di profughi siriani non fosse stata colta nepure dal comandante della nave Libra che si trovava tra 17 e 24 miglia dal barcone che già da ore stava imbarcando acqua, come comunicato dai suoi occupanti alla Centrale di coordinamento della Guardia costiera di Roma (IMRCC).

Le ricostruzioni fornite dal diversi testimoni, oltre che quelle rese dagli imputati, hanno riprodotto una miriade di segmenti di attività individuali di relazioni inter-istituzionali ed internazionali che non permettono di cogliere facilmente le responsabilità personali dei soggetti ai quali, dopo le prime inequivocabili chiamate di soccorso provenienti dal peschereccio, era riferibile la decisione di non dichiarare immediatamente un evento SAR e di mantenere per ore in stand-by, prima dell’avvio delle operazioni di salvataggio, l’assetto navale militare italiano più vicino al luogo del naufragio, la nave Libra della Marina Militare italiana, allora impegnata con altri assetti italiani in attività di vigilanza pesca (ViPe) nelle acque del Canale di Sicilia.

Senza entrare nel merito delle posizioni soggettive degli imputati, rispettivamente comandante della sezione operazioni reali correnti di Cincnav, il Comando in capo della squadra navale della marina militare, e responsabile della sala operativa della guardia costiera, trattandosi di reati ormai prescritti, riteniamo utile una valutazione di quanto accertato dai giudici come prova di un “crimine di sistema”. Sotto il quale rimangono forse nascoste responsabilità militari e politiche di grado più elevato, autorità ancora oggi impegnate per svuotare la portata degli obblighi di soccorso a carico dello Stato. Un tentativo che ritorna attraverso l’attacco sistematico contro le Organizzazioni non governative che, per la loro stessa presenza nel Mediterraneo centrale, diventano testimoni degli effetti perversi degli accordi con i paesi frontalieri della sponda sud (respingimenti su delega) e delle omissioni o dei ritardi delle autorità statali, nel coordinamento delle attività SAR, sempre più condizionate dalla ricerca del consenso elettorale, piuttosto che dal rispetto di quanto previsto dalle Convenzioni internazionali e dai Regolamenti europei.

5.2. Dalle Convenzioni internazionali al Piano SAR nazionale. Gli obblighi di coordinamento dei soccorsi a carico degli Stati.

Il mancato coordinamento tra autorità responsabili di zone SAR confinanti, la conclamata incapacità di alcuni Stati costieri, come Malta, di garantire tempestivi interventi di soccorso e una rapida individuazione di un porto sicuro di sbarco, la classificazione degli eventi di soccorso come “eventi migratori” da tracciare senza intervenire immediatamente, come se si trattasse di tentativi di immigrazione “clandestina”, sono questioni attuali e rientrano nel conflitto ancora irrisolto tra l’attuale governo italiano, la Commissione europea, e gli Stati di bandiera delle navi delle odiate ONG. Che suppliscono con la loro attività SAR al ritiro delle unità militari prima presenti nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Ancora oggi purtroppo gli obblighi di ricerca e salvataggio a carico delle autorità statali vengono variamente ridotti, o esclusi del tutto, in base ad accordi bilaterali di dubbia legitimità, a seconda che si tratti di dimostrare un maggior rigore nella “difesa dei confini”, sulla quale si sollecita anzi un ulteriore impegno dell’Unione Europea, se non per bloccare lo sbarco a terra dei naufraghi, in modo da acquisire potere contrattuale nella trattativa con altri Stati europei in vista della loro redistribuzione. Senza considerare che queste prassi di “chiusura dei porti” o di “sbarchi selettivi” sono vietate dalle Convenzioni internzionali e da Regolamenti dell’Unione europea, in particolare dal Regolamento n. 656/2014 (Frontex) e dal Regolamento n.604/2013 (Dublino III), oltre che dalla Carta dei diritti fondamemtali dell’Unione Europea (artt.18 e 19) e dalla Costituzione italiana ( artt.2,3,10,117). Come ricorda in diverse occasioni la consolidata giurisprudenza italiana.

Sul piano del diritto interno, e delle responsabilità del governo e delle autorità marittime italiane, è molto importante il richiamo contenuto nella sentenza del Tribunale di Roma al Piano SAR nazionale, come fonte derivata di oblighi vincolanti, per tutte le autorità marittime, anche in acque internazionali non rientranti nella zona SAR italiana, oltre che per i comandanti delle navi, incluse le navi militari come nave Libra. Richiamo che nel caso del procedimento penale adesso concluso si riferiva al Piano SAR nazionale del 1996, che nel 2021 è stato aggiornato con il Piano SAR nazionale 2020, che comunque conferma gli obblighi di coordinamento e di soccorso già contenuti nel precedente piano, in conformità alle relative prescrizioni contenute nel Manuale IAMSAR e nelle Convenzioni internazionali di diritto del mare e di diritto dei rifugiati.

Ancora il 4 ottobre 2021 la procura di Roma aveva richiesto per la seconda volta l’assoluzione degli imputati perchè“il fatto non sussiste”. La sentenza del Tribunale che dichiara la prescrizione del proecdimento contiene invece un accertamento ormai incontestabile di fatti e responsabilità che sono comunque emersi, malgrado l’omertà diffusa e la mancata collaborazione dei competenti ministeri, grazie alle indagini difensive portate avanti dale parti civili che fin dall’inizio hanno denunciato gli ostacoli che venivano frapposti all’accertamento della verità.

5.3. Individuazione della scala gerarchica delle fonti e quindi della tempestività degli interventi dalle prime chiamate di soccorso, fino al momento dell’avvicinamento di nave Libra alla zona del naufragio.

La ricostruzione dei fatti e l’accertamento delle responsabilità non possono prescindere dalla qualificazione giuridica che se ne fornisce, nel sistema delle fonti normative riguardanti i salvataggi in mare, secondo quel principio di gerarchia delle fonti che è più volte richiamato in recenti sentenze della Corte di Cassazione, come nel caso Rackete, Cass.n.6626, 16-20 gennaio 2020, in tema di doveri di soccorso affermati dall’art.18 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) e nel caso Vos Thalassa, (Cass.n.15869, 16 dicembre 2021, sentenza depositata 26 aprile 2022) con una netta riaffermazione del principio di non respingimento, sancito dall’art.33 della Convenzione di Ginevra del 1951, e tanto vale per l’operatore del soccorso marittimo, quanto per chi amministra la giustizia o per gli avvocati delle parti. Quanto previsto da regolamenti amministrativi, o da parte delle autorità marittime competenti, sulle modalità delle attività SAR in acque internazionali non può derogare consolidati principi di diritto internazionale che assumono carattere vincolante nell’ordinamento interno per effetto degli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione italiana.

Dalla sentenza del Tribunale di Roma è emerso con chiarezza che fin dalle prime chiamate di soccorso le autorità italiane erano state chiamate in causa, anche dalle autorità maltesi, per la maggiore vicinanza a Lampedusa, rispetto a Malta, del peschereccio, che già imbarcava acqua, ed a bordo del quale si trovavano pure molti bambini e alcuni feriti. E’ del resto fatto notorio che le autorità maltesi anche quando sono costrette ad assumere il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio (SAR) non dispongono o comunque non inviano loro mezzi navali nella parte meridionale della loro vastissima zona SAR, quasi al limite della cd. SAR “libica” (all’epoca dei fatti neppure dichiarata all’IMO), dove invece intervengono generalmente unità italiane, della Guardia costiera o della Marina Militare. In questo senso basta consultare le varie edizioni dei Dossier annuali della Guardia costiera italiana sui soccorsi nel Mediterraneo centrale, almeno fino al 2018 anno nel quale venivano sospese le pubblicazioni, per avere la prova di come le attività di ricerca e salvataggio nella immensa zona SAR maltese, fossero operate nella maggior parte dei casi da mezzi italiani o, in precedenza, da assetti navali europei, di singoli Stati o nel quadro di operazioni dell’agenzia FRONTEX.

