di Fulvio Vassallo Paleologo
1. Un processo penale senza fine
La sentenza del Tribunale di Roma che ha accertato la prescrizione nel processo sul caso Libra, nel quale si verificò quella che è stata definita “la strage dei bambini”, se chiude il procedimento penale a carico dei due imputati, due alti ufficiali della Guardia costiera e della Marina militare, contiene l’accertamento di gravissime responsabilità istituzionali che si proiettano su decisioni politiche e prassi amministrative ancora attuali. Per una migliore interpretazione di quanto scritto nella sentenza, occorre ascoltare la registrazione delle udienze integralmente disponibile su Radio Radicale. Il quadro che se ne ricava è drammatico, per la sorte di tante persone che interventi di soccorso più tempestivi avrebbero potuto salvare.
I fatti del “naufragio dei banbini” sembravano già accertati da anni in base alle risultanze documentali del dibattimento,, ma la resistenza delle amministrazioni statali coinvolte, le reiterate richieste di assoluzione da parte della Procura, ed i tempi del processo penale, malgrado l’impegno delle parti civili, in particolare dell’avvocato Alessandra Ballerini, fin dall’inizio contraria ad ogni ipotesi di archviazione, hanno impedito la condanna degli imputati, ma non l’accertamento di precise responsabilità penali, rilevanti sul piano civile, malgrado la prescrizione, e di gravi comportamenti omissivi a carico dell’intero sistema italiano di coordinamento dei soccorsi in mare. Va ricordato che dopo questa strage, seguita alla strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, veniva decisa l’Operazione Mare Nostrum, che per un anno operò senza limiti di intervento anche in acque libiche e maltesi. Ma all’inizio del 2015 l’operazione ebbe termine, e dopo un breve periodo, segnato da una maggiore presenza di unità navali europee, nell’ambito della missione Triton di Frontex, con l’arivo della missione europea a guida italiana Sophia di Eunavfor Med e con il ritiro dalle acque internazionali delle unità navali statali italiane ed europee, nel Mediterraneo centrale si venne a creare un vuoto che l’arrivo dele ONG nel 2016 riusciva a compensare solo in parte. Fino a quando procedimenti penali e misure di fermo amministrativo non riducevano la capacità operativa delle navi del soccorso civile.
Il 27 gennaio 2021 il Comitato per i diritti umani dell’ONU aveva affermato una responsabilità concorrente a carico di Italia e Malta per il naufragio dell’11 ottobre 2013. Responsabilità derivante da un inefficace coordinamento tra autorità maltesi e italiane. Da un lato le autorità maltesi non erano prontamente intervenute, nonostante avessero l’obbligo giuridico di farlo. Dall’altro le autorità italiane avevano ritardato il proprio intervento sostitutivo (tra l’altro sollecitato da Malta), pur avendo la possibilità materiale di salvare i naufraghi. Esattamente come adesso ha cnfermato il Tribunale di Roma. Secondo il Comitato ONU,”“Gli stati interessati sono tenuti, in base al diritto internazionale del mare, a prendere provvedimenti per proteggere la vita di tutte le persone che si trovano in una situazione di pericolo in mare”. E ancora ““anche se l’imbarcazione che stava affondando non si trovava nella zona SAR italiana, le autorità italiane avevano il dovere di appoggiare la missione di ricerca e soccorso”. E invece sembra che la situazione di grave pericolo nel quale si trovava l’imbarcazione carica di profughi siriani non fosse stata colta nepure dal comandante della nave Libra che si trovava tra 17 e 24 miglia dal barcone che già da ore stava imbarcando acqua, come comunicato dai suoi occupanti alla Centrale di coordinamento della Guardia costiera di Roma (IMRCC).
Le ricostruzioni fornite dal diversi testimoni, oltre che quelle rese dagli imputati, hanno riprodotto una miriade di segmenti di attività individuali di relazioni inter-istituzionali ed internazionali che non permettono di cogliere facilmente le responsabilità personali dei soggetti ai quali, dopo le prime inequivocabili chiamate di soccorso provenienti dal peschereccio, era riferibile la decisione di non dichiarare immediatamente un evento SAR e di mantenere per ore in stand-by, prima dell’avvio delle operazioni di salvataggio, l’assetto navale militare italiano più vicino al luogo del naufragio, la nave Libra della Marina Militare italiana, allora impegnata con altri assetti italiani in attività di vigilanza pesca (ViPe) nelle acque del Canale di Sicilia.
Senza entrare nel merito delle posizioni soggettive degli imputati, rispettivamente comandante della sezione operazioni reali correnti di Cincnav, il Comando in capo della squadra navale della marina militare, e responsabile della sala operativa della guardia costiera, trattandosi di reati ormai prescritti, riteniamo utile una valutazione di quanto accertato dai giudici come prova di un “crimine di sistema”. Sotto il quale rimangono forse nascoste responsabilità militari e politiche di grado più elevato, autorità ancora oggi impegnate per svuotare la portata degli obblighi di soccorso a carico dello Stato. Un tentativo che ritorna attraverso l’attacco sistematico contro le Organizzazioni non governative che, per la loro stessa presenza nel Mediterraneo centrale, diventano testimoni degli effetti perversi degli accordi con i paesi frontalieri della sponda sud (respingimenti su delega) e delle omissioni o dei ritardi delle autorità statali, nel coordinamento delle attività SAR, sempre più condizionate dalla ricerca del consenso elettorale, piuttosto che dal rispetto di quanto previsto dalle Convenzioni internazionali e dai Regolamenti europei.
2. Dalle Convenzioni internazionali al Piano SAR nazionale. Gli obblighi di coordinamento dei soccorsi a carico degli Stati.
