Categorie normative ed esternalizzazione delle frontiere

di Fulvio Vassallo Paleologo

1. Introduzione

Si ritiene generalmente che l’allontanamento e l’anticipazione dei controlli di frontiera nei paesi di transito, come il confinamento o la detenzione dei migranti ritenuti “illegali”, possano ridurre gli arrivi irregolari nel territorio dello Stato, costituire un freno alla presentazione delle domande di protezione internazionale, che non si potrebbero altrimenti respingere se le persone arrivassero ad una frontiera terrestre, aerea o marittima di uno Stato che ha aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951.

L’aumento degli arrivi di richiedenti asilo ha comportato, più che le alterne fasi dell’economia, una limitazione della mobilità attraverso canali legali dei cd. “migranti economici”, prima in grado di fare ingresso con i visti per lavoro concessi in base ai cd. “decreti flussi annuali”, anche per lavoro stagionale, ed oggi, privati di questa possibilità, praticamente equiparati alla condizione di “clandestini” da rimpatriare o da detenere nei centri di permanenza per il rimpatrio (CPR). Senza nessuna possibilità di emersione lavorativa o di altre forme di regolarizzazione successiva.

Mentre i governi hanno praticamente chiuso tutte le possibilità di ingresso legale per lavoro, e si riducono persino i canali umanitari, da ultimo adducendo anche ragioni di carattere sanitario, si è adottata ovunque una politica di forte contrasto nei confronti di coloro che fuggono da conflitti o da stati caratterizzati da diffuse violazioni dei diritti umani, in modo da porre un limite quantitativo alle persone in grado di ottenere uno status di soggiorno legale ( di recente anche con l’adozione di una “lista di paesi terzi sicuri”). La categoria normativa di richiedente asilo, rilevante sul piano internazionale, ma con riflessi anche sul piano nazionale, è stata così svuotata della valenza che le attribuivano le Convenzioni internazionali e le Costituzioni nazionali. Per completare questa negazione del diritto alla protezione, in Italia, si è abrogata la protezione umanitaria, già prevista dall’art. 5.6 del Testo Unico n.286/98 sull’immigrazione e ormai riconosciuta nella giurisprudenza della Cassazione come un istituto attuativo dell’art. 10 della Costituzione italiana.

L’Unione Europea e i singoli Stati appartenenti all’Unione hanno adottato la politica di esternalizzazione delle frontiere come strumento ordinario di “gestione dei flussi migratori”. Prima l’Unione Europea ha inserito l’esternalizzazione dei controlli di frontiera all’interno delle politiche di “vicinato”, in un secondo tempo, a partire dal 2011 ha puntato su accordi diretti con singoli paesi terzi, come nel caso della Turchia, lasciando ai singoli stati membri il compito di concludere accordi bilaterali o semplici Memorandum d’intesa, come quelli conclusi tra Italia e governo di Tripoli.

Gli accordi che sono frutto dei processi di esternalizzazione delle frontiere non possono legittimare misure di respingimento indiscriminato o di chiusura dei porti, Secondo il principio di non refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra (art.33)  “no rejection at frontiers without access to fair and effective procedures for determining status and protection needs. E’ dunque possibile individuare un “contenuto minimo” di natura procedurale del diritto d’asilo, che “prima ancora di imporre in capo agli Stati precisi obblighi materiali di tipo positivo in ordine alla concessione del beneficio, non consente loro comportamenti che possano costituire una limitazione della libertà di accesso alle procedure, a meno di non svuotare di significato la partecipazione alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati”.

Come ha ribadito l’UNHCR nel suo Paper sulle intercettazioni in mare ciò dovrebbe comportare in linea generale che la persona intercettata in prossimità della zona contigua alle acque territoriali abbia accesso alle procedure nello Stato che ha effettuato l’intercettazione, poiché questo di solito consente sia l’accesso alle strutture di accoglienza, sia eque ed efficienti procedure d’asilo, nel rispetto degli standards garantiti dal diritto internazionale.