In occasione del naufragio avvenuto poco dopo le ore 17 dell’11 ottobre 2013, le autorità maltesi avevano comunicato la loro assunzione del coordinamento delle attività SAR, ma le autorità italiane, che per prime avevano ricevuto le richieste di soccorso ,non avevano acquisito alcuna certezza sull’effettivo invio di una imbarcazione nella direzione del peschereccio che stava lentamente affondando, tanto che ad un certo punto non riusciva più a proseguire nella sua rotta. Solo a quel momento, attorno alle ore 16 di quello stesso giorno, dunque un ora prima del capovolgimento e dell’affondamento, le autorità maltesi chiedevano alle autorità italiane l’intervento in soccorso della nave Libra, che da ore si trovava a circa venti miglia dallo stesso peschereccio in attività di “ombreggiamento” (sorveglianza senza rendersi visibile). Come si verifica nei casi di “eventi migratori” non ancora classificati come eventi di soccorso (SAR). Il Tribunale di Roma accerta che, anche dopo quella tardiva richiesta proveniente da Malta, le autorità italiana non misero a disposizione quegli assett inavali già vicini alla zona dell’evento, il cui immediato intervento, secondo lo stesso Tribunale, avrebbe potuto evitare o ridurre le vittime.

5.4. Coordinamento imposto agli Stati nelle attività SAR in acque internazionali e rapporto di collaborazione tra le autorità italiane e le autorità maltesi

La sentenza del Tribunale di Roma afronta il tema della ripartizione delle competenze di coordinamento tra i diversi Stati costieri. La normativa internazionale (Convenzione di Amburgo del 1979- SAR e relativi allegati) impone precisi obblighi di collaborazione tra gli Stati costieri titolari di zone SAR confinanti mentre la normativa derivante della legge Bossi Fini del 2002 stabilisce doveri di coordinamento tra le diverse autorità statali coinvolte nelle attività di controllo delle frontiere marittime.

Nel caso della strage dell’11 ottobre 2013 si chiarisce che fin dalle prima chiamate di soccorso si sarebbe dovuto procedere ad un intervento da operare nei tempi e con le modalità più tempestive possibili, come previsto dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare. Di certo nel caso di specie, il principio assoluto di salvaguardia della vita umana in mare non poteva essere sacrificato alle finalità di vigilanza pesca o da un evidente rimpallo di responsabilità tra le diverse autorità marittime italiane e maltesi, che ricevevano le prime chiamate di soccorso ben quattro ore prima del rovesciamento e dell’affondamento del peschereccio.

L’Annesso alla Convenzione di Amburgo del 1979 individua per ogni Stato il Centro di coordinamento di salvataggio marittimo – MRCC (1.3.5 dell’Annesso) come “Centro incaricato di provvedere all’organizzazione dei servizi e di coordinare le operazioni di ricerca e soccorso” in una determinata zona di ricerca e salvataggio. Il Centro è tenuto ad utilizzare er i socorsi anche le unità della Marina militare presenti in zona, che se sono in pericolo vite umane non possono restare, o essere mantenute, in stand by, ed opporre la loro destinazione ad altri impieghi come la Sorveglianza pesca.

Altra importante previsione contenuta nell’Annesso alla Convenzione SAR riguarda la gestione operativa del soccorso marittimo, nella misura in cui si stabilisce che «ogni autorità di ricerca e salvataggio che ha motivo di ritenere che una persona, una nave o altro congegno si trova in una situazione di emergenza, deve al più presto comunicare tutte le informazioni disponibili al Centro di coordinamento di salvataggio o al Centro secondario di salvataggio competente (4.2.3 dell’Annesso)”. Si prevede anche che, “se non vi è un Centro di coordinamento di salvataggio responsabile o se, per qualsiasi ragione, il Centro di coordinamento di salvataggio responsabile non è in grado di coordinare la missione di ricerca e di salvataggio, i mezzi che partecipano dovrebbero designare di comune accordo un coordinatore sul posto (4.7.3 dell’Annesso)”. A tale riguardo si potrebbero ravvisare responsabilità che vanno ben oltre la posizione soggettiva dei due uficiali della Guardia costiera e della Marina imputati nel processo Libra. Non erano certo loro ai vertici delle catene di comando che avrebbero dovuto adottare decisioni “coordinate” a livello interstatale, in modo da supplire tempestivamente ai notori ritardi delle autorità maltesi.

Secondo quanto previsto dall’art. 11 del T.U. 286/98 sull’immigrazione, modificato dalla legge n.189 del 2002, “1-bis. Il Ministro dell’interno, sentito, ove necessario, il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, emana le misure necessarie per il coordinamento unificato dei controlli sulla frontiera marittima e terrestre italiana. Il Ministro dell’interno promuove altresì apposite misure di coordinamento tra le autorità italiane competenti in materia di controlli sull’immigrazione e le autorità europee competenti in materia di controlli sull’immigrazione ai sensi dell’Accordo di Schengen, ratificato ai sensi della legge 30 settembre 1993, n. 388”. Lo stesso articolo 11 veniva così integrato: «9-bis. La nave italiana in servizio di polizia, che incontri nel mare territoriale o nella zona contigua, una nave, di cui si ha fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto illecito di migranti, può fermarla, sottoporla ad ispezione e, se vengono rinvenuti elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di migranti, sequestrarla conducendo la stessa in un porto dello Stato; 9-ter. Le navi della Marina militare, ferme restando le competenze istituzionali in materia di difesa nazionale, possono essere utilizzate per concorrere alle attività di cui al comma 9-bis. 9-quater. I poteri di cui al comma 9-bis possono essere esercitati al di fuori delle acque territoriali, oltre che da parte delle navi della Marina militare, anche da parte delle navi in servizio di polizia, nei limiti consentiti dalla legge, dal diritto internazionale o da accordi bilaterali o multilaterali, se la nave batte la bandiera nazionale o anche quella di altro Stato, ovvero si tratti di una nave senza bandiera o con bandiera di convenienza. 9-quinquies. Le modalità di intervento delle navi della Marina militare nonché quelle di raccordo con le attività svolte dalle altre unità navali in servizio di polizia sono definite con decreto interministeriale dei Ministri dell’interno, della difesa, dell’economia e delle finanze e delle infrastrutture e dei trasporti.

In attuazione degli articoli 11 e 12 della stessa legge Bossi-Fini veniva adottato il Decreto interministeriale del 14 luglio 2003 (pubblicato sulla G.U. Serie generale n. 220 del 22 settembre 2003) che dettava le regole di comportamento per gli assetti aero-navali della Marina militare, delle Capitanerie di Porto e delle Forze di Polizia impegnate nelle attività di controllo delle frontiere marittime, stabilendo che “l’azione di contrasto deve essere sempre improntata alla salvaguardia della vita umana e al rispetto della dignità della persona” (art. 7, co. 1). Nel quadro dei vasti poteri di indirizzo attribuiti al Ministero dell’interno, l’art. 5, comma 4 del decreto individuava, per quanto concerne le acque internazionali, nel Comando in capo della squadra navale (CINCNAV), il «raccordo delle fasi di pianificazione» dell’attività di prevenzione e contrasto dell’immigrazione clandestina via mare, mentre rimanevano confermate le competenze prevalenti della Guardia di finanza nella zona contigua e della Guardia costiera nelle acque territoriali. Non veniva però derogata la normativa internazionale, contenuta nel Manuale IAMSAR e nelle Convenzioni internazionali di diritto del mare, che stabiliva la competenza generale dei MRCC per ciascuno Stato, in ordine alle attività di ricerca e salvataggio, generalmente definite come SAR ( Search and rescue) sia all’interno delle acque territoriali che in acque internazionali. Come peraltro ribadivano i Piani SAR nazionali del 1996 e del 2020.

Con riferimento al decreto interministeriale del 14 luglio 2003, pubblicato sulla G.U. serie generale n. 220 del 22 settembre 2003, in ordine agli interventi nelle acque internazionali, (L. Salamone, Polizia marittima ed antimmigrazione alla luce della recente normativa, in Diritto & Diritti, all’indirizzo www.Diritto.it, gennaio 2004,) osservava che “in particolare, per quanto concerne le Unità della Marina militare, sembra potersi ritenere che, in conformità a quanto già previsto, seppur in linea generale, nell’art. 12 del TU n. 286/1998 e successive modifiche, permanga, in capo alla stesse, una competenza primaria finalizzata all’espletamento dell’azione di controllo in acque internazionali (art. 3 co. 2), salvo, tuttavia, come detto, l’utilizzo delle suddette Unità per concorrere, nei casi di necessità ed urgenza, all’attività di cui all’articolo 12 del TU n. 286/1998 (concorso nell’espletamento dell’attività di polizia giudiziaria). Pertanto, nell’ambito delle acque internazionali, le Unità della Marina militare, ai sensi e per gli effetti del combinato disposto degli artt. 4, co. 1 lett. b) e 5, co. 1, dovranno assicurare una costante attività di sorveglianza finalizzata alla localizzazione, alla identificazione ed al tracciamento di natanti sospettati di traffico di clandestini”. Non si può che prendere atto che nel corso degli anni, mentre le Convenzioni internazionali ed i Regolamenti europei non sono sostanzialmente mutati, le diverse posizioni delle autorità di governo hanno fortemente influenzato i rapporti tra Guardia costiera e Marina militare, e le intese operative con le autorità marittime e politiche dei paesi titolari di zone SAR confinanti con quella italiana. Qualunque nave militare, comunque, anche se impegnata in attività di sorveglianza di frontiera o di vigilanza pesca, se si ha notizia di imbarcazioni in stato di pericolo, e si trova nelle condizioni di raggiungere tempestivamente persone in pericolo in mare, ha l’obbligo di intervenire con la massima tempestività, sotto il coordinamento delle autoritò statali di riferimento.