Il mancato coordinamento tra autorità responsabili di zone SAR confinanti, la conclamata incapacità di alcuni Stati costieri, come Malta, di garantire tempestivi interventi di soccorso e una rapida individuazione di un porto sicuro di sbarco, la classificazione degli eventi di soccorso come “eventi migratori” da tracciare senza intervenire immediatamente, come se si trattasse di tentativi di immigrazione “clandestina”, sono questioni attuali e rientrano nel conflitto ancora irrisolto tra l’attuale governo italiano, la Commissione europea, e gli Stati di bandiera delle navi delle odiate ONG. Che suppliscono con la loro attività SAR al ritiro delle unità militari prima presenti nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Ancora oggi purtroppo gli obblighi di ricerca e salvataggio a carico delle autorità statali vengono variamente ridotti, o esclusi del tutto, in base ad accordi bilaterali di dubbia legitimità, a seconda che si tratti di dimostrare un maggior rigore nella “difesa dei confini”, sulla quale si sollecita anzi un ulteriore impegno dell’Unione Europea, se non per bloccare lo sbarco a terra dei naufraghi, in modo da acquisire potere contrattuale nella trattativa con altri Stati europei in vista della loro redistribuzione. Senza considerare che queste prassi di “chiusura dei porti” o di “sbarchi selettivi” sono vietate dalle Convenzioni internzionali e da Regolamenti dell’Unione europea, in particolare dal Regolamento n. 656/2014 (Frontex) e dal Regolamento n.604/2013 (Dublino III), oltre che dalla Carta dei diritti fondamemtali dell’Unione Europea (artt.18 e 19) e dalla Costituzione italiana ( artt.2,3,10,117). Come ricorda in diverse occasioni la consolidata giurisprudenza italiana.
Sul piano del diritto interno, e delle responsabilità del governo e delle autorità marittime italiane, è molto importante il richiamo contenuto nella sentenza del Tribunale di Roma al Piano SAR nazionale, come fonte derivata di oblighi vincolanti, per tutte le autorità marittime, anche in acque internazionali non rientranti nella zona SAR italiana, oltre che per i comandanti delle navi, incluse le navi militari come nave Libra. Richiamo che nel caso del procedimento penale adesso concluso si riferiva al Piano SAR nazionale del 1996, che nel 2021 è stato aggiornato con il Piano SAR nazionale 2020, che comunque conferma gli obblighi di coordinamento e di soccorso già contenuti nel precedente piano, in conformità alle relative prescrizioni contenute nel Manuale IAMSAR e nelle Convenzioni internazionali di diritto del mare e di diritto dei rifugiati.
Ancora il 4 ottobre scorso la procura di Roma aveva richiesto per la seconda volta l’assoluzione degli imputati perchè“il fatto non sussiste”. La sentenza del Tribunale che dichiara la prescrizione del proecdimento contiene invece un accertamento ormai incontestabile di fatti e responsabilità che sono comunque emersi, malgrado l’omertà diffusa e la mancata collaborazione dei competenti ministeri, grazie alle indagini difensive portate avanti dale parti civili che fin dall’inizio hanno denunciato gli ostacoli che venivano frapposti all’accertamento della verità.
3. Individuazione della scala gerarchica delle fonti e quindi della tempestività degli interventi dalle prime chiamate di soccorso, fino al momento dell’avvicinamento di nave Libra alla zona del naufragio.
La ricostruzione dei fatti e l’accertamento delle responsabilità non possono prescindere dalla qualificazione giuridica che se ne fornisce, nel sistema delle fonti normative riguardanti i salvataggi in mare, secondo quel principio di gerarchia delle fonti che è più volte richiamato in recenti sentenze della Corte di Cassazione, come nel caso Rackete, Cass.n.6626, 16-20 gennaio 2020, in tema di doveri di soccorso affermati dall’art.18 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) e nel caso Vos Thalassa, (Cass.n.15869, 16 dicembre 2021, sentenza depositata 26 aprile 2022) con una netta riaffermazione del principio di non respingimento, sancito dall’art.33 della Convenzione di Ginevra del 1951, e tanto vale per l’operatore del soccorso marittimo, quanto per chi amministra la giustizia o per gli avvocati delle parti. Quanto previsto da regolamenti amministrativi, o da parte delle autorità marittime competenti, sulle modalità delle attività SAR in acque internazionali non può derogare consolidati principi di diritto internazionale che assumono carattere vincolante nell’ordinamento interno per effetto degli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione italiana.
Dalla sentenza del Tribunale di Roma è emerso con chiarezza che fin dalle prime chiamate di soccorso le autorità italiane erano state chiamate in causa, anche dalle autorità maltesi, per la maggiore vicinanza a Lampedusa, rispetto a Malta, del peschereccio, che già imbarcava acqua, ed a bordo del quale si trovavano pure molti bambini e alcuni feriti. E’ del resto fatto notorio che le autorità maltesi anche quando sono costrette ad assumere il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio (SAR) non dispongono o comunque non inviano loro mezzi navali nella parte meridionale della loro vastissima zona SAR, quasi al limite della cd. SAR “libica” (all’epoca dei fatti neppure dichiarata all’IMO), dove invece intervengono generalmente unità italiane, della Guardia costiera o della Marina Militare. In questo senso basta consultare le varie edizioni dei Dossier annuali della Guardia costiera italiana sui soccorsi nel Mediterraneo centrale, almeno fino al 2018 anno nel quale venivano sospese le pubblicazioni, per avere la prova di come le attività di ricerca e salvataggio nella immensa zona SAR maltese, fossero operate nella maggior parte dei casi da mezzi italiani o, in precedenza, da assetti navali europei, di singoli Stati o nel quadro di operazioni dell’agenzia FRONTEX.
