di Fulvio Vassallo Paleologo
1. Ancora un incontro ai vertici tra Italia e Libia, mentre arrivano minacce agli operatori umanitari delle ONG che hanno salvato migliaia di persone in fuga da un paese che non garantisce i diritti umani e la vita delle persone migranti che si trovano sul suo territorio. In Europa e’ l’Italia che ha dettato la linea, con il Migration Compact di Renzi nel 2016, dopo la chiusura dell’operazione Mare Nostrum e con gli accordi bilaterali con la Libia, in particolare con il Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017 siglato dal primo ministro Gentiloni con il governo di Tripoli. Oggi a Roma si tratta con il premier del governo provvisorio libico sulla base del Trattato di amicizia siglato da Berlusconi con Gheddafi nel 2008 ,che recepiva a sua volta il Protocollo operativo firmato da Amato nel dicembre del 2007. Maroni, Salvini e la Meloni non hanno inventato nulla. Sono accordi che l’Unione Europea ha avallato senza alcuna attenzione per i diritti umani violati in Libia e per le vite che si perdevano in alto mare. Come ha detto Carola Rackete, dopo l’archiviazione di tutte le accuse a suo carico, sono in tanti che portano in Europa le responsabilità per i naufragi che si continuano a ripetere con frequenza sempre maggiore nel Mediterraneo centrale. Questi stessi accordi oggi verranno rilanciati negli incontri tra il premier libico, Draghi e Di Maio. Ma chi rappresenta davvero il nuovo premier provvisorio libico? Anche in Libia non mancano dubbi sulla portata di questi accordi.
Il governo Draghi procede speditamente sulla via della esternalizzazione delle frontiere, impegnandosi addirittura a coinvolgere l’Unione Europea nei progetti di vigilanza delle frontiere meridionali del Fezzan e rilanciando ancora oggi la collaborazione con la sedicente Guardia costiera “libica”, di cui due motovedette sono in riparazione nel porto di Riposto vicino Catania.
Lo stesso governo Draghi, attraverso la ministro Lamorgese, rilancia poi la tesi della competenza delle Stato di bandiera della nave soccorritrice nella indicazione del porto sicuro di sbarco, una tesi (del cd. flag state) priva di fondamento legale nelle Convenzioni internazionali ed assolutamente insostenibile alla prova dei fatti. Come dimostra l’asegnazione, per quanto terdiva, di un porto di sbarco (Augusta), alla nave umanitaria Aita Mari, tenuta al largo della Sicilia, in acque internazionali, per tre giorni. Una vessazione inutile ai danni dei naufraghi, già duramente provati dalla traversate e dagli abusi subiti in Libia. Ma se il Viminale, di fronte alla reazione degli altri paesi europei, che hanno sempre contestato la teoria del “flag state”, deve cedere e indicare un porto di sbarco, si bloccano comunque i soccorsi umanitari, prima con lunghi tempi di quarantena, inflitti solo alle navi delle ONG e non ai mezzi commerciali che operano soccorsi in acque internazionali, poi con le misure di fermo amministrativo, da ultimo nel caso Sea Watch 4, bloccata da settimane nel porto di Trapani. Sei navi delle ONG sono attualmente fermate in porto da misure di fermo amministrativo, un risultato di blocco delle attività di soccorso nel Mediterraneo centrale che neppure Salvini era riuscito a raggiungere con i suoi decreti sicurezza e con le sue direttive illegali di blocco “ad navem”. Anche perchè allora la magistratura non aveva sostenuto le iniziative di interdizione adottate dal Viminale, a differenza di quanto accade oggi nel caso dei fermi amministrativi.