Per i giudici del Tribunale di Roma, la norma fondamentale per la comprensione degli eventi, che vale anche quando il coordinamento dell’evento sia stato assunto da un altro paese dell’Unione Europea competente per aria SAR, è costituita dall’articolo 5 del DPR 28 settembre 1994 n. 662, decreto attuativo della Convenzione di Amburgo (SAR) del 1979, che impone di tenere i contatti con i centri di coordinamento del soccorso degli altri Stati anche quando l’intervento avvenga fuori dalle acque territoriali e della zona SAR di competenza italiana. In base a questa norma “ Il centro nazionale di coordinamento di soccorso marittimo (I.M.R.C.C.), i centri secondari di soccorso marittimo (M.R.S.C.) e le unita’ costiere di guardia (U.C.G.), secondo le rispettive competenze, coordinano o impiegano le unita’ di soccorso. L’I.M.R.C.C. e gli M.R.S.C. richiedono agli alti comandi competenti della Marina militare e dell’Aeronautica militare, in caso di necessita’, il concorso dei mezzi navali ed aerei appartenenti a tali amministrazioni dello Stato. Parimenti le U.C.G. richiedono alle altre amministrazioni dello Stato o a privati il concorso di mezzi navali ed aerei, ritenuti idonei per partecipare alle operazioni di soccorso marittimo secondo le procedure e le modalita’ previste dal decreto del Ministro della marina mercantile 1 giugno 1978, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 174 del 27 giugno 1979. 2. Il comando e il controllo operativo dei mezzi navali o aerei della Marina militare, dell’Aeronautica militare e delle altre amministrazioni, eventualmente chiamati a concorrere alle operazioni di soccorso marittimo, sono esercitati dai rispettivi comandi competenti per giurisdizione, che terranno informati i centri di soccorso marittimo (I.M.R.C.C. – M.R.S.C. – U.C.G.) responsabili del soccorso e del coordinamento, secondo le rispettive competenze. 3. Il compito di “comandante sul posto” (OSC – ufficiale in comando tattico) dei mezzi della Marina, dell’Aeronautica, del Corpo delle capitanerie di porto, della Guardia di finanza, dei Carabinieri, della Polizia di Stato e delle altre amministrazioni eventualmente concorrenti, e’ assegnato al comandante del mezzo navale della Marina militare o del Corpo delle capitanerie di porto, di maggiore anzianita’ di grado. Nel caso che sul posto non dovessero trovarsi ad operare unita’ della Marina militare e del Corpo delle capitanerie di porto, il compito di “comandante sul posto” sara’ assegnato al comandante di unita’ navale della Guardia di finanza, dei Carabinieri, della Polizia di Stato o delle altre amministrazioni dello Stato, di maggiore anzianita’ di grado. 4. Il “comandante sul posto” nella condotta dell’operazione di ricerca e salvataggio si conforma alle direttive specifiche emanate dall’I.M.R.C.C. o dall’M.R.S.C./U.C.G. delegato. 5. Se in zona sono presenti soltanto unita’ mercantili, l’I.M.R.C.C. o il M.R.S.C./U.C.G. delegato, piu’ idoneo in relazione allo svolgimento dell’operazione di soccorso, assegna il compito di coordinatore delle ricerche in superficie (CSS) al comandante di una delle unita’ mercantili presenti. A tal fine deve essere tenuto conto della tipologia delle navi e dei mezzi di cui dette unita’ dispongono e della rispettiva ora stimata di arrivo sul posto. Al momento in cui assume le funzioni, il CSS deve darne immediata comunicazione all’I.M.R.C.C. o al M.R.S.C. o al U.C.G., che operano secondo le rispettive competenze. 6. Il coordinatore delle ricerche di superficie di cui al comma 5 opera sotto il controllo dell’I.M.R.C.C. o del M.R.S.C. o dell’U.C.G. delegato in relazione allo svolgimento dell’operazione di soccorso marittimo. Il M.R.S.C. o l’U.C.G. tengono informato il centro di coordinamento superiore interessato.

I giudici romani ricordano al riguardo l’articolo 3.1.7 della Convenzione di Amburgo (SAR) del 1979, secondo cui “ciascuna Parte dovrebbe autorizzare i propri centri di coordinamento di salvataggio a fornire, su richiesta, l’assistenza ad altri centri di coordinamento di salvataggio ed in particolare a mettere a loro disposizione navi, aeromobili, personale o materiale”.Secondo questa norma, interpretata nel suo senso più ampio, i centri di coordinamento e salvataggio (MRCC) dovrebbero esere “autorizzati” da una autorità gerarchicamente sovraordinata a fornire su richiesta assistenza ad altri MRCC di Stati titolari di zone SAR confinanti. Non si trova però nella sentenza, e nell’intero procedimento penale, la compiuta identificazione di queste autorità che dovrebbero essere autorià militari di livello più elevato, per gestire rapporti internazionali, ed autorità politiche titolari del potere di concludere accordi con paesi stranieri. Emerge invece dalla sentenza dei giudici romani come le autorità italiane, direttamente responsabili del coordinamento dei soccorsi, avessero “nascosto” per ore alle autorità maltesi la presenza della nave Libra in prossimità del barcone che imbarcava acque e dal quale continuavano a partire richieste di soccorso sempre più angosciate. Secondo quanto accertato nella stessa sentenza, le autorità italiane erano venute meno agli obblighi di informazione stabiliti dalle Convenzioni internazionali. Mentre le autorità maltesi, a loro volta, malgrado un loro aereo avesse sorvolato più volte il barcone in evidente difficoltà, tardavano a dichiarare una situazione di distress e a chiamare in causa le autorità italiane, come poi avvenne meno di un’ora prima del ribaltamento e dell’affondamento del barcone.

Nella lunga vicenda processuale si staglia la testimonianza dal dott. Jamou, resa nell’udienza del 29 aprile 2021:“con la parte italiana io personalmente ho provato di chiamare, o meglio,ho provato 4-5 volte di comunicargli. La prima volta mi ha risposto un uomo, laseconda volta una donna, poi dopo un uomo, una donna, che cercavano di dirmi semprela stessa cosa. “Dove siete? A che punto siete?” appunto come distanza, e misuggerivano di contattare le autorità maltese in quanto più vicino alla Malta cheall’Italia, cioè che a Lampedusa. Ho contattato naturalmente poi dopo le autoritàmaltese per chiedere appunto la stessa cosa, l’aiuto, eccetera, e anche quelli lì, quellimaltese continuavano a dirmi che siete più vicini all’Italia, quindi contattate l’Italia, leautorità italiane”. Quanto affermato dal superstite, che era poi la persona che per tutto quel pomeriggio dell’11 ottobre 2013 aveva comunicato con le autorità italiane e maltesi, trova conferma nelle registrazioni delle telefonate e nelle dichiarazioni di tutti i testimoni e, più di qualunque tracciato o supporto informatico, fornisce la misura dello stato di abbandono in mare nella quale si trovavano i migranti nelle ore antecedenti il ribaltamento ed il naufragio del peschereccio. Questa situazione derivava dall’omissione del trasferimento ai maltesi di informazioni decisive, e dal mancato coordinamento delle autorità italiane e maltesi, che per almeno due ore, malgrado la ricongizione aerea di un assetto maltese che sorvolava il barcone in dificoltà, escludevano la ricorenza di un caso di distress, tale da imporre un immediato intervento di soccorso, e poi da un ulteriore ritardo, riscontrato dal Tribunale di Roma, nelle comunicazioni tra Guardia costiera e Marina militare italiana. Autorità tra cui nel corso degli anni non sono mancati conflitti di attribuzione. In quella tragica giornata, sempre secondo quanto accertato dal tribunale di Roma, ore preziose venivano perse per fare interrompere alla nave Libra la missione di vigilanza e pesca e quindi indirizzarla verso l’evento SAR in corso.