In occasione del naufragio avvenuto poco dopo le ore 17 dell’11 ottobre 2013, le autorità maltesi avevano comunicato la loro assunzione del coordinamento delle attività SAR, ma le autorità italiane, che per prime avevano ricevuto le richieste di soccorso ,non avevano acquisito alcuna certezza sull’effettivo invio di una imbarcazione nella direzione del peschereccio che stava lentamente affondando, tanto che ad un certo punto non riusciva più a proseguire nella sua rotta. Solo a quel momento, attorno alle ore 16 di quello stesso giorno, dunque un ora prima del capovolgimento e dell’affondamento, le autorità maltesi chiedevano alle autorità italiane l’intervento in soccorso della nave Libra, che da ore si trovava a circa venti miglia dallo stesso peschereccio in attività di “ombreggiamento” (sorveglianza senza rendersi visibile). Come si verifica nei casi di “eventi migratori” non ancora classificati come eventi di soccorso (SAR). Il Tribunale di Roma accerta che, anche dopo quella tardiva richiesta proveniente da Malta, le autorità italiana non misero a disposizione quegli assett inavali già vicini alla zona dell’evento, il cui immediato intervento, secondo lo stesso Tribunale, avrebbe potuto evitare o ridurre le vittime.
4. Coordinamento imposto agli Stati nelle attività SAR in acque internazionali e rapporto di collaborazione tra le autorità italiane e le autorità maltesi
La sentenza del Tribunale di Roma afronta il tema della ripartizione delle competenze di coordinamento tra i diversi Stati costieri. La normativa internazionale (Convenzione di Amburgo del 1979- SAR e relativi allegati) impone precisi obblighi di collaborazione tra gli Stati costieri titolari di zone SAR confinanti mentre la normativa derivante della legge Bossi Fini del 2002 stabilisce doveri di coordinamento tra le diverse autorità statali coinvolte nelle attività di controllo delle frontiere marittime.
Nel caso della strage dell’11 ottobre 2013 si chiarisce che fin dalle prima chiamate di soccorso si sarebbe dovuto procedere ad un intervento da operare nei tempi e con le modalità più tempestive possibili, come previsto dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare. Di certo nel caso di specie, il principio assoluto di salvaguardia della vita umana in mare non poteva essere sacrificato alle finalità di vigilanza pesca o da un evidente rimpallo di responsabilità tra le diverse autorità marittime italiane e maltesi, che ricevevano le prime chiamate di soccorso ben quattro ore prima del rovesciamento e dell’affondamento del peschereccio.
L’Annesso alla Convenzione di Amburgo del 1979 individua per ogni Stato il Centro di coordinamento di salvataggio marittimo – MRCC (1.3.5 dell’Annesso) come “Centro incaricato di provvedere all’organizzazione dei servizi e di coordinare le operazioni di ricerca e soccorso” in una determinata zona di ricerca e salvataggio. Il Centro è tenuto ad utilizzare er i socorsi anche le unità della Marina militare presenti in zona, che se sono in pericolo vite umane non possono restare, o essere mantenute, in stand by, ed opporre la loro destinazione ad altri impieghi come la Sorveglianza pesca.
Altra importante previsione contenuta nell’Annesso alla Convenzione SAR riguarda la gestione operativa del soccorso marittimo, nella misura in cui si stabilisce che «ogni autorità di ricerca e salvataggio che ha motivo di ritenere che una persona, una nave o altro congegno si trova in una situazione di emergenza, deve al più presto comunicare tutte le informazioni disponibili al Centro di coordinamento di salvataggio o al Centro secondario di salvataggio competente (4.2.3 dell’Annesso)”. Si prevede anche che, “se non vi è un Centro di coordinamento di salvataggio responsabile o se, per qualsiasi ragione, il Centro di coordinamento di salvataggio responsabile non è in grado di coordinare la missione di ricerca e di salvataggio, i mezzi che partecipano dovrebbero designare di comune accordo un coordinatore sul posto (4.7.3 dell’Annesso)”. A tale riguardo si potrebbero ravvisare responsabilità che vanno ben oltre la posizione soggettiva dei due uficiali della Guardia costiera e della Marina imputati nel processo Libra. Non erano certo loro ai vertici delle catene di comando che avrebbero dovuto adottare decisioni “coordinate” a livello interstatale, in modo da supplire tempestivamente ai notori ritardi delle autorità maltesi.
Secondo quanto previsto dall’art. 11 del T.U. 286/98 sull’immigrazione, modificato dalla legge n.189 del 2002, “1-bis. Il Ministro dell’interno, sentito, ove necessario, il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, emana le misure necessarie per il coordinamento unificato dei controlli sulla frontiera marittima e terrestre italiana. Il Ministro dell’interno promuove altresì apposite misure di coordinamento tra le autorità italiane competenti in materia di controlli sull’immigrazione e le autorità europee competenti in materia di controlli sull’immigrazione ai sensi dell’Accordo di Schengen, ratificato ai sensi della legge 30 settembre 1993, n. 388”. Lo stesso articolo 11 veniva così integrato: «9-bis. La nave italiana in servizio di polizia, che incontri nel mare territoriale o nella zona contigua, una nave, di cui si ha fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto illecito di migranti, può fermarla, sottoporla ad ispezione e, se vengono rinvenuti elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di migranti, sequestrarla conducendo la stessa in un porto dello Stato; 9-ter. Le navi della Marina militare, ferme restando le competenze istituzionali in materia di difesa nazionale, possono essere utilizzate per concorrere alle attività di cui al comma 9-bis. 9-quater. I poteri di cui al comma 9-bis possono essere esercitati al di fuori delle acque territoriali, oltre che da parte delle navi della Marina militare, anche da parte delle navi in servizio di polizia, nei limiti consentiti dalla legge, dal diritto internazionale o da accordi bilaterali o multilaterali, se la nave batte la bandiera nazionale o anche quella di altro Stato, ovvero si tratti di una nave senza bandiera o con bandiera di convenienza. 9-quinquies. Le modalità di intervento delle navi della Marina militare nonché quelle di raccordo con le attività svolte dalle altre unità navali in servizio di polizia sono definite con decreto interministeriale dei Ministri dell’interno, della difesa, dell’economia e delle finanze e delle infrastrutture e dei trasporti.
