di Fulvio Vassallo Paleologo
1. Non ha destato alcuna emozione la notizia del ritrovamento di 28 cadaveri sulle spiagge di Khoms, in Libia, e sono destinate a scomparire nel buio dei centri di detenzione libici migliaia di persone che fuggono da torture e sequestri a scopo di estorsione, persone intercettate in mare sulla base della “cooperazione operativa” derivante dalla pratiche di respingimento su delega ai paesi terzi, ormai generalizzate alle frontiere esterne dell’Unione Europea. Nelle scorse settimane erano state oltre 160 le persone annegate in due distinti naufragi, sempre sulle rotte da Zawia e Zuwara verso Lampedusa. Neppure la denuncia dell’OIM, agenzia delle Nazioni Unite, aveva squarciato la coltre di indifferenza e di rimozione che copre queste vittime come le acque del Mediterraneo. Secondo l’OIM oltre 31.000 migranti sono stati intercettati e rinviati in Libia nel 2021, rispetto ai circa 11.900 migranti dell’anno precedente. Quasi 1000 persone sono annegate in quest’ultimo anno sulle rotte dalla Libia (e dalla Tunisia), e della maggior parte di quanti sono stati riportati indietro a terra, non si hanno più notizie. Persino i pochi richiedenti asilo registrati dall’UNHCR in Libia non hanno ottenuto né uno status legale, né la possibilità di evacuazione (resettlement), riconosciuta soltanto a qualche centinaio di loro, trasferiti verso il Ruanda o la Romania, e si trovano accampati davanti alla sede UNHCR di Tripoli, dopo essere stati oggetto di brutali attacchi da parte delle milizie che si contendono la città. La Libia diventa intanto un paese sempre più diviso, tanto che non si sono neppure svolte le elezioni politiche in calendario per il 24 dicembre. Eppure in questa situazione, l’Unione Europea, negli sviluppi più recenti del Piano sulla migrazione del 2020 e i singoli Stati, con il mantenimento degli accordi bilaterali, continuano a ritenere la Libia, che ancora non esiste come Stato unitario con autorità centrali (esercito, polizia, magistratura) generalmente riconosciute, come un partner essenziale per arrestare gli arrivi (i cd. sbarchi) in Europa, disinteressandosi della sorte di quanti vi rimangono intrappolati alla mercé di milizie spietate e di trafficanti senza scrupoli ,che le autorità di governo non riescono a bloccare, ma dalle quali anzi ricavano supporto.
Sono passati pochi anni, ma sembra che i numerosi naufragi sulla rotta libica dal 2013 ad oggi siano stati completamente rimossi. Se questo è successo, è stato possibile per precise scelte politiche degli Stati che hanno portato avanti le politiche di esternalizzazone, per combattere la criminalità organizzata e le reti dei trafficanti, ma che in realtà si sono rivolte esclusivamente contro persone in pericolo e chi cercava di soccorrerle.

2. La ripartizione del Mediterraneo centrale in distinte zone di ricerca e salvataggio ( zone SAR) affidate alla responsabilità degli Stati costieri è stata funzionale a queste politiche di morte. I libici, almeno quelli che gestivano i porti della Tripolitania, più direttamente interessati dalle partenze gestite dai trafficanti, hanno avuto una totale libertà di azione non solo nelle loro acque territoriali, ma anche in acque internazionali, fino a decine di miglia dalla costa. Si sono così moltiplicati i casi di intercettazione di barconi diretti verso le coste italiane e maltesi, senza interferenze con navi di altri Stati, che in precedenza operavano soccorsi a pochi chilometri dalle coste libiche. Per fare il vuoto e rendere più funzionali gli interventi dissuasivi delle motovedette libiche si è cercato di allontanare con ogni mezzo le navi delle ONG, che costituivano al contempo testimoni di respingimenti collettivi illegali, per quanto delegati alle autorità libiche, coordinate però da autorità europee, ed ostacolo alle attività di fermo in acque internazionali e di sequestro di persona camuffate da attività di soccorso (SAR).