Secondo quanto ha dichiarato nella sua audizione del 31 maggio 2021 dall’ammiraglio Foffi, La vigilanza pesca non poteva essere interrotta se non in due casi: lo Stato Maggiore mi diceva comandando che voleva sospendere la vigilanza pesca, per qualunque motivo loro lo potevano fare, oppure… e nel caso specifico se c’era un SAR non c’erano subbi per noi, doveva essere semplicemente sospesa la ViPe senza chiedere nessuna autorizzazione e dedicarci al SAR”. Ammesso pure che una imbarcazione militare impegnata in una missione stabilita dai comandi più alti, non possa essere distolta dai suoi compiti operativi senza un preciso ordine del superiore gerarchico, anche a causa del ritardo dell’accertamento di una situazione di distress, questo sistema gerarchico non sembra aver garantito tempestivi interventi di soccorso a fronte della ripartizione di competenze tra l’IMRCC, responsabile dei soccorsi in mare, e il CINCNAV che coordina i movimenti delle unità militari in acque internazionali, unità destinate a compiti di contrasto dell’immigrazione irregolare, ma anche al socorso delle imbarcazioni in distress, e dunque al salvataggio di vite umane in pericolo.

5.5. Determinazione e distinzione di un evento di ricerca e soccorso (evento Sar) che come tale impone un intervento immediato di qualunque autorità che ne venga a conoscenza, rispetto a quelle situazioni di avvistamento che vengono comunemente definibili come “eventi migratori

Il diritto dei Trattati (come la Convenzione di Vienna del 1969) e gli Emendamenti del 2004 alle Convenzioni internazionali di diritto del mare, richiamati dal Manuale IAMSAR, rafforzano l’esigenza di una interpretazione integrata delle varie disposizioni relative ai salvataggi in mare, da coordinare con le previsioni delle Convenzioni che garantiscono i diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo che impediscono di considerare come reato l’ingresso nel territorio di una persona che fa richiesta di protezione. In tutti i trattati internazionali la salvaguardia della vita umana in mare prevale sulle attività di controllo delle frontiere marittime e dunque sugli interventi e sulle modalità operative di polizia di frontiera.

In base all’art. 98 della Convenzione UNCLOS di Montego Bay del 1982, che sancisce l’obbligo di prestare soccorso, ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri, presti soccorso a chiunque sia trovato in
mare in condizioni di pericolo; e proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa. In base alla stessa Convenzione, ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali. Tale obbligo di collaborazione ai fini del soccorso in mare è ulteriormente specificato in altre Convenzioni internazionali di diritto marittimo, come la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (SOLAS) del 1974 e la Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il soccorso in mare (SAR) del 197926.

La sentenza del Tribunale di Roma riprende a tale proposito la distinzione tra le diverse tre fasi delle attività svolte da Guardia Costiera e Marina Militare in occasione dell’ avvistamento di imbarcazioni cariche di migranti in navigazione verso le coste italiane, riconducibili alle fasi di incertezza (INCERFA) di allerta (ALERTFA) e di pericolo (DESTREFA), nozioni individuabili nel Piano SAR nazionale del 1996, in vigore all’epoca dei fatti oggetto del procedimento. La sentenza non approfondisce la questione su quali fossero le autorità chiamate a decidere sulla qualificazione dell’evento da ricondurre ad una di queste tre diverse fasi e quindi determinare l’azione immediata di soccorso, piuttosto che un’attività di controllo da lontano, cosiddetto ombreggiamento.

La nozione di distress è stabilita dalla Convenzione di Amburgo del 1979 (Annex, 1, para. 1.3.11) “a) situationwherein there is a reasonable certainty that a vessel or a per-son is threatened by grave and imminent danger and requiresimmediate assistance”. Se ricorre una situazione di distress in alto mare il comandante di qualsiasi nave, è dunque obbligato ad intervenire con la massima rapidità, anche senza attendere indicazione da parte delle competenti autorità marittime o politiche

Il Piano SAR nazionale del 1996, strettamente derivante dal manuale IAMSAR, assegnava un rilievo particolare alla «classificazione» degli eventi SAR e distingueva nell’ambito degli eventi di ricerca e salvataggio (SAR) tra una fase di incertezza, una fase di allerta, e una fase di pericolo (destrefa) stabilendo, a seconda delle diverse fasi, gli obblighi di intervento e le responsabilità statali e delle competenti autorità marittime. Lo stesso Piano imponeva che la notizia di un evento di soccorso dotata di un minimo di attendibilità dovesse essere considerata veritiera a tutti gli effetti e dunque tale da fare scattare doveri di comunicazione e di sorveglianza ed, in caso di distress, l’obbligo di intervento immediato dell’autorità SAR che per prima ne fosse venuta aconoscenza, almeno fino a quando non vi fosse certezza dell’intervento dell’autorità competente per zona. Spettava poi ai governi ed alle relative autorità marittime e militari, in particolare ai Centri di coordinamento del soccorso (MRCC), il completamento degli obblighi di salvataggio posti a carico dei comandanti delle navi in mare, assicurando nelle rispettive aree di responsabilità SAR un’efficiente organizzazione dei servizi di ricerca e soccorso (Marittime Rescue Coordination Centre o MRCC), in grado di gestire le comunicazioni di emergenza e di coordinare le operazioni in modo tale da garantire il salvataggio delle persone ed, in collaborazione con il Ministero dell’interno, il loro sbarco in un luogo sicuro.

All’avvistamento diretto del natante da soccorrere può essere ricondotta non solo la individuazione della rotta ed il suo tracciamento a distanza, ma anche l’intervento immediato di soccorso, quando emergano elementi circostanziati che facciano presumere un pericolo imminente (distress). Come si verifica nel caso di barconi sovraccarichi, a notevole distanza dalla costa, senza dotazioni di sicurezza ed in condizioni di galleggiabilità precaria. In presenza di queste situazioni la circostanza che il barcone continui a procedere a motore, avanzando lentamente verso le coste italiane, non può essere ritenuta un elemento che esclude la ricorrenza di una situazione di distress e dunque di un evento di ricerca e soccorso qualificabile come evento SAR. Malgrado quanto disposto dalle Convenzioni internazionali e dai loro annessi, sono migliaia di vittime che si sono dovute contare nel corso degli anni. Eppure le stesse Convenzioni internazionali, peraltro richiamate dal Regolamento Frontex n.656 del 2014, confermano come il lento moto di una imbarcazione carica di migranti verso le acque territoriali italiane non escluda il rischio frequente di naufragio. Come si era verificato del resto anche nel 2013, pochi giorni prima del naufragio oggetto del processo Libra, con la strage di Lampedusa del 3 ottobre di quell’anno. Come si è continuato a verificare negli ultimi anni, a causa della perdurante mancanza di collaborazione delle autorità maltesi e dei ricorrenti ostacoli frapposti alle attività di ricerca e salvataggio delle ONG, mentre gli Stati hanno ritirato all’interno delle acque territoriali i loro assetti di ricerca e salvataggio, prima presenti in acque internazionali.

Nel mese di ottobre del 2009, venivano adottate, dal Comandante generale del Corpo delle Capitanerie di Porto, le “Linee Guida per l’impiego delle risorse SAR nelle aree situate al di fuori della SRR Italiana nel corso di eventi riguardanti il controllo del flusso dei migranti”. In base a tali linee guida, a seguito di segnalazione all’IMRCC dell’avvistamento di un’unità navale non identificata in navigazione oltre i limiti della SRR Italiana, che verosimilmente trasporta migranti in direzione delle coste nazionali, lo stesso IMRCC deve provvedere alla diffusione delle informazioni relative all’evento stesso secondo le previsioni dell’accordo tecnico operativo per gli interventi connessi con il fenomeno dell’immigrazione clandestina via mare, di cui al decreto interministeriale 14 luglio 2003. A questo punto la Centrale operativa, ai sensi del punto 4.2.4 della Convenzione SAR del 1979, nella sua veste di IMRCC, procede immediatamente all’acquisizione delle informazioni necessarie e valuta l’evento sotto il profilo della salvaguardia della vita umana in mare, onde determinare se ricorrano condizioni di pericolo grave e imminente e necessità di immediata assistenza per gli occupanti dell’unità. A tal fine le unità aeronavali eventualmente presentinella scena d’azione avrebbero dovuto provvedere ad acquisire e trasmettere, con il mezzo di comunicazione più idoneo, secondo quanto previsto dal punto 4.4 della Convenzione SAR del 1979, all’IMRCC i seguenti elementi per la classificazione dell’evento: posizione geografica, ora dell’avvistamento, condizioni meteo-marine, dimensioni e tipologia dell’unità, suo bordo libero (galleggiamento), numero delle persone a bordo e loro condizioni fisiche, eventuale presenza tra essi di donne in stato di gravidanza, bambini, malati, traumatizzati, presenza di cadaveri nei pressi dell’unità; dotazioni di sicurezza presenti a bordo, elementi del moto, altri elementi utili a discrezione del rapportante.