In attuazione degli articoli 11 e 12 della stessa legge Bossi-Fini veniva adottato il Decreto interministeriale del 14 luglio 2003 (pubblicato sulla G.U. Serie generale n. 220 del 22 settembre 2003) che dettava le regole di comportamento per gli assetti aero-navali della Marina militare, delle Capitanerie di Porto e delle Forze di Polizia impegnate nelle attività di controllo delle frontiere marittime, stabilendo che “l’azione di contrasto deve essere sempre improntata alla salvaguardia della vita umana e al rispetto della dignità della persona” (art. 7, co. 1). Nel quadro dei vasti poteri di indirizzo attribuiti al Ministero dell’interno, l’art. 5, comma 4 del decreto individuava, per quanto concerne le acque internazionali, nel Comando in capo della squadra navale (CINCNAV), il «raccordo delle fasi di pianificazione» dell’attività di prevenzione e contrasto dell’immigrazione clandestina via mare, mentre rimanevano confermate le competenze prevalenti della Guardia di finanza nella zona contigua e della Guardia costiera nelle acque territoriali. Non veniva però derogata la normativa internazionale, contenuta nel Manuale IAMSAR e nelle Convenzioni internazionali di diritto del mare, che stabiliva la competenza generale dei MRCC per ciascuno Stato, in ordine alle attività di ricerca e salvataggio, generalmente definite come SAR ( Search and rescue) sia all’interno delle acque territoriali che in acque internazionali.
Con riferimento al decreto interministeriale del 14 luglio 2003, pubblicato sulla G.U. serie generale n. 220 del 22 settembre 2003, in ordine agli interventi nelle acque internazionali, (L. Salamone, Polizia marittima ed antimmigrazione alla luce della recente normativa, in Diritto & Diritti, all’indirizzo www.Diritto.it, gennaio 2004,) osservava che “in particolare, per quanto concerne le Unità della Marina militare, sembra potersi ritenere che, in conformità a quanto già previsto, seppur in linea generale, nell’art. 12 del TU n. 286/1998 e successive modifiche, permanga, in capo alla stesse, una competenza primaria finalizzata all’espletamento dell’azione di controllo in acque internazionali (art. 3 co. 2), salvo, tuttavia, come detto, l’utilizzo delle suddette Unità per concorrere, nei casi di necessità ed urgenza, all’attività di cui all’articolo 12 del TU n. 286/1998 (concorso nell’espletamento dell’attività di polizia giudiziaria). Pertanto, nell’ambito delle acque internazionali, le Unità della Marina militare, ai sensi e per gli effetti del combinato disposto degli artt. 4, co. 1 lett. b) e 5, co. 1, dovranno assicurare una costante attività di sorveglianza finalizzata alla localizzazione, alla identificazione ed al tracciamento di natanti sospettati di traffico di clandestini”. Non si può che prendere atto che nel corso degli anni, mentre le Convenzioni internazionali ed i Regolamenti europei non sono sostanzialmente mutati, le diverse posizioni delle autorità di governo hanno fortemente influenzato i rapporti tra Guardia costiera e Marina militare, e le intese operative con le autorità marittime e politiche dei paesi titolari di zone SAR confinanti con quella italiana.
Per i giudici del Tribunale di Roma, la norma fondamentale per la comprensione degli eventi, che vale anche quando il coordinamento dell’evento sia stato assunto da un altro paese dell’Unione Europea competente per aria SAR, è costituita dall’articolo 5 del DPR 28 settembre 1994 n. 662, decreto attuativo della Convenzione di Amburgo (SAR) del 1979, che impone di tenere i contatti con i centri di coordinamento del soccorso degli altri Stati anche quando l’intervento avvenga fuori dalle acque territoriali e della zona SAR di competenza italiana. In base a questa norma “ Il centro nazionale di coordinamento di soccorso marittimo (I.M.R.C.C.), i centri secondari di soccorso marittimo (M.R.S.C.) e le unita’ costiere di guardia (U.C.G.), secondo le rispettive competenze, coordinano o impiegano le unita’ di soccorso. L’I.M.R.C.C. e gli M.R.S.C. richiedono agli alti comandi competenti della Marina militare e dell’Aeronautica militare, in caso di necessita’, il concorso dei mezzi navali ed aerei appartenenti a tali amministrazioni dello Stato. Parimenti le U.C.G. richiedono alle altre amministrazioni dello Stato o a privati il concorso di mezzi navali ed aerei, ritenuti idonei per partecipare alle operazioni di soccorso marittimo secondo le procedure e le modalita’ previste dal decreto del Ministro della marina mercantile 1 giugno 1978, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 174 del 27 giugno 1979. 2. Il comando e il controllo operativo dei mezzi navali o aerei della Marina militare, dell’Aeronautica militare e delle altre amministrazioni, eventualmente chiamati a concorrere alle operazioni di soccorso marittimo, sono esercitati dai rispettivi comandi competenti per giurisdizione, che terranno informati i centri di soccorso marittimo (I.M.R.C.C. – M.R.S.C. – U.C.G.) responsabili del soccorso e del coordinamento, secondo le rispettive competenze. 3. Il compito di “comandante sul posto” (OSC – ufficiale in comando tattico) dei mezzi della Marina, dell’Aeronautica, del Corpo delle capitanerie di porto, della Guardia di finanza, dei Carabinieri, della Polizia di Stato e delle altre amministrazioni eventualmente concorrenti, e’ assegnato al comandante del mezzo navale della Marina militare o del Corpo delle capitanerie di porto, di maggiore anzianita’ di grado. Nel caso che sul posto non dovessero trovarsi ad operare unita’ della Marina militare e del Corpo delle capitanerie di porto, il compito di “comandante sul posto” sara’ assegnato al comandante di unita’ navale della Guardia di finanza, dei Carabinieri, della Polizia di Stato o delle altre amministrazioni dello Stato, di maggiore anzianita’ di grado. 4. Il “comandante sul posto” nella condotta dell’operazione di ricerca e salvataggio si conforma alle direttive specifiche emanate dall’I.M.R.C.C. o dall’M.R.S.C./U.C.G. delegato. 5. Se in zona sono presenti soltanto unita’ mercantili, l’I.M.R.C.C. o il M.R.S.C./U.C.G. delegato, piu’ idoneo in relazione allo svolgimento dell’operazione di soccorso, assegna il compito di coordinatore delle ricerche in superficie (CSS) al comandante di una delle unita’ mercantili presenti. A tal fine deve essere tenuto conto della tipologia delle navi e dei mezzi di cui dette unita’ dispongono e della rispettiva ora stimata di arrivo sul posto. Al momento in cui assume le funzioni, il CSS deve darne immediata comunicazione all’I.M.R.C.C. o al M.R.S.C. o al U.C.G., che operano secondo le rispettive competenze. 6. Il coordinatore delle ricerche di superficie di cui al comma 5 opera sotto il controllo dell’I.M.R.C.C. o del M.R.S.C. o dell’U.C.G. delegato in relazione allo svolgimento dell’operazione di soccorso marittimo. Il M.R.S.C. o l’U.C.G. tengono informato il centro di coordinamento superiore interessato.