Una volta istituita una zona SAR, in particolare quella “libica”, gli Stati europei hanno sistematicamente negato il coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio in acque internazionali al di fuori della propria zona, come è avvenuto in occasione di numerosi naufragi, e come continua a verificarsi ancora oggi. In diverse occasioni gli Stati costieri hanno rifiutato di assumere il coordinamento di eventi SAR al di fuori delle aree di propria competenza per non essere poi costretti ad indicare alle imbarcazioni soccorritrici un porto sicuro di sbarco (POS) nel proprio territorio. Alcuni di questi casi sono ancora oggetto di procedimenti penali, come il caso del naufragio dell’11 ottobre 2013, a sud di Malta (caso Libra), già oggetto di una condanna anche da parte delle Nazioni Unite.
Si è pure ritenuto che una imbarcazione che comunque navighi in alto mare, sia pure stracolma e senza dotazioni di sicurezza, possa trovarsi ancora in condizioni di “navigabilità”, e non invece come un caso di distress (pericolo immediato alla vita), tale da imporre un intervento di soccorso tempestivo, anche al di fuori della zona SAR di propria competenza, impostazione che è emersa anche nelle dichiarazioni di un alto esponente della Guardia costiera italiana, nel processo in corso a Palermo a carico del senatore Salvini. In molte occasioni, ancora di recente, si è atteso che le imbarcazioni stracolme di persone proseguissero il loro viaggio attraverso la vastissima zona SAR maltese, in attesa che queste raggiungessero la zona SAR italiana, che peraltro in due aree cruciali, ad ovest e ad est di Lampedusa, risulta parzialmente sovrapposta “overlapped” con la zona SAR maltese, con ulteriore incertezza nella individuazione delle autorità responsabili e sui tempi dei soccorsi.
Secondo quanto comunica invece la Guardia costiera italiana nel suo sito, ed in conformità con quanto previsto dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare, “Lo Stato responsabile di un’area SAR, in caso di emergenza in mare nella propria area di responsabilità, ha l’obbligo di intervenire assumendo, per il tramite del proprio Rescue Coordination Center (RCC), il coordinamento delle operazioni di soccorso con l’impiego di unità SAR, ma anche con unità militari e/o civili, quali ad esempio le unità mercantili presenti in zona, in adempimento agli obblighi giuridici assunti con la ratifica della convenzione internazionale .Nel caso in cui un’Autorità marittima riceva informazioni di un’emergenza in corso in un’area SAR di competenza di un altro Stato, informa immediatamente il Rescue Coordination Center (RCC) territorialmente competente ed estende la notizia dell’emergenza a tutte le unità in transito in quell’area SAR. Una volta che lo Stato competente assume il coordinamento, le altre Autorità Nazionali marittime possono intervenire in supporto all’attività di soccorso, con l’impiego di mezzi o la diffusione o il rilancio di comunicazioni, se espressamente richiesto dall’Autorità coordinatrice. Tuttavia, qualora lo Stato competente per quella area SAR non assuma il coordinamento delle operazioni di soccorso, tali operazioni vengono coordinate dall’Autorità nazionale SAR che, per prima, ne ha avuto notizia ed è in grado di fornire la migliore assistenza possibile”.
3. La zona SAR “libica” è stata dichiarata dal governo di Tripoli all’IMO di Londra il 27 giugno del 2018, dopo che una prima auto-dichiarazione resa un anno prima era stata sospesa per la mancanza dei requisiti richiesti agli Stati dalle Convenzioni internazionali per la istituzione di una zona di ricerca e salvataggio di responsabilità nazionale. Decisivi per la “invenzione” di una zona SAR “libica” e per il suo mantenimento, da parte delle autorità di Tripoli, le forniture e gli aiuti italiani, incluso il coordinamento/assistenza assicurato dalla missione Nauras della Marina militare (nell’ambito dell’operazione Mare Sicuro) a Tripoli. Da quella data, secondo un messaggio, del Comando della guardia Costiera italiana, “nell’evenienza in cui al Centro di coordinamento di Roma della guardia costiera pervenga da una imbarcazione una richiesta di soccorso in area Sar (Search and rescue) libica, cioè nelle acque di Ricerca e soccorso della Libia, un’area fuori dall’area Sar italiana, le autorità competenti sono quelle libiche e sono loro quelle con cui coordinarsi”.