2. Sicurezza nazionale e difesa delle frontiere, categorie politiche contro diritti fondamentali ?

A partire dall’11 settembre 2001 abbiamo assistito all’uso strumentale delle categorie di sicurezza interna ed internazionale, di ordine pubblico e sicurezza nazionale (nei confronti dei migranti considerati come il nemico interno) con una confusione sempre più evidente tra le tante guerre in corso nelle aree più povere del mondo, le minacce del terrorismo internazionale ed i sistemi di difesa dei confini e di esternalizzazione delle frontiere. Dal Consiglio di Tampere del 1999 alle decisioni a livello europeo e nazionale adottate negli anni successivi si è verificato un progressivo abbattimento dei livelli di garanzia dei diritti umani, e del diritto di asilo, previsti dalle Costituzioni e dalle Convenzioni internazionali seguite al secondo conflitto mondiale.

I processi di globalizzazione hanno prodotto un impoverimento diffuso, la frantumazione delle classi sociali e l’aumento dei divari nella distribuzione della ricchezza, su scala nazionale ed internazionale. E’ cresciuta in molti paesi europei l’esigenza di una nuova forza lavoro d’importazione, a condizioni di bassa retribuzione per mantenere la concorrenzialità sul mercato. Per un primo periodo si scambiava una possibilità di regolarizzazione, anche successiva all’ingresso (in Italia con le grandi sanatorie dal 1998 al 2008) con la concessione di uno status di cittadinanza inferiore, caratterizzato da una elevata discrezionalità nel rilascio e nel rinnovo dei permessi di soggiorno. A partire dal 2011 queste limitate possibilità di regolarizzazione successiva sono state precluse, ed oggi sono completamente bloccate anche per effetto del blocco sostanziale dei cd. decreti annuali sui flussi di ingresso. La categoria del “clandestino” si è diffusa nell’opinione pubblica anche se priva di alcun riscontro normativo, ed ha assorbito sia quella di migrante irregolare che quella di richiedente asilo.

Le politiche di contrasto delle cd. migrazioni irregolari, e di subordinazione dei lavoratori di origine straniera comunque presenti sul territorio, hanno eroso lentamente il riconoscimento effettivo dei diritti fondamentali della persona migrante. Con una preoccupante continuità tra governi di segno diverso, come si è verificato ad esempio nelle pratiche di trattenimento amministrativo degli immigrati irregolari e nei rapporti tra l’Italia e la Libia. Le finalità politiche perseguite hanno travolto il rispetto delle norme di diritto internazionale e lo stesso principio di gerarchia delle fonti richiamato dagli articoli 10 e 117 della Costituzione italiana.

Quando anche si ritenesse che tra la Libia di Gheddafi e l’attuale governo di Tripoli vi sia una qualche “continuità politica”, l’ Accordo per la collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico illegale di sostanze stupefacenti o psicotrope ed all’immigrazione clandestina firmato a Roma il 13 dicembre 2011, e già prima anticipato dai  Protocolli operativi governo Prodi) nel dicembre del 2007,  il Trattato di amicizia del 2008, e poi il Memorandum d’intesa tra Italia e governo di Tripoli del 2 febbraio 2017, che ne riprende in sostanza la portata, sono decaduti, in quanto privi di efficacia, ai sensi dell’art. 61 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, in forza della clausola “rebus sic stantibus”. Infatti le previsioni di portata operativa, come l’attribuzione di competenze di ricerca e salvataggio, in realtà di intercettazione in acque internazionali, alla cd. Guardia costiera “libica”, sono inattuabili, per sopravvenuta impossibilità di esecuzione, come purtroppo è confermato dal numero crescente di imbarcazioni che continuano a fare naufragio senza che nessuno intervenga. Anche la Giurisprudenza giunge dimostrazione della inapplicabilità degli accordi tra l’Italia ed il governo di Tripoli sulla base del riconoscimento del sistema gerarchico delle fonti, ed in base al principio di legalità esclude che il Memoradum d’intesa stipulato il 2 febbraio 2017 tra il governo italiano e quello libico possa costituire una base legale per le attività di respingimento collettivo in mare delegate dalle autorità italiane alla sedicente guardia costiera “libica”. il Giudice delle indagini preliminari di Trapani, nella sentenza sul caso della legittima difesa riconosciuta ai naufraghi raccolti dal rimorchiatore Vos Thalassa nel luglio 2018 e poi trasbordati sulla nave Diciotti, della Guardia costiera italiana: “il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-refoulement aveva già acquisito rango di jus cogens, è privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’art. 10 co. 1 Cost., secondo cui ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement’. Secondo il giudice di Trapani, il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia stipulato il 2 febbraio 2017, mai approvato dal Parlamento secondo la procedura fissata dall’art. 80 della Costituzione, costituisce “un’intesa giuridicamente non vincolante e non avente natura legislativa”.