I giudici romani ricordano al riguardo l’articolo 3.1.7 della Convenzione di Amburgo (SAR) del 1979, secondo cui “ciascuna Parte dovrebbe autorizzare i propri centri di coordinamento di salvataggio a fornire, su richiesta, l’assistenza ad altri centri di coordinamento di salvataggio ed in particolare a mettere a loro disposizione navi, aeromobili, personale o materiale”.Secondo questa norma, interpretata nel suo senso più ampio, i centri di coordinamento e salvataggio (MRCC) dovrebbero esere “autorizzati” da una autorità gerarchicamente sovraordinata a fornire su richiesta assistenza ad altri MRCC di Stati titolari di zone SAR confinanti. Non si trova però nella sentenza, e nell’intero procedimento penale, la compiuta identificazione di queste autorità che dovrebbero essere autorià militari di livello più elevato, per gestire rapporti internazionali, ed autorità politiche titolari del potere di concludere accordi con paesi stranieri. Emerge invece dalla sentenza dei giudici romani come le autorità italiane, direttamente responsabili del coordinamento dei soccorsi, avessero “nascosto” per ore alle autorità maltesi la presenza della nave Libra in prossimità del barcone che imbarcava acque e dal quale continuavano a partire richieste di soccorso sempre più angosciate. Secondo quanto accertato nella stessa sentenza, le autorità italiane erano venute meno agli obblighi di informazione stabiliti dalle Convenzioni internazionali. Mentre le autorità maltesi, a loro volta, malgrado un loro aereo avesse sorvolato più volte il barcone in evidente difficoltà, tardavano a dichiarare una situazione di distress e a chiamare in causa le autorità italiane, come poi avvenne meno di un’ora prima del ribaltamento e dell’affondamento del barcone.
Nella lunga vicenda processuale si staglia la testimonianza dal dott. Jamou, resa nell’udienza del 29 aprile 2021:“con la parte italiana io personalmente ho provato di chiamare, o meglio,ho provato 4-5 volte di comunicargli. La prima volta mi ha risposto un uomo, laseconda volta una donna, poi dopo un uomo, una donna, che cercavano di dirmi semprela stessa cosa. “Dove siete? A che punto siete?” appunto come distanza, e misuggerivano di contattare le autorità maltese in quanto più vicino alla Malta cheall’Italia, cioè che a Lampedusa. Ho contattato naturalmente poi dopo le autoritàmaltese per chiedere appunto la stessa cosa, l’aiuto, eccetera, e anche quelli lì, quellimaltese continuavano a dirmi che siete più vicini all’Italia, quindi contattate l’Italia, leautorità italiane”. Quanto affermato dal superstite, che era poi la persona che per tutto quel pomeriggio dell’11 ottobre 2013 aveva comunicato con le autorità italiane e maltesi, trova conferma nelle registrazioni delle telefonate e nelle dichiarazioni di tutti i testimoni e, più di qualunque tracciato o supporto informatico, fornisce la misura dello stato di abbandono in mare nella quale si trovavano i migranti nelle ore antecedenti il ribaltamento ed il naufragio del peschereccio. Questa situazione derivava dall’omissione del trasferimento ai maltesi di informazioni decisive, e dal mancato coordinamento delle autorità italiane e maltesi, che per almeno due ore, malgrado la ricongizione aerea di un assetto maltese che sorvolava il barcone in dificoltà, escludevano la ricorenza di un caso di distress, tale da imporre un immediato intervento di soccorso, e poi da un ulteriore ritardo, riscontrato dal Tribunale di Roma, nelle comunicazioni tra Guardia costiera e Marina militare italiana. Autorità tra cui nel corso degli anni non sono mancati conflitti di attribuzione. In quella tragica giornata, sempre secondo quanto accertato dal tribunale di Roma, ore preziose venivano perse per fare interrompere alla nave Libra la missione di vigilanza e pesca e quindi indirizzarla verso l’evento SAR in corso.
Secondo quanto ha dichiarato nella sua audizione del 31 maggio 2021 dall’ammiraglio Foffi, “La vigilanza pesca non poteva essere interrotta se non in due casi: lo Stato Maggiore mi diceva comandando che voleva sospendere la vigilanza pesca, per qualunque motivo loro lo potevano fare, oppure… e nel caso specifico se c’era un SAR non c’erano subbi per noi, doveva essere semplicemente sospesa la ViPe senza chiedere nessuna autorizzazione e dedicarci al SAR”. Ammesso pure che una imbarcazione militare impegnata in una missione stabilita dai comandi più alti, non possa essere distolta dai suoi compiti operativi senza un preciso ordine del superiore gerarchico, anche a causa del ritardo dell’accertamento di una situazione di distress, questo sistema gerarchico non sembra aver garantito tempestivi interventi di soccorso a fronte della ripartizione di competenze tra l’IMRCC, responsabile dei soccorsi in mare, e il CINCNAV che coordina i movimenti delle unità militari in acque internazionali, unità destinate a compiti di contrasto dell’immigrazione irregolare, ma anche al socorso delle imbarcazioni in distress, e dunque al salvataggio di vite umane in pericolo.