Dal mese di luglio del 2020, con l’arrivo delle milizie e dei mezzi inviati dalla Turchia nei principali porti libici, le funzioni di coordinamento si sono frammentate a seconda delle diverse città costiere. Da quando la situazione politica e militare n Libia si è di nuovo ingarbugliata, soprattutto con l’approssimarsi della scadenza elettorale, sono riprese le partenze dalla Cirenaica, per anni bloccate dalle milizie del generale Haftar, e si sono registrati naufragi nella zona di mare più vicina alla costa e poi casi di soccorso non più sulla rotta di Lampedusa, ma nel tratto di mare corrispondente allo Ionio meridionale, una zona che rientra nella vastissima area SAR maltese. Senza gli allarmi lanciati dalla società civile, le autorità statali avrebbero abbandonato in mare centinaia di persone, condannandole ad un possibile naufragio. Malgrado gli accordi stipulati tra i maltesi ed i libici, che hanno permesso alle motovedette tripoline di intervenire anche nella zona SAR maltese, sono comunque aumentati sia gli arrivi cd. autonomi a Lampedusa ,ma anche in Calabria, e gli sbarchi da imbarcazioni a vela provenienti direttamente dalla Turchia. I complici della sedicente Guardia costiera “libica” escono sempre più allo scoperto.
Le politiche di delega a paesi terzi per i respingimenti collettivi e le detenzioni arbitrarie, corrispondano a complicità in crimini contro l’umanità. Una situazione complessa, che richiederebbe una indagine internazionale anche sulla “gestione” politica della zona SAR riconosciuta a Malta, ma che nell’immediato si dovrebbe affrontare con il coordinamento tra gli Stati nelle operazioni di soccorso, coordinamento previsto dalle Convenzioni internazionali, ma che manca fino ad oggi, mentre le ONG rimangono oggetto di procedimenti penali e di una diffusa criminalizzazione, malgrado il cumulo di sentenze di archiviazione in loro favore.
Quanto sta accadendo in mare, con centinaia di vittime, dimostra la mancanza di un effettivo servizio di ricerca e soccorso all’interno della zona SAR impropriamente attribuita al governo di Tripoli, lo stallo del processo di riconciliazione nazionale, evidenziato dal rinvio del voto del 24 dicembre e l’allontanamento delle prospettive di riunificazione delle autorità di governo libiche. Anche se i media non lo riferiscono, in Libia si combatte ancora. Non si vede come in queste condizioni si possa parlare di una Centrale di coordinamento dei soccorsi in mare (MRCC) “libica”, malgrado il recente invio da parte dell’Italia di una nave militare carica di attrezzature destinate proprio a quella Centrale unificata (JRCC) che di fatto ancora non esiste.
Si riconfermano intanto le modalità violente di intervento delle unità libiche, malgrado i corsi di addestramento effettuati anche in Italia, e soprattutto la commistione tra elementi della criminalità organizzata ed i più alti vertici della sedicente Guardia costiera “libica”, come è provato da anni a Zawia ed in altri porti libici. Adesso il più noto dei “trafficanti in divisa” di Zawia, Milad Bija, su cui pende un mandato di cattura internazionale, dopo le denunce di molte sue vittime rilanciate anche delle Nazioni Unite, è stato nominato al vertice dell’Accademia navale libica. Ed altri personaggi responsabili di gravissimi abusi sono state nominati al vertice del servizio anti-immigrazione libico (DCIM). Sotto la responsabilità di questo organismo rimangono migliaia di persone esposte ad ogni genere di violenza nei centri di detenzione, come conferma un Rapporto di Amnesty International.
