Proviamo a immaginare l’Europa vista dall’alto, per mezzo di uno di quei potenti satelliti in grado di intercettare un singolo individuo, anche se non di attivare i soccorsi per una nave che affonda. È un territorio piccolo, paragonato al continente africano o al gigante asiatico, che diviene quasi insignificante se si riduce la visuale ai soli stati che formano l’Unione Europea. Riuscendo a distinguere gli edifici, i veicoli in movimento, l’incessante flusso di persone, vedremmo un organismo pulsante. Un organismo aggressivo, perennemente all’erta, dotato di confini, barriere, muri, reticolati, uomini armati e navi militari che ne pattugliano le acque.
Un organismo dotato di un apparato dispendioso e ipertrofico che, con cortocircuiti e falle, pretenderebbe di selezionare i pochi che possono entrare o rimanere, e respingere i molti la cui presenza è considerata un peso e un disordine, quando non una concreta minaccia. Tutto attorno vedremmo un brulichio di esistenze che cercano di passare attraverso le maglie fitte di questo sistema immunitario in perenne stato di allerta, pronto a sconfiggere o a isolare il nuovo arrivato, o comunque lo straniero, il “diverso” o presunto tale, così da impedirgli la libera circolazione.
Ventisei anni dopo l’abbattimento del muro di Berlino, settant’anni dopo lo smantellamento di un sistema concentrazionario burocratico e criminale, l’Europa si è dotata di un labirinto di gabbie fisiche e simboliche – fatte di muratura, di dispositivi legali, ma anche di categorie mediatiche dell’esclusione, di linguaggio d’odio, di semina del sospetto – che definiscono a priori chi viene da fuori come nemico e che usurano la libertà di tutti, di chi sta fuori come di chi sta dentro.
E questo sistema di gabbie, di muri e di frontiere colpisce non solo chi sta arrivando adesso, ma anche chi da tempo si è insediato nel Continente: gli immigrati lungo-residenti, le minoranze rom e sinte, le cosiddette “seconde generazioni” rinchiuse ed escluse nelle banlieues delle grandi metropoli, i figli e le figlie dei migranti cui non è riconosciuta la cittadinanza, sono solo alcuni esempi di una progressiva costruzione simbolica e sociale di un “nemico interno”, parallelo e complementare rispetto al nemico “esterno” (il profugo, il richiedente asilo, il rifugiato).
Dunque, un continente di morte e sbarre, cani lupo e manganelli, agenzie di controllo e strumenti di discriminazione che – mentre respinge e condanna – allunga i propri tentacoli a depredare i paesi, a destabilizzare i governi, a bombardare le città di quelle stesse persone di cui non vuol farsi carico, quasi scorie, residui biologici delle sue politiche di disseminazione di caos e rapina.
Ma la lunga e incessante marcia degli uomini, delle donne e dei minori che vengono dall’altra sponda del Mediterraneo come sulla “Balkan Route”, incontenibile malgrado le tante vittime, dimostra giorno dopo giorno che il futuro sarà – a dispetto della xenofobia delle destre populiste e nazionaliste e degli economicismi di comodo delle politiche più moderate – uno scambio, un mescolamento, una nuova forma di appartenenza basata sull’evidenza che le frontiere sono destinate a essere messe strutturalmente in discussione. Non solo merci e capitali ma saperi, percezioni del mondo, prospettive di futuro, arti, culture, affetti che viaggiano avendo pochi ed effimeri impedimenti alla loro circolazione.
Benché i nazionalismi radicali, che oggi incontrano tanto successo elettorale, provino – fuori tempo, fuori sincrono – a definire nuove “piccole patrie” per separare il “noi” dal “loro” in un ritorno a un passato in buona parte artificiale, e benché le politiche europee provino a stringere accordi con i cosiddetti paesi terzi per impedire le partenze e affidare ad altri, oltre il mare, politiche di respingimento sempre più incuranti del rispetto dei diritti umani, non è più possibile recintare le persone.
ADIF, Associazione Diritti e Frontiere, nasce per intolleranza di muri e confini, barriere e ostacoli messi alla pacifica convivenza di uomini e donne che pretendono un avvenire in un paese-mondo in cui le risorse disponibili in eccesso (come mai prima d’ora nella storia dell’umanità) non siano bottino di pochi. ADIF nasce come strumento di ricerca, formazione, inchiesta e azione per facilitare e mettere in rete il proliferare di progetti alternativi di società basate sui diritti degli individui e sulla solidarietà. Vuole rivolgersi alle persone, ai movimenti, alle forze politiche e sociali, ai mezzi di informazione, alle università e ai centri di cultura, alle aggregazioni meticce che si vanno formando in Europa, per imparare e costruire insieme, mettendo a disposizione le proprie diversificate competenze. ADIF baserà il proprio lavoro sulla consapevolezza che le migrazioni e i grandi temi oggi in campo – guerre, crisi economiche e sociali, disastri ambientali, distruzione di contesti culturali, sorveglianza di massa – sono strettamente interconnessi. Di tutto questo la migrazione è – anche – un sintomo. Ma la migrazione è prima di tutto progetto, risignificazione delle culture e delle politiche, ripensamento degli scenari comuni. Questo implica vedere l’incontro, l’accoglienza e la lotta per i diritti come pratiche di resistenza per tutti.