5. Determinazione e distinzione di un evento di ricerca e soccorso (evento Sar) che come tale impone un intervento immediato di qualunque autorità che ne venga a conoscenza, rispetto a quelle situazioni di avvistamento che vengono comunemente definibili come “eventi migratori
Il diritto dei Trattati (come la Convenzione di Vienna del 1969) e gli Emendamenti del 2004 alle Convenzioni internazionali di diritto del mare, richiamati dal Manuale IAMSAR, rafforzano l’esigenza di una interpretazione integrata delle varie disposizioni relative ai salvataggi in mare, da coordinare con le previsioni delle Convenzioni che garantiscono i diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo che impediscono di considerare come reato l’ingresso nel territorio di una persona che fa richiesta di protezione. In tutti i trattati internazionali la salvaguardia della vita umana in mare prevale sulle attività di controllo delle frontiere marittime e dunque sugli interventi e sulle modalità operative di polizia di frontiera.
In base all’art. 98 della Convenzione UNCLOS di Montego Bay del 1982, che sancisce l’obbligo di prestare soccorso, ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri, presti soccorso a chiunque sia trovato in
mare in condizioni di pericolo; e proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa. In base alla stessa Convenzione, ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali. Tale obbligo di collaborazione ai fini del soccorso in mare è ulteriormente specificato in altre Convenzioni internazionali di diritto marittimo, come la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (SOLAS) del 1974 e la Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il soccorso in mare (SAR) del 197926.
La sentenza dei giudici romani riprende a tale proposito la distinzione tra le diverse tre fasi delle attività svolte da Guardia Costiera e Marina Militare in occasione dell’ avvistamento di imbarcazioni cariche di migranti in navigazione verso le coste italiane, riconducibili alle fasi di incertezza (INCERFA) di allerta (ALERTFA) e di pericolo (DESTREFA), nozioni individuabili nel Piano SAR nazionale del 1996, in vigore all’epoca dei fatti oggetto del procedimento. La sentenza non approfondisce la questione su quali fossero le autorità chiamate a decidere sulla qualificazione dell’evento da ricondurre ad una di queste tre diverse fasi e quindi determinare l’azione immediata di soccorso, piuttosto che un’attività di controllo da lontano, cosiddetto ombreggiamento.
La nozione di distress è stabilita dalla Convenzione di Amburgo del 1979 (Annex, 1, para. 1.3.11) “a) situationwherein there is a reasonable certainty that a vessel or a per-son is threatened by grave and imminent danger and requiresimmediate assistance”. Se ricorre una situazione di distress in alto mare il comandante di qualsiasi nave, è dunque obbligato ad intervenire con la massima rapidità, anche senza attendere indicazione da parte delle competenti autorità marittime o politiche
Il Piano SAR nazionale del 1996, strettamente derivante dal manuale IAMSAR, assegnava un rilievo particolare alla «classificazione» degli eventi SAR e distingueva nell’ambito degli eventi di ricerca e salvataggio (SAR) tra una fase di incertezza, una fase di allerta, e una fase di pericolo (destrefa) stabilendo, a seconda delle diverse fasi, gli obblighi di intervento e le responsabilità statali e delle competenti autorità marittime. Lo stesso Piano imponeva che la notizia di un evento di soccorso dotata di un minimo di attendibilità dovesse essere considerata veritiera a tutti gli effetti e dunque tale da fare scattare doveri di comunicazione e di sorveglianza ed, in caso di distress, l’obbligo di intervento immediato dell’autorità SAR che per prima ne fosse venuta aconoscenza, almeno fino a quando non vi fosse certezza dell’intervento dell’autorità competente per zona. Spettava poi ai governi ed alle relative autorità marittime e militari, in particolare ai Centri di coordinamento del soccorso (MRCC), il completamento degli obblighi di salvataggio posti a carico dei comandanti delle navi in mare, assicurando nelle rispettive aree di responsabilità SAR un’efficiente organizzazione dei servizi di ricerca e soccorso (Marittime Rescue Coordination Centre o MRCC), in grado di gestire le comunicazioni di emergenza e di coordinare le operazioni in modo tale da garantire il salvataggio delle persone ed, in collaborazione con il Ministero dell’interno, il loro sbarco in un luogo sicuro.
All’avvistamento diretto del natante da soccorrere può essere ricondotta non solo la individuazione della rotta ed il suo tracciamento a distanza, ma anche l’intervento immediato di soccorso, quando emergano elementi circostanziati che facciano presumere un pericolo imminente (distress). Come si verifica nel caso di barconi sovraccarichi, a notevole distanza dalla costa, senza dotazioni di sicurezza ed in condizioni di galleggiabilità precaria. In presenza di queste situazioni la circostanza che il barcone continui a procedere a motore, avanzando lentamente verso le coste italiane, non può essere ritenuta un elemento che esclude la ricorrenza di una situazione di distress e dunque di un evento di ricerca e soccorso qualificabile come evento SAR. Malgrado quanto disposto dalle Convenzioni internazionali e dai loro annessi, sono migliaia di vittime che si sono dovute contare nel corso degli anni. Eppure le stesse Convenzioni internazionali, peraltro richiamate dal Regolamento Frontex n.656 del 2014, confermano come il lento moto di una imbarcazione carica di migranti verso le acque territoriali italiane non escluda il rischio frequente di naufragio. Come si era verificato del resto anche nel 2013, pochi giorni prima del naufragio oggetto del processo Libra, con la strage di Lampedusa del 3 ottobre di quell’anno. Come si è continuato a verificare negli ultimi anni, a causa della perdurante mancanza di collaborazione delle autorità maltesi e dei ricorrenti ostacoli frapposti alle attività di ricerca e salvataggio delle ONG, mentre gli Stati hanno ritirato i loro assetti di ricerca e salvataggio all’interno delle acque territoriali.