Dalle linee guida adottate dal Comando del Corpo delle Capitanerie di Porto nel 2009 sembra dunque che le attività SAR delle unità militari italiane in acque internazionali fossero previste solo in caso di pericolo imminente per la vita delle persone, quindi a seguito della dichiarazione di una situazione di destrefa, in base ad una valutazione caratterizzata dalla discrezionalità tecnica, ma pur sempre vincolata ai parametri internazionali, delle autorità marittime, ed in particolare, della Centrale operativa della Guardia costiera – IMRCC di Roma, sulla base ovviamente di quanto comunicato o di quanto accertato dalle unità operative. Si deve però aggiungere che proprio per gli indicatori (tra i quali il carico, il bordo libero, la sicurezza del mezzo, il propulsore) già riportati nel Piano SAR nazionale del 1996, tutte le imbarcazioni sovraccariche di migranti che si trovavano a navigare nelle acque internazionali (alto mare) del Mediterraneo centrale fossero da ritenere in una situazione di distress, ovvero di pericolo imminente, senza attendere che la situazione a bordo o le condizioni meteo diventassero talmente gravi da comportare la perdita di vite umane. Si deve anche ricordare che, sulla base di diverse sentenze di condanna della magistratura penale (sentenze dei Tribunali di Messina, di Milano e di Catania) a carico di scafisti, i giudici hanno messo bene in evidenza le condizioni di insicurezza permanente o di totale assenza delle condizioni di navigabilità delle imbarcazioni sulle quali venivano trasportati i migranti.

Durante tutta l’Operazione Mare Nostrum, successiva alle stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, le autorità italiane abbandonavano le “Linee Guida per l’impiego delle risorse SAR nelle aree situate al di fuori della SRR Italiana” che poi venivano totalmente disattivate dal Regolamento europeo n.656 del 2014, che definiva la portata delle situazioni di distress ed imponeva agli Stati il socccorso immediato anche al di fuori delle zone SAR di propria competenza. In seguito, governi di diverso indirizzo politico ritornavano ad un impiego delle navi militari italiane della Guardia costera più centrato sulle acque territoriali, mentre calava drasticamente il numero dei soccorsi operati dalle navi della Marina militare italiana, comunque presenti con funzioni di vigilanza nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale.

Nel caso Libra, ma anche in molti casi più recenti, rimane comunque centrale la valutazione operata dalla Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC) sulla ricorrenza di un pericolo immediato per la sicurezza delle persone a bordo (detresfa) tale da classificare l’evento come “SAR”, facendo scattare in questo modo tutte le attività di soccorso previste dal Decreto del Presidente della Repubblica n.. 662/1994 , concernente adesione alla Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, adottata ad Amburgo il 27 aprile 1979. e dal Piano nazionale SAR del 1996. approvato con Decreto del ministro delle infrastrutture del 25 novembre 1996. Non può non stupire come in occasione el naufragio dell’1 ottobre 2013, le autorità italiane non si siano neppure poste il problema dell’accertamento immediato di una situazione di distress e si siano fidate dell’assunzione di responsabilità di coordinamento da parte dei maltesi, quando la conferma di tale responsabilità, secondo quanto accertato dal Tribunale di Roma, veniva inviata con una comunicazione formale a mezzo fax, soltanto due ore dopo le prime chiamate di soccorso ed il trasferimento di competenze dall’Italia, primo paese contattato, alle autorità di La Valletta. Da quanto emerso dalle testimonianze e dai riscontri documentali nel corso del dibattimento, solo dalle 16.22 del 11 ottobre 2013, con l’invio di un fax dalle autorità maltesi, che avevano inviato un velivolo per verificare la situazione, si chiedeva da parte delle autorità di La Valletta, che finalmente avevano assunto effettivamente con il loro MRCC, il coordinamento delle attività SAR, l’ intervento di una unità militare italiana, appunto la nave Libra, con l’evidente finalità di portare un soccorso immediato al barcone che era ormai sul punto di capovolgersi, come avveniva qualche decina di minuti più tardi, poco dopo le ore 17 di quello stesso giorno.

Nella sentenza del Tribunale di Roma, come già era emerso nel corso del processo, si svela chiaramente l’inadeguatezza dei mezzi maltesi rispetto all’estensione dell’area SAR loro attribuita. Era del resto evidente -osservano i giudici- come da decenni addietro Malta si fosse attribuita una zona Sar sovradimensionata e che Malta, pur sempre paese dell’Unione Europea, sia un’isola di piccole dimensioni con una popolazione assai inferiore a quella del nostro paese. Nella sentenza si osserva anche come la zona SAR maltese si incunei tra la Libia e l’Italia e generi contenziosi tanto che in molte occasioni MRCC (Centrale di coordinamento) Malta non risponde alle richieste italiane anche per la insufficienza di mezzi, comunque ben nota a tutte le autorità. Arrivando ad estendere la portata di questo accertamento ai giorni nostri, perdono fondamento tutte le accuse che si continuano a rivolgere alle navi umanitarie delle ONG quando, pur trovandosi in acque internazionali all’interno della zona SAR maltese, rivolgono all’Italia e non a Malta le richieste di coordinamento delle attività di soccorso fino alla indicazione di un porto sicuro di sbarco.

Nel caso della strage del’11 ottobre 2013 non si può dunque ritenere che le autorità italiane, ed in particolare la Centrale operativa della Guardia costiera (IMRCC) e il Comando generale della Marina CINCNAV, potessero ritenere esclusa una loro attività di ricerca e salvataggio (SAR) solo sulla base di una frettolosa qualificazione della vicenda come “evento migratorio” e del successivo trasferimento di competenze alle autorità maltesi, che soltanto poche ore dopo dichiaravano per l’ennesima volta la loro incapacità, o la loro non volontà, di intervenire direttamente con l’invio di un mezzo navale da La Valletta. Alla fine tuttavia era proprio un mezzo navale maltese che raggiungeva la zona dei soccorsi, ma ormai la strage si era compiuta. Si può davvero credere che le telefonate provenienti dal barcone già quattro ore prima del suo affondamento non fossero “informazioni di pericolo” corispondenti ad una situazione conclamata di distress?

Rimane dunque decisiva la distinzione tra un evento SAR di ricerca e salvataggio, ed un evento migratorio “irregolare”, che può essere anche monitorato senza un intervento immediato di salvataggio. Un “accordo tecnico interministeriale” non può derogare le Convenzioni internazionali e non può contemplare la possibilità di distinguere arbitrariamente tra un “evento migratorio” ed un “evento SAR” in modo da ridurre la portata effettiva degli obblighi di ricerca e salvataggio fissati dalle stesse Convenzioni internazionali a carico degli Stati. I migranti in difficoltà in mare non sono oggetti da respingere al mittente, come un carico, o da abbandonare in acque internazionali, senza garantire la immediata salvaguardia della vita umana in mare, magari per evitare che possano fare ingresso “per ragioni di soccorso” nel nostro territorio. La sentenza del Tribunale di Roma, pur dichiarando la prescrizione, arriva ad accertare un preciso atteggiamento elusivo da parte delle autorità italiane per evitare un possibile coinvolgimento nell’evento fin dalle ore 13:34, di quell’11 settembre del 2013, sebbene giungesse notizia alle ore 13:47 che lo scafo alla deriva imbarcasse acqua. “Sotto il profilo eziologico”, il Tribunale osserva che il ribaltamento del barcone sarebbe stato certamente scongiurato se gli imputati avessero assicurato, fin dalle ore 13:47 di quel terribile giorno, l’avvicinamento di Nave Libra al barcone, già danneggiato dai colpi d’arma da fuoco sparati dai libici e che imbarcava acqua. Oltre a tacere la posizione della nostra nave militare alla Centrale di coordinamento (MRRC) di Malta nel fax inviato alle ore 15:08, Circostanze accertate nel corso del giudizio che avrebbero aggravato il tragico bilancio finale di dispersi. Secondo la sentenza che dichiara la prescrizione, ma accerta anche fatti e responsabilità precise, l’arrivo sul posto della nave della Marina militare, anche se in ritardo e non del tutto risolutiva, con altra probabilità statistica e logica, avrebbe significativamente diminuito il rischio dell’evento o comunque avrebbe potuto avere conseguenze significative nella riduzione del numero delle vittime. Le possibili contestazioni da rivolgere alle autorità maltesi non riducono l’area di resaponsabilità delle autorità italiane, principio di grande rilievo anche rispetto a vicende più recenti che hanno visto su posizioni contrapposte Malta e Italia, che non trovano un accordo nepure sulla esatta delimitazione delle zone SAR, che in due punti, a sud di Lampedusa e a sud est di Capo Passero, risultano parzialmente sovrapposte. E dovrebbe essere a tutti noto, in particolare alle autorità marittime italiane, che Malta non ha mai ratificato gli emendamenti alla Convenzione SAR introdotti dall’IMO nel 2004.