4. Non si può continuare a delegare alla sedicente Guardia costiera “libica” intercettazioni che spesso diventano veri sequestri di persona, e questo accade sulla base di Memorandum d’intesa e accordi operativi firmati da paesi che appartengono all’Unione Europea, come Italia e Malta. Paesi che dovrebbero essere vincolati al rispetto delle Convenzioni internazionali e delle Carte dei diritti condivise da tutti gli stati membri e che invece, rifiutandosi di intervenire al di fuori delle zone SAR di propria competenza, abbandonano di fatto i naufraghi ai libici, se non ad un destino ancora peggiore, di naufragio. Questa situazione di abbandono nelle acque del Mediterraneo centrale è anche conseguenza diretta delle politica di chiusura dei porti di Malta, che non ha mai ratificato gli Emendamenti del 2004 alla Convenzione SAR di Amburgo del 1979, che la obbligherebbero a soccorrere tutte le persone individuate in situazione di “distress” nella vastissima zona SAR che si è attribuita, per ragioni economiche, e dell’Italia, che, dopo gli accordi con i libici, delega alle motovedette tripoline i respingimenti collettivi operati persino nella zona SAR maltese. Nessuna collaborazione di polizia è possibile con autorità di un paese che non garantisce neppure le basi minime di legalità che dovrebbero essere verificabili prima e durante gli accordi di cooperazione bilaterale ed i Memorandum d’intesa. Ma deve altrettanto escludersi che la Tunisia possa offrire porti di sbarco sicuri. Vanno richiamate al riguardo le considerazioni contenute in numerose sentenze che hanno trattato la controversa questione dei soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale operati dalle ONG. Non si può tollerare che Stati dell’Unione Europea come Malta abbiano fatto ricorso a pescherecci con bandiera”fantasma” che, partendo dal porto de La Valletta, hanno pattugliato la zona SAR maltese e libica, effettuando, sotto gli occhi degli assetti aerei di Frontex, respingimenti collettivi, illegali, in base alle normative internazionali ed europee, verso porti libici, in combutta con quei trafficanti che tutti affermavano di combattere. Anche a questo è servito il gioco sporco che si è fatto sulla pelle delle persone in fuga dalla Libia, con la ripartizione delle competenze di ricerca e soccorso tra le diverse zone SAR del Mediterraneo centrale.
La Libia non garantisce in alcun modo porti sicuri di sbarco, adesso lo riconosce anche la magistratura italiana. Lo stesso vale per la Tunisia, seppure per ragioni diverse, altro paese nel quale non si può ottenere uno status legale di residenza come richiedente asilo, o profugo. Come riferisce l’AGI, che riporta un comunicato del ministero della Difesa tunisino del 20 dicembre, “il giorno precedente 11 migranti irregolari di diverse nazionalità africane sono stati soccorsi da un’unità della Marina militare. I migranti erano a bordo di un’imbarcazione in difficoltà e hanno chiesto aiuto mentre si trovavano al largo di El Attaya Est (Kerkennah) a 12 miglia all’interno delle acque territoriali tunisine. Le persone a bordo provenivano da Nigeria (2), Costa d’Avorio (2), Guinea Equatoriale (2), Senegal (1), Sudan (1), Mali (1), Gambia (1) e Mauritania (1), di eta’ compresa tra 13 e 45 anni, compreso un bambino. Hanno dichiarato di aver navigato la notte dal 15 al 16 dicembre 2021 dalla costa di Boukamech in Libia per raggiungere l’area europea”. Risulta così evidente come una parte consistente delle persone che sono intercettate nelle acque territoriali tunisine, che corrispondono alla zona SAR tunisina, provengono dalla Libia. I trafficanti di esseri umani rimangono di fatto l’unica via di fuga per chi rimane intrappolato in quel paese, ed operano così indisturbati, senza risentire degli accordi tra gli Stati europei e i governi dei paesi nordafricani, che si abbattono soltanto sulle persone in fuga e su chi li soccorre.