Nel mese di ottobre del 2009, venivano adottate, dal Comandante generale del Corpo delle Capitanerie di Porto, le “Linee Guida per l’impiego delle risorse SAR nelle aree situate al di fuori della SRR Italiana nel corso di eventi riguardanti il controllo del flusso dei migranti”. In base a tali linee guida, a seguito di segnalazione all’IMRCC dell’avvistamento di un’unità navale non identificata in navigazione oltre i limiti della SRR Italiana, che verosimilmente trasporta migranti in direzione delle coste nazionali, lo stesso IMRCC deve provvedere alla diffusione delle informazioni relative all’evento stesso secondo le previsioni dell’accordo tecnico operativo per gli interventi connessi con il fenomeno dell’immigrazione clandestina via mare, di cui al decreto interministeriale 14 luglio 2003. A questo punto la Centrale operativa, ai sensi del punto 4.2.4 della Convenzione SAR del 1979, nella sua veste di IMRCC, procede immediatamente all’acquisizione delle informazioni necessarie e valuta l’evento sotto il profilo della salvaguardia della vita umana in mare, onde determinare se ricorrano condizioni di pericolo grave e imminente e necessità di immediata assistenza per gli occupanti dell’unità. A tal fine le unità aeronavali eventualmente presentinella scena d’azione avrebbero dovuto provvedere ad acquisire e trasmettere, con il mezzo di comunicazione più idoneo, secondo quanto previsto dal punto 4.4 della Convenzione SAR del 1979, all’IMRCC i seguenti elementi per la classificazione dell’evento: posizione geografica, ora dell’avvistamento, condizioni meteo-marine, dimensioni e tipologia dell’unità, suo bordo libero (galleggiamento), numero delle persone a bordo e loro condizioni fisiche, eventuale presenza tra essi di donne in stato di gravidanza, bambini, malati, traumatizzati, presenza di cadaveri nei pressi dell’unità; dotazioni di sicurezza presenti a bordo, elementi del moto, altri elementi utili a discrezione del rapportante.
Dalle linee guida adottate dal Comando del Corpo delle Capitanerie di Porto nel 2009 sembra dunque che le attività SAR delle unità militari italiane in acque internazionali fossero previste solo in caso di pericolo imminente per la vita delle persone, quindi a seguito della dichiarazione di una situazione di destrefa, in base ad una valutazione caratterizzata dalla discrezionalità tecnica, ma pur sempre vincolata ai parametri internazionali, delle autorità marittime, ed in particolare, della Centrale operativa della Guardia costiera – IMRCC di Roma, sulla base ovviamente di quanto comunicato o di quanto accertato dalle unità operative. Si deve però aggiungere che proprio per gli indicatori (tra i quali il carico, il bordo libero, la sicurezza del mezzo, il propulsore) già riportati nel Piano SAR nazionale del 1996, tutte le imbarcazioni sovraccariche di migranti che si trovavano a navigare nelle acque internazionali (alto mare) del Mediterraneo centrale fossero da ritenere in una situazione di distress, ovvero di pericolo imminente, senza attendere che la situazione a bordo o le condizioni meteo diventassero talmente gravi da comportare la perdita di vite umane. Si deve anche ricordare che, sulla base di diverse sentenze di condanna della magistratura penale (sentenze dei Tribunali di Messina, di Milano e di Catania) a carico di scafisti, i giudici hanno messo bene in evidenza le condizioni di insicurezza permanente o di totale assenza delle condizioni di navigabilità delle imbarcazioni sulle quali venivano trasportati i migranti.
Durante tutta l’Operazione Mare Nostrum, successiva alle stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, le autorità italiane abbandonavano le “Linee Guida per l’impiego delle risorse SAR nelle aree situate al di fuori della SRR Italiana” che poi venivano totalmente disattivate dal Regolamento europeo n.656 del 2014, che definiva la portata delle situazioni di distress ed imponeva agli Stati il socccorso immediato anche al di fuori delle zone SAR di propria competenza. In seguito, governi di diverso indirizzo politico ritornavano ad un impiego delle navi militari italiane della Guardia costera più centrato sulle acque territoriali, mentre calava drasticamente il numero dei soccorsi operati dalle navi della Marina militare italiana, comunque presenti con funzioni di vigilanza nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale.
Nel caso Libra, ma anche in molti casi più recenti, rimane comunque centrale la valutazione operata dalla Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC) sulla ricorrenza di un pericolo immediato per la sicurezza delle persone a bordo (detresfa) tale da classificare l’evento come “SAR”, facendo scattare in questo modo tutte le attività di soccorso previste dal Decreto del Presidente della Repubblica n.. 662/1994 , concernente adesione alla Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, adottata ad Amburgo il 27 aprile 1979. e dal Piano nazionale SAR del 1996. approvato con Decreto del ministro delle infrastrutture del 25 novembre 1996. Non può non stupire come in occasione el naufragio dell’1 ottobre 2013, le autorità italiane non si siano neppure poste il problema dell’accertamento immediato di una situazione di distress e si siano fidate dell’assunzione di responsabilità di coordinamento da parte dei maltesi, quando la conferma di tale responsabilità, secondo quanto accertato dal Tribunale di Roma, veniva inviata con una comunicazione formale a mezzo fax, soltanto due ore dopo le prime chiamate di soccorso ed il trasferimento di competenze dall’Italia, primo paese contattato, alle autorità di La Valletta. Da quanto emerso dalle testimonianze e dai riscontri documentali nel corso del dibattimento, solo dalle 16.22 del 11 ottobre 2013, con l’invio di un fax dalle autorità maltesi, che avevano inviato un velivolo per verificare la situazione, si chiedeva da parte delle autorità di La Valletta, che finalmente avevano assunto effettivamente con il loro MRCC, il coordinamento delle attività SAR, l’ intervento di una unità militare italiana, appunto la nave Libra, con l’evidente finalità di portare un soccorso immediato al barcone che era ormai sul punto di capovolgersi, come avveniva qualche decina di minuti più tardi, poco dopo le ore 17 di quello stesso giorno.