Anche per il Tribunale di Roma non sono dunque ammissibili, da parte delle autorità marittime di coordinamento, indicazioni di stand by, di non avvicinarsi alle imbarcazioni in difficoltà in acque internazionali (altrimenti definite “alto mare”) per non intralciare il coordinamento SAR di altri Stati, o peggio, per non dissuadere questi Stati dall’invio di loro mezzi di soccorso. Per arrivare a dichiarare un evento SAR non occorre giungere al ribaltamento di un barcone, come si verificò in quel terribile 11 ottobre 2013. La sentenza del Tribunale di Roma restituisce uno scenario terribile, emerso dalle testimonianze dei due imputati, oltre che dalle precise denunce delle vittime, corroborato da riscontri documentali e telematici, e definisce precise responsabilità in capo ai vertici dei sistemi di coordinamento delle autorità marittime italiane tenute a coordinare attività di soccorso in acque internazionali, la Guardia costiera con il supporto operativo della Marina militare. Rimangono sullo sfondo le responsabilità dei vertici militari e delle autorità politiche che avevano fornito alle Centrali di coordinamento l’indirizzo operativo per evitare l’assunzione di responsabilità delle attività di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali, al di fuori della zona SAR italiana. Una questione che rimane aperta ancora oggi, quando si prospettano provvedimenti amministrativi che potrebbero risultare in contrasto con gli obblghi di soccorso previsti a carico degli Stati dalle Convenzioni internazionali e dal Regolamento europeo Frontex n.656 del 2014.

6. Il caso Open Arms nel 2018 ed il trasferimento delle indagini da Catania a Ragusa-

6.1 La originaria imputazione per associazione per delinquere

fatti risalgono al 15 marzo del 2018, quando il nostro rimorchiatore, l’Open Armssu esplicita richiesta delle autorità italiane, intervenne in soccorso di 218 persone che, dopo l’evacuazione urgente di una donna e di un neonato, vennero fatte sbarcare in seguito nel porto di Pozzallo.

Dopo una prima inchiesta aperta dalla Procura distrettuale di Catania, venivano contestati dalla Procura di Ragusa, ritenuta competente per territorio, i reati di violenza privata e associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. Il GIP presso il Tribunale di Catania decideva di non ravvisare elementi idonei a fondare l’esistenza di quel legame associativo, ma stabiliva tuttavia che “non poteva essere consentito alle ONG di creare autonomi corridoi umanitari al di fuori del controllo statuale e internazionale, forieri di situazioni critiche all’interno dei singoli paesi sotto il profilo dell’ordine e della sicurezza”.

Veniva dunque contestato al comandante e alla capo missione il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di violenza privata per aver disatteso le indicazioni delle autorità italiane, che dopo aver richiesto l’intervento della Open Arms, pretendevano la cessazione delle operazioni per consentire l’intervento della sedicente guardia costiera libica; e per non aver richiesto indicazione di un POS a Malta proseguendo la navigazione verso il porto di Pozzallo.

Il decreto del gip di Catania, che convalidava il sequestro preventivo disposto dalla Procura di Catania, evidenziava l’ordine di “stand by” alla nave Open Arms, il 15 marzo 2017, impartito dalle autorità italiane. Secondo il magistrato «il coordinamento (delle motovedette di Tripoli, n.d.a.) è sostanzialmente affidato alle forze della Marina militare italiana, con i propri mezzi navali e con quelli forniti ai libici». I

n questo modo si scopriva una duplice catena di comando a gerarchia variabile, in cui si affidava sostanzialmente ai libici la scelta di come e quando intervenire. Fino al punto di interrompere una attività Sar, che avrebbe dovuto essere proseguita con la massima sollecitudine possibile, con l’ingiunzione dello “stand by” imposto alle navi umanitarie dalla Centrale operativa Mrcc di Roma, in attesa che giungesse sulla scena dell’evento Sar una motovedetta libica, magari anche dopo molte ore dal primo allarme. In occasione di un successivo evento Sar verificatosi domenica 6 maggio 2018, malgrado il trasferimento della responsabilità Sar adautorità libiche, nessun mezzo partito da Tripoli o dagli altri porti controllati dalle milizie fedeli al Governo di riconciliazione nazionale (Gna), prendeva il largo e raggiungeva con la dovuta tempestività il gommone stracarico di migranti, ormai in procinto di affondare, che poi veniva soccorso da un mezzo di una Ong. Nella giornata del 7 maggio 2018 la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (Imrcc) emetteva un comunicato rivolto apparentemente soltanto alle Ong, avvertendole di tenersi ad almeno 8 miglia di distanza dall’evento Sar in caso di intervento dei libici. Un intervento che, secondo quanto emerso anche nell’ordinanza del gip di Catania dopo il sequestro della Open Arms,in quel periodo era “sostanzialmente” coordinato dalla Marina militare e dalla Guardia costiera italiana.

6.2 Dall’archiviazione del procedimento al rilancio delle accuse da parte della Procura

Il Tribunale di Ragusa, nel 2020 emetteva una sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste per il reato di violenza privata e perché non punibile per stato di necessità per il reato di favoreggiamento.

La Procura di Ragusa ha quindi presentato ricorso, davanti alla Corte d’appello di Catania, contro il non luogo a procedere deciso dal Gup ibleo il 4 novembre 2020 nei confronti Marc Reig Creus e Ana Isabel Montes Mier, rispettivamente comandante e capo missione della Open Arms, accusati di violenza privata e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Secondo la Procura, il Giudice dell’udienza preliminare, nel rigettare la richiesta di rinvio a giudizio, non avrebbe adeguatamente valutato i fatti a fondamento dell’accusa.

La tesi della Procura, che a luglio del 2019 ne chiese il rinvio a giudizio, si basava sul fatto che gli indagati avrebbero imposto all’Italia lo sbarco dei migranti soccorsi senza rispondere alle sollecitazione di Mrcc Italia e del loro paese di bandiera, la Spagna, che diceva loro di chiedere approdo a Malta. Da Malta allora venne concessa l’evacuazione medica solo per tre migranti. Lo Stato italiano, secondo la Procura iblea, diventava vittima di violenza privata finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina attraverso il dirigente del dipartimento delle Liberta’ civili e immigrazione del Viminale.

A determinare la scelta processuale, le immagini delle videocamere ‘go pro’; in cui, appena raggiunto il natante in difficolta’, emergerebbe che i soccorritori della ong spagnola avessero detto: “we go to Italy” , “andiamo in Italia”. Dopo la sentenza di non luogo a procedere, la Open Arms, a commento, sosteneva di essere intervenuta su richiesta delle autorita’ italiane per soccorrere 218 persone, che dopo una evacuazione urgente di alcune migranti in precarie condizioni di salute persone vennero condotte a Pozzallo. La ong spagnola ha sempre sostenuto che tutte le fasi del soccorso erano state gestite “dietro costante interlocuzione con le autorita’ italiane”.

6.3 Il nuovo avviso di conclusione delle indagini e la nuova ipotesi di reato

Un nuovo avviso di conclusione indagini, che annulla e sostituisce quello del dicembre del 2018, è stato emesso a fine 2019 dalla Procura di Ragusa sullo sbarco del 17 marzo 2018 nel porto di Pozzallo di 216 migranti soccorsi da nave Open Arms dell’ong ProActiva al largo della Libia. Al comandante Marc Reig Creus e della capo missione Ana Isabel Montes Mier sono stati contestati gli stessi reati: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violenza privata.