2. Di fronte a questo comportamento del governo, che dimostra una sostanziale continuità con i precedenti governi, arrivando a sostenere la tesi della competenza dello stato di bandiera (flag state) che è pure al centro della difesa di Salvini nel processo Open Arms che si aprirà a settembre a Palermo, ogni interlocuzione rischia di essere vana e di fornire alibi. Perchè è sempre più evidente che il vero obiettivo che il governo vuole raggiungere, e che l’Unione Europea ha fatto proprio con la Racomandazione sui soccorsi operati da navi private nel Mediterraneo centrale adottata il 23 settembre dello scorso anno, nell’ambito del nuovo Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, è il consolidamento degli accordi con i libici e del supporto alla guardia costiera delle milizie che controllano i porti di quel paese, cruciali anche per l’intenso traffico commerciale e di risorse energetiche che si dirige verso l’Italia. Questo e nient’altro significa il principio di “condizionalità migratoria” applicato ai rapporti tra Libia, Tunisia, Italia ed Unione Europea. Ed in Tunisia scattano denunce per i naufraghi in fuga dalla Libia che fanno naufragio davanti le coste di Sfax. Ormai è bene che si comprenda che si tratta di una unica rotta del Mediterraneo centrale e che la Tunisia, rispetto ai subsahariani non può essere qualificata come “paese terzo sicuro”. Come invece vorrebero Draghi e la Lamorgese. La Guardia costiera tunisina ha tratto in salvo sabato, di fronte alle coste di Karatin, al largo di Sfax, 111 migranti a bordo di un’imbarcazione in difficoltà. Lo ha reso noto il ministero dell’Interno di Tunisi precisando che la maggior parte dei migranti è originaria di diversi Paesi africani, mentre 9 sono tunisini. Per tutti è scattata una denuncia all’autorità giudiziaria, si legge in una nota. Che fine faranno uomini, donne e bambini che erano riusciti a fuggire dalla Libia e riponevano tutte le loro speraze di vita nella traversata del Mediterraneo?
3. L’UNHCR ha recentemente pubblicato un rapporto che “riassume gli standard legali applicabili e le posizioni dell’UNHCR in merito alle politiche e alle pratiche che servono effettivamente a ‘esternalizzare’ gli obblighi di protezione internazionale”. La nota è accompagnata da un allegato che “spiega che le misure volte, o effettivamente utili, ad evitare responsabilità o a spostare, piuttosto che condividere, gli oneri sono contrarie alla Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati (‘Convenzione sui rifugiati del 1951’) e ai principi di cooperazione e solidarietà internazionale generalmente accettati. Nel Rapporto si spiega come gli accordi di di esternalizzazione siano distanti dalle politiche e dalle pratiche adottate in conformità del diritto internazionale, volte a condividere le responsabilità in materia di protezione internazionale nello spirito della cooperazione e della solidarietà internazionali.
Le documentate denunce dell’Alto Commissario ai diritti umani delle Nazioni Unite, ed adesso dell’UNHCR, non possono restare prive di conseguenze . Devono servire a tracciare una netta linea di demarcazione politica tra chi in Italia sostiene la cooperazione con le milizie libiche e con i governanti provvisori che ne mediano le attività militari e non riescono ad impedire le connessioni criminali, come documentato dalla liberazione del noto trafficante Bija, e chi invece rimane a battersi per i valori della solidarietà e del rispetto dei diritti umani. A partire dal rispetto da parte degli Stati degli oblighi di soccorso in alto mare stabiliti dal diritto internazionale, e del diritto di asilo che non può essere cancellato, impedendo l’arrivo delle persone in frontiera, terrestre o marina che sia, ricorrendo a respingimenti collettivi diretti o delegati ad autorità di stati terzi. Sembra ormai chiaro peralro che, per la assegnazione di un porto di sbarco sicuro, non ci si può affidare alle autorità maltesi, capaci persino di respingimenti diretti verso la Libia,
4. Non è più il tempo di appelli o di accorate richieste di una svolta politica per un maggior rispetto dei diritti umani. Il governo italiano, che incontra le ONG, si appresta a fare votare in Parlamento il rifinanziamento degli accordi di cooperazione con le autorità libiche, inclusa la sedicente Guardia costiera, ancora priva di una unica centrale di coordinamento (MRCC). E nessuno sembra volere porre fine alla finzione di una zona SAR “libica”, dove le motovedette tripoline lasciano morire le persone in mare, e dove Frontex con i suoi aerei presta la massima cooperazione per bloccare i migranti in acque internazionali, e dunque agvolare i respingimenti collettivi delegati ai libici. Questa esternalizzazione sta funzionando e solo quest’anno quasi 8.000 persone sono state riportate verso i lager ufficiali ed “informali” della Tripolitania. Qualcuno pensa forse ad un nuovo codice di condotta per le ONG da inserire nel quadro degli accordi tra Italia e Libia che si stanno negoziando in queste settimane tra Roma e Tripoli?
Le denunce, e le testimonianze di quanti sono comunque arrivati, e riusciranno anche in futuro ad arrivare dalla Libia, anche attraverso la Tunisia, seppure con sbarchi autonomi, dovranno essere la base per una indagine internazionale indipendente e per una serie di ricorsi da inoltrare, come si è già fatto per i respingimenti in Egeo, alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, al Comitato contro la tortura del Consiglio d’Europa, all’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite. Perchè quelle responsabilità che i giudici nazionali sembrano incapaci a sanzionare, vengano definitivamente accertate con gli strumenti della giustizia internazionale.