Nella sentenza del Tribunale di Roma, come già era emerso nel corso del processo, si svela chiaramente l’inadeguatezza dei mezzi maltesi rispetto all’estensione dell’area SAR. Era del resto evidente -osservano i giudici- come da decenni addietro Malta si fosse attribuita una zona Sar sovradimensionata e che Malta, pur sempre paese dell’Unione Europea, sia un’isola di piccole dimensioni con una popolazione assai inferiore a quella del nostro paese. Nella sentenza si osserva anche come la zona SAR maltese si incunei tra la Libia e l’Italia e generi contenziosi tanto che in molte occasioni MRCC (Centrale di coordinamento) Malta non risponde alle richieste italiane anche per la insufficienza di mezzi, comunque ben nota a tutte le autorità. Arrivando ad estendere la portata di questo accertamento ai giorni nostri, perdono fondamento tutte le accuse che si continuano a rivolgere alle navi umanitarie delle ONG quando, pur trovandosi in acque internazionali all’interno della zona SAR maltese, rivolgono all’Italia e non a Malta le richieste di coordinamento delle attività di soccorso fino alla indicazione di un porto sicuro di sbarco.
Nel caso della strage del’11 ottobre 2013 non si può dunque ritenere che le autorità italiane, ed in particolare la Centrale operativa della Guardia costiera (IMRCC) e il Comando generale della Marina CINCNAV, potessero ritenere esclusa una loro attività di ricerca e salvataggio (SAR) solo sulla base di una frettolosa qualificazione della vicenda come “evento migratorio” e del successivo trasferimento di competenze alle autorità maltesi, che soltanto poche ore dopo dichiaravano per l’ennesima volta la loro incapacità, o la loro non volontà, di intervenire direttamente con l’invio di un mezzo navale da La Valletta. Alla fine tuttavia era proprio un mezzo navale maltese che raggiungeva la zona dei soccorsi, ma ormai la strage si era compiuta. Si può davvero credere che le telefonate provenienti dal barcone già quattro ore prima del suo affondamento non fossero “informazioni di pericolo” corispondenti ad una situazione conclamata di distress?
Un “accordo tecnico interministeriale” non può derogare le Convenzioni internazionali e non può contemplare la possibilità di distinguere arbitrariamente tra un “evento migratorio” ed un “evento SAR” in modo da ridurre la portata effettiva degli obblighi di ricerca e salvataggio fissati dalle stesse Convenzioni internazionali a carico degli Stati. I migranti in difficoltà in mare non sono oggetti da respingere al mittente, come un carico, o da abbandonare in acque internazionali, senza garantire la immediata salvaguardia della vita umana in mare, magari per evitare che possano fare ingresso “per ragioni di soccorso” nel nostro territorio. La sentenza del Tribunale di Roma, pur dichiarando la prescrizione, arriva ad accertare un preciso atteggiamento elusivo da parte delle autorità italiane per evitare un possibile coinvolgimento nell’evento fin dalle ore 13:34, di quell’11 settembre del 2013, sebbene giungesse notizia alle ore 13:47 che lo scafo alla deriva imbarcasse acqua. “Sotto il profilo eziologico”, il Tribunale osserva che il ribaltamento del barcone sarebbe stato certamente scongiurato se gli imputati avessero assicurato, fin dalle ore 13:47 di quel terribile giorno, l’avvicinamento di Nave Libra al barcone, già danneggiato dai colpi d’arma da fuoco sparati dai libici e che imbarcava acqua. Oltre a tacere la posizione della nostra nave militare alla Centrale di coordinamento (MRRC) di Malta nel fax inviato alle ore 15:08, Circostanze accertate nel corso del giudizio che avrebbero aggravato il tragico bilancio finale di dispersi. Secondo la sentenza che dichiara la prescrizione, ma accerta anche fatti e responsabilità precise, l’arrivo sul posto della nave della Marina militare, anche se in ritardo e non del tutto risolutiva, con altra probabilità statistica e logica, avrebbe significativamente diminuito il rischio dell’evento o comunque avrebbe potuto avere conseguenze significative nella riduzione del numero delle vittime. Le possibili contestazioni da rivolgere alle autorità maltesi non riducono l’area di resaponsabilità delle autorità italiane, principio di grande rilievo anche rispetto a vicende più recenti che hanno visto su posizioni contrapposte Malta e Italia, che non trovano un accordo nepure sulla esatta delimitazione delle zone SAR, che in due punti, a sud di Lampedusa e a sud est di Capo Passero, risultano parzialmente sovrapposte. E dovrebbe essere a tutti noto, in particolare alle autorità marittime italiane, che Malta non ha mai ratificato gli emendamenti alla Convenzione SAR introdotti dall’IMO nel 2004.

Anche per il Tribunale di Roma non sono dunque ammissibili, da parte delle autorità marittime di coordinamento, indicazioni di stand by, di non avvicinarsi alle imbarcazioni in difficoltà in acque internazionali (altrimenti definite “alto mare”) per non intralciare il coordinamento SAR di altri Stati, o peggio, per non dissuadere questi Stati dall’invio di loro mezzi di soccorso. Per arrivare a dichiarare un evento SAR non occorre giungere al ribaltamento di un barcone, come si verificò in quel terribile 11 ottobre 2013. La sentenza del Tribunale di Roma restituisce uno scenario terribile, emerso dalle testimonianze dei due imputati, oltre che dalle precise denunce delle vittime, corroborato da riscontri documentali e telematici, e definisce precise responsabilità in capo ai vertici dei sistemi di coordinamento delle autorità marittime italiane tenute a coordinare attività di soccorso in acque internazionali, la Guardia costiera con il supporto operativo della Marina militare. Rimangono sullo sfondo le responsabilità dei vertici militari e delle autorità politiche che avevano fornito alle Centrali di coordinamento l’indirizzo operativo per evitare l’assunzione di responsabilità delle attività di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali, al di fuori della zona SAR italiana. Una questione che rimane aperta ancora oggi, quando si prospettano provvedimenti amministrativi che potrebbero risultare in contrasto con gli obblghi di soccorso previsti a carico degli Stati dalle Convenzioni internazionali e dal Regolamento europeo Frontex n.656 del 2014.