Nello specifico, i procuratori di Ragusa scrivono nel provvedimento che il reato di violenza privata sarebbe stato commesso nei confronti del ministero dell’Interno, in persona del capo del Dipartimento delle Libertà civili e dell’immigrazione. Secondo l’accusa, infatti la nave «anziché dirigersi verso Malta, punto di sbarco più vicino, e richiedere alle autorità maltesi l’indicazione di un porto sicuro – si legge nel documento – si dirigevano verso le coste italiane costringendo le autorità italiane (e per esse il capo del dipartimento delle Libertà civili e immigrazione del ministero dell’Interno) a concedere loro l’approdo in un porto del territorio italiano per sbarcare i migranti». Dopo l’iniziale clamore delle prime fasi di indagine, e le scarne notizie sulla archiviazione disposta questa ulteriore fase del procedimento penale sembra inabissata, e rimane consegnata alle carte depositate negli uffici inquirenti.

7. Il caso Sea Watch nel 2019: dall’arresto a Lampedusa all’archiviazione per Carola Rackete.

7.1. L’arresto di Carola Rackete a Lampedusa e la prima decisione del Giudice delle indagini preliminari di Agrigento confermata dalla Corte di Cassazione nel 2020

Il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Agrigento, Dott.ssa Alessandra Vella, con decreto del 14 aprile 2021, e su conforme richiesta della Procura, ha archiviato il procedimento penale che vedeva indagata Carola Rackete – comandante della‘Sea Watch 3– per lo sbarco avvenuto nel porto di Lampedusa il 29 giugno 2019.

Secondo i giudici agrigentini la comandante Rackete aveva compiuto soltanto atti di adempimento di un dovere derivante dagli obblighi di soccorso in mare, e dunque poteva ricorrere la causa esimente prevista dall’art. 51 del Codice Penale, una considerazione che mette con prepotenza in evidenza gli stessi obblighi di soccorso e richiama indirettamente le responsabilità di quelle autorità statali che sarebbero le prime a doverli rispettare.

Si tratta di una decisione largamente prevedibile, dopo la sentenza della Corte di Cassazione del 2020 che aveva respinto il ricorso della Procura di Agrigento contro la mancata convalida dell’arresto della Comandante Rackete. Al di là della rilevanza mediatica del caso, che costituiva la prima prova di forza del ministro Salvini, dopo l’entrata in vigore del decreto sicurezza bis n.53/2019, la decisione del giudice agrigentino, sulla scorta delle motivazioni indicate dalla Corte di Cassazione, assume una importanza particolare, sia per quanto concerne la esatta definizione degli obblighi di soccorso a carico degli Stati, che per l’affermazione di un rigoroso sistema gerarchico delle fonti normative che in materia di attività di ricerca e salvataggio (SAR) subordina la discrezionalità politica ed amministrativa alle previsioni di legge ed alle Convenzioni internazionali, secondo il chiaro disposto degli articoli 10 e 117 della Costituzione.

Il riconoscimento del sistema gerarchico delle fonti individuate dalla Corte di Cassazione avrebbe forse comportato una diversa decisione del giudice dell’udienza preliminare di Catania che nel caso Gregoretti ha subordinato l’applicazione delle norme di diritto interno ed internazionale alla discrezionalità dell’atto politico del senatore Salvini che, al tempo in cui occupava la poltrona di ministro dell’interno, aveva vietato persino lo sbarco dei naufraghi trattenuti per giorni a bordo di una nave militare, in attesa che qualche Stato europeo desse la disponibilità per l’accoglienza delle persone soccorse in acque internazionali. Ed era lo stesso ministro Salvini che lanciava l’attacco mediatico e politico contro il magistrato che non aveva convalidato gli arresti della comandante della Sea Watch. Una campagna di stampa tanto devastante che esponeva al rischio di aggressioni fisiche una persona che aveva salvato vite umane che gli Stati abbandonavano in alto mare, una campagna di vero e proprio odio che non è mai più cessata, neppure dopo le pronnce di archiviazione del procedimento.

La macchina dell’odio che già aveva colpito Carola Rackete , prima e dopo lo sbarco a Lampedusa, si è poi rilanciata contro un magistrato che aveva solo applicato correttamente la legge, dimostrando coraggio e professionalità in un momento in cui alti esponenti politici scaricavano la loro violenza contro giudici ed operatori umanitari che si richiamavano al rispetto dei principi costituzionali e del diritto internazionale. Adesso lo stesso giudice, la dott.ssa Vella, sulla base di quanto deciso dalla Corte di Cassazione ha potuto ribadire le ragioni della sua decisione ed ha archviato il procedimento penale a carico della comandante Rackete.

Ma è soprattutto nei procedimenti penali ancora aperti contro esponenti delle Organizzazioni non governative e delle società armatrici, a Trapani (processo Iuventa) ed a Ragusa (processo Open Arms) che il riconoscimento dei doveri di soccorso in acque internazionali operato dalla Corte di cassazione nel caso Rackete dovrebbe portare ad una archiviazione dei procedimenti, giunti alla fase di conclusione delle indagini preliminari a Trapani, e ancora oggetto di giudizio a Ragusa, dove la procura ha impugnato la decisione di non luogo a procedere adottata dal Tribunale.

7.2 Le motivazioni della Corte di Cassazione e le scelte politiche di governo

Le norme di diritto internazionale richiamate dalla Corte di cassazione, ed applicate adesso dai giudici di Agrigento per archiviare il caso Rackete, potrebbero costituire un limite alle scelte politiche adottate dal Viminale che vieta o ritarda a discrezione l’ingresso in porto di navi che portano a bordo naufraghi, o le sottopone a defatiganti fermi amministrativi, impedendo per mesi che possano svolgere quelle attività di soccorso in acque internazionali che gli Stati hanno deciso di omettere per non favorire le partenze dalle coste nord-africane, e dunque per l’asserito fine politico di contrastare l’immigrazione “illegale” e per “difendere i confini nazionali”.

Sul caso della mancata convalida degli arresti di Carola Rackete la Corte di Cassazione aveva affermato infatti principi che hanno una valenza di portata generale, che va oltre la natura cautelare del procedimento.

 Secondo la Corte di Cassazione (Sentenza n. 6620, depositata il 20 febbraio 2020)  Il controllo di ragionevolezza del giudice della convalida deve dunque essere effettuato sulla base di una interpretazione adeguatrice delle norme di rango primario – le norme appunto che disciplinano la convalida dell’arresto in flagranza – a quelle di rango costituzionale che stabiliscono limiti tassativi al potere dell’autorità di polizia giudiziaria di incidere sulla libertà personale degli individuiIl giudice di Agrigento ha correttamente interpretato quelle norme di legge (artt. 385 e 391 cod.proc.pen.) alla luce dei principi di rango costituzionale. Egli ha puntualmente ricostruito la vicenda processuale, ripercorrendo nel corpo del provvedimento la scansione temporale degli eventi, riepilogando gli antefatti dal giorno del salvataggio dei naufraghi fino ai contatti tra la capitana e la polizia giudiziaria nei giorni successivi, allorché la Sea Whatch3 era alla fonda davanti al porto di Lampedusa, nonché ciò che avvenne poco prima dell’ingresso in porto, la notte del 29 giugno 2019. Tale ricostruzione risultava necessaria allo scopo di inquadrare un evento che si caratterizzava per la sua singolarità, oggettivamente al di fuori dei casi normalmente affrontati in sede di convalida di arresto. Alla luce di tutto ciò, il Giudice ha ritenuto non legittimo l’arresto della Rackete in quanto operato in presenza di un divieto stabilito dall’art. 385 cod.proc.pen. Secondo quanto argomentato nel provvedimento impugnato, la misura precautelare era stata adottata al di fuori del perimetro di legalità, in forza della ricorrenza di una causa di giustificazione, individuata nell’adempimento del dovere di soccorso. Tale causa di giustificazione trovava correttamente il proprio fondamento, diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente, proprio in una valutazione complessiva e non parcellizzata di tutti gli elementi fattuali rilevanti per comprendere la situazione palesatasi agli operanti nelle fasi immediatamente precedenti alla condotta di ingresso nel porto, e di quelli ad essi antecedenti, tutti elementi conosciuti da coloro che avevano operato l’arresto.

La Corte di Cassazione ritiene che“Tenuto conto che la privazione della libertà personale della Rackete era avvenuta in quel preciso contesto fattuale, descritto alle pagg. 8-11 dell’impugnata ordinanza, il Giudice ha escluso la legittimità dell’arresto perché effettuato, quanto alla sussistenza del reato di cui all’art. 1100 cod nav., in assenza del requisito di “nave da guerra” della motovedetta V.808, e, quanto al reato di cui all’art. 337 cod.pen., in presenza di una causa di giustificazione, ex art. 51 cod.pen. “.