Siamo consapevoli degli enormi interessi economici che gli Stati europei, e l’Italia in particolare, cercano di difendere in Libia senza tenere contro delle violazioni dei diritti umani commesse da quelle stesse autorità con le quali trattano per ottenere le concessioni che permettono di sfruttare le risorse energetiche di cui è ricco quel paese ( gas e petrolio) anche con società miste e piattaforme estrattive in acque internazionali ( come i campi di Bouri Field, 70 miglia a nord di Zuwara e di Zawia). Se non si vuole essere ancora complici di crimini contro l’umanità e di reati che possono assumere rilievo anche a livello di giurisdizione nazionale, occorre interrompere qualsiasi sostegno e qualsiasi forma di assistenza, alla sedicente guardia costiera libica, e inviare mezzi statali delle Guardie costiere dei paesi più direttamente coinvolti nel Mediterraneo centrale, a garantire il rispetto del diritto alla vita e del diritto ai soccorsi. Non si può ritenere infatti che la presenza delle ONG, tuttora ostacolate da pratiche dilatorie nella indicazione del porto sicuro di sbarco (POS), possano surrogare il ritiro delle navi militari che fino al 2017 avevano salvato la vita di decine di migliaia di persone. Come non si può pensare di ridurre al silenzio le ONG, sottoponendole al ricatto della dilazione nell’assegnazione di un porto sicuro di sbarco. Se ci sono violazioni delle regole di soccorso previste dalle Convenzioni internazionali, queste vanno denunciate ancora oggi, come si è fatto in passato. Non si può consentire che il ritiro degli assetti navali europei, le limitazioni operative delle missioni di Frontex Themis e di Eunavfor Med IRINI, la mancata attività di soccorso delle navi militari italiane della missione Mare Sicuro, producano l’effetto di creare un vuoto nei soccorsi in mare, che si vorrebbe utilizzare come spazio di dissuasione, ma che sta comportando il moltiplicarsi delle vittime e la prosecuzione dei cd. sbarchi autonomi.
5. Nel Mediterraneo centrale non ci sono più unità navali di Frontex, e gli assetti navali dell’operazione Eunavfor Med IRINI, tracciano i barconi, formano i guardiacoste libici, ai quali poi segnalano le imbarcazioni da intercettare, ma non soccorrono più naufraghi. Le missioni di FRONTEX e della Operazione Eunavfor Med IRINI vanno riconvertite come dotazioni di assetti navali, e vanno obbligate alla rigida osservanza degli obblighi di soccorso in mare. Non è ammissibile che Frontex abbia ritirato tutti i suoi assetti navali per non diventare “fattore di attrazione” delle partenze dalla Libia. Ma Frontex non può diventare un paravento per le politiche di abbandono in mare dei governi europei.
Non basta invocare l’Unione Europea o costringere Malta al rispetto degli obblighi internazionali di soccorso. Occorre cancellare il Memorandum d’intesa formato da Gentiloni nel 2017 che, con il Codice di condotta Minniti dello stesso anno, ha costituito il presupposto per la criminalizzazione dei soccorsi umanitari delle ONG e per la creazione di una zona SAR ( di ricerca e salvataggio) esclusivamente affidata ai libici. .
Gli Stati hanno il preciso obbligo di predisporre una organizzazione finalizzata alle attività di ricerca e salvataggio anche al di fuori della propria zona SAR, come è obbligatorio il coordinamento con gli Stati che sono titolari di zone SAR confinanti, ma solo a condizione che questi Stati garantiscano un porto sicuro di sbarco, come non si verifica con la Libia e per ragioni diverse, con la Tunisia. Non si può accettare che la finalità politica di “difendere i confini”, o le esigenze di contrasto dell’immigrazione “illegale”, prevalgano sulla salvaguardia dei diritti umani , questo limite è posto anche dai Protocolli allegati alla Convenzione ONU contro il crimine transnazionale sottoscritta a Palermo nel 2000.

Occorre rilanciare missioni istituzionali di soccorso nel Mediterraneo centrale. Non si può permettere che le campagne d’odio e gli allarmi “invasione” rilanciati dalle destre in questa ulteriore fase critica della pandemia da Covid 19, possano incidere sui decisori politici al punto da cancellare gli obblighi internazionale di soccorso in mare ed il diritto alla vita.