Per i giudici della Cassazione, “all’esito di un percorso esegetico delle fonti normative di rango internazionale, che sono vincolanti per lo Stato italiano e per tutti coloro che sono tenuti nel loro operare all’osservanza della legge italiana, il Giudice ha ritenuto configurabile in capo alla capitana della nave la causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere di soccorso che, a mente dell’art 385 cod.proc.pen., comporta uno specifico divieto di arresto in flagranza e di fermo. È ben vero che, sulla base dell’inequivoco dato testuale della norma processuale, detto divieto opera a condizione che la causa di non punibilità sia riconoscibile nel contesto dei fatti che hanno richiesto l’intervento d’urgenza (“quando, tenuto conto delle circostanze del fatto, appare”). Non di meno, contrariamente all’assunto del ricorrente, non è certo la presenza di una articolata motivazione del provvedimento ad escludere di per sé che l’esimente “appaia” sussistente. L’articolata motivazione, al contrario, si giustifica proprio in forza della complessità della vicenda, della delicatezza del bene giuridico compresso (la libertà individuale), della conseguente necessità di ricostruire con attenzione e precisione le fonti normative, anche di rango internazionale, idonee a fondare la sussistenza della causa di giustificazione dell’art. 51 cod.pen. e il suo esatto contenuto. Sono questi gli elementi, indicati dal Giudice, a costituire il parametro della valutazione della ragionevolezza dell’operato di coloro che hanno eseguito l’arresto.

La Corte di Cassazione condivide dunque “la valutazione del Giudice di Agrigento, che ha ritenuto non ci fossero i presupposti per convalidare l’arresto, eseguito in quel descritto contesto fattuale, poiché operante il divieto di cui all’art. 385 cod.proc.pen., è corretta. La verosimile esistenza della causa di giustificazione è stata congruamente argomentata. In questo ambito, il provvedimento ripercorre, necessariamente, le fonti internazionali (Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare, SOLAS- Safety of Life at Sea, Londra, 1974, ratificata dall’Italia con la legge n. 313 del 1980; Convenzione SAR di Amburgo del 1979, resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994; Convenzione UNCLOS delle Nazioni Unite sul diritto del mare, stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994), sia allo scopo di individuare il fondamento giuridico della causa di giustificazione, identificata nell’adempimento del dovere di soccorso in mare, sia al fine di delinearne il contenuto idoneo a scriminare la condotta di resistenza. Proprio le citate fonti pattizie in tema di soccorso in mare e, prima ancora, l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento Io interno, in forza del disposto di cui all’art. 10 comma 1 Cost. – tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima -, sono il parametro normativo che ha guidato il Giudice nella valutazione dell’operato dei militari per escludere la ragionevolezza dell’arresto della Rackete, in una situazione nella quale la citata causa di giustificazione era più che “verosimilmente” esistente. Nè si potrebbe ritenere, come argomenta il ricorrente, che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “piace of safety”). Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare”.

Secondo la Corte di Cassazione, “La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile». Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) allegate alla Convenzione SAR, dispongono che il Governo responsabile per la regione SAR in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Per l’Italia, il piace of safety è determinato dall’Autorità SAR in coordinamento con il Ministero dell’Interno. Secondo le citate Linee guida, «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12). «Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative». (par. 6.13)”.

Per la Corte di Cassazione, “non può quindi essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave. Ad ulteriore conferma di tale interpretazione è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”.

7.3. Le conseguenze dell’intervento della Corte di Cassazione sul procedimento Open Arms/Salvini a Palermo

Tutte le argomentazioni addotte dall’ex ministro dell’interno Salvini come base dei suoi provvedimenti, prima del Decreto sicurezza bis n.53 del 2019, semplici direttive, poi decreti, di divieto di ingresso nelle acque territoriali, sono demolite dalle motivazioni adottate nel caso Rackete, prima dal giudice di Agrigento, e poi dalla Corte di Cassazione. Anche la ricostruzione dei fatti secondo la quale la comandante Rackete avrebbe intenzionalmente tentato di schiacciare contro il molo la piccola motovedetta della Guardia di finanza, che si interponeva per impedire l’ormeggio della nave, andando avanti ed indietro, viene destituita di fondamento. Come era evidente sin dal principio, in base alla ricostruzione dei video e alle numerose foto riprese anche da comuni cittadini durante le concitate fasi dell’avvicinamento della nave alla banchina.

Secondo la Corte di Cassazione, “In conclusione, la verifica del giudice della convalida è stata correttamente compiuta e corretta è la sua decisione. Il giudice non soltanto ha ritenuto configurabile, nella situazione descritta nel provvedimento, la causa di giustificazione dell’adempimento del dovere di soccorso, individuandone la portata, ma ha anche valutato che la sussistenza di tale scriminante fosse percepibile da parte degli operanti che avevano proceduto all’arresto, sulla base di una valutazione della singolarità della vicenda e delle concrete circostanze di fatto, come meticolosamente riepilogate. Non è ammessa, infatti, una privazione della libertà personale da parte della polizia giudiziaria quando, avuto riguardo alle circostanze del caso, ricorrano nel concreto cause di giustificazione idonee ad escluderne la rilevanza penale, in termini di ragionevolezza, sulla scorta degli elementi di conoscenza in capo a coloro che hanno operato la misura privativa della libertà personale (Sez. 6, n. 49124 del 01/10/2003, P.M. in proc. Todirica, Rv. 227721 – 01).

Le motivazioni addotte dalla Corte di Cassazione appaiono coerenti con le contestazioni contenute nella richiesta di autorizzazione a procedere formulata con l’ordinanza del Tribunale dei ministri di Palermo sul caso Open Arms, poi recepite dalla Procura di Palermo e quindi confermate dal Giudice dell’udienza preliminare di Palermo, che ha disposto il rinvio a giudizio del senatore Salvini, I richiami al sistema gerarchico delle fonti, alla Costituzione ed alle norme internazionali forniscono anche la misura degli abusi di discrezionalità amministrativa esercitati dall’ex ministro dell’interno fin dal momento del suo insediamento al Viminale, a partire dal caso Aquarius, con la politica propagandistica di “chiusura dei porti”. Una politica che ha fatto la fortuna elettorale dei partiti di destra, a scapito del rispetto dello stato di diritto e del diritto internazionale del mare. A scapito sopattutto della vita di migliaia di persone che non sono state più soccorse in tempo.

7.4 Le ulteriori conseguenze della pronuncia della Cassazione sul caso Rackete (sentenza n. 6626 del 2020)

Sarà decisivo per la salvaguardia dello Stato di diritto nel nostro paese che i principi affermati in modo tanto netto dalla Corte di Cassazione nel caso Rackete, soprattutto nella parte che ribadiscono gli obblighi di soccorso a carico degli Stati fino alla indicazione di un porto di sbarco sicuro, già presi in considerazione nei numerosi casi di archiviazione  delle accuse contro le ONG, siano tenuti presenti nei diversi processi ancora aperti a Trapani (Iuventa), sulla quale si attende la decisione del Giudice dell’Udienza preliminare, dopo la conclusione delle indagini, ed a Ragusa (Open Arms), addirittura per violenza privata. A Ragusa, per chiudere il procedimento Open Arms, non è bastata neppure l’archiviazione disposta dal Tribunale perché la Procura ha presentato appello ed ha di fatto riaperto il processo.

Il costo della gigantesca montatura mediatico-giudiziaria contro i soccorsi umanitari nel Mediterraneo centrale non è stato pagato soltanto dagli operatori umanitari, e dalle tanto odiate ONG,  ma soprattutto dai migranti che hanno fatto naufragio, e che sempre più numerosi finiscono dispersi in mare. Migliaia di persone che a causa della pressione esercitata sulle navi delle ONG, a partire dal Memorandum di intesa con il governo di Tripoli del 2 febbraio 2017 e del Codice di condotta adottato dall’ex ministro dell’interno Minniti, sono stati abbandonate in mare o respinte con l’aiuto della sedicente guardia costiera “libica”. La guardia costiera di un governo che non controlla neppure l’intero territorio nazionale e che, come è stato dimostrato, risulta collusa con le organizzazioni criminali che tutti a parole dicono di volere combattere. Fino a quando il governo libico non garantirà sicurezza e dignità, con uno status legale e con un vero sistema di accoglienza ( e non di internamento) ai migranti ed ai potenziali rifugiati presenti nel suo territorio, non si potrà parlare di “dovere morale” di garantire i diritti umani delle persone di diversa nazionalità intrappolate nel pantano libico. Le denunce dell’UNHCR e dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite sulla condizione dei migranti in Libia, anche in riferimento alle attività della sedicente Guardia costiera “libica”, non potranno essere ignorate a lungo.