3. Dalla esternalizzazione dei controlli di frontiera alla guerra contro le ONG

Nei primi nove mesi del 2019, si ritiene che circa 1.041 persone siano morte o scomparse nel Mar Mediterraneo mentre fuggivano verso Europa – un calo del 43% rispetto allo stesso periodo del 2018 ma un aumento esponenziale di vittime se si considera la contrazione molto più forte delle partenze, a causa del conflitto civile che sta devastando la libia. La rotta dalla Libia all’Europa rimane la più letale con il 63% dei morti ed un numero imprecisato di dispersi. Si ritiene che altre 315 persone siano morte in mare tra il Nord Africa e la Spagna e 66 persone sono morte durante la traversata tra la Turchia, la Grecia o Cipro. Sono sempre più numerose le persone che vengono inseguite in alto mare dalle unità navali libiche coordinate da assetti militari europei ed italiani, fino al punto di essere poi intercettate dagli stessi libici, anche in acque internazionali rientranti nella competenza SAR (search and rescue) delle autorità maltesi.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, al 30 settembre 2019, erano circa 80.800 i migranti arrivati ​ attraverso le tre rotte del Mediterraneo (Occidentale, Centrale ed Orientale) verso l’Europa, con un calo del 21% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (102.700). Nei primi nove mesi di quest’anno sono arrivate in Grecia circa 46.100 persone, 23.200 in Spagna e appena 7.600 in Italia. Inoltre, circa 1.200 persone sono arrivate via mare a Cipro, insieme circa 2.700 persone sono sbarcate a Malta.

Alla fine del mese di settembre del 2019 erano circa 30.700 i rifugiati e i migranti presenti sulle isole dell’Egeo greco di cui circa 25.900 erano accolti in condizioni di estrema precarietà in cinque centri di accoglienza e identificazione (RIC), quasi cinque volte più della loro capacità massima di 5.400 persone. Il recente incendio del centro di accoglienza di Mooria a Lesvos ha ulteriormente aggravato questa situazione, peggiorando sia le condizioni di accoglienza che le prospettive di registrazione dei richiedenti asilo e di trasferimento verso altri paesi europei.

L’attacco alle ONG che operavano soccorsi umanitari, prima nell’Egeo e poi nel Mediterraneo centrale, è stato un tassello centrale della politica di esternalizzazione dei controlli e di militarizzazione delle frontiere marittime. Le politiche di chiusura delle rotte migratorie via mare, e quelle meno enfatizzate di blocco delle frontiere terrestri, hanno prodotto, e continuano a produrre, migliaia di vittime e sofferenze indicibili, che si tende a nascondere, nel tetativo di rassicurare i cittadini votanti indotti a ritenere che “i flussi migratori” siano sotto controllo, se non drasticamente bloccati. Per questo sono state lanciate, avvalendosi degli strumenti di comunicazione più mderni, vere e proprie campagne di aggressione politica, giudiziaria, e mediatica nei confronti delle Organizzazioni non governative e degli operatori umanitari. Che comunque costituivano testimoni pericolosi perchè in grado di smentire la narrazione dominante e di restituire visibilità alle vittime delle politiche di esternalizzazione delle frontiere e di chiusura dei porti.

In Italia, con il decreto “sicurezza” bis n.53 del 2019, poi inasprito nel corso dell’iter parlamentare di conversione in legge, si sono formalizzate le prassi di abbandono in mare contro le ONG ed i naufraghi che queste soccorrevano in acque internazionali, con le conseguenze che vediamo ancora oggi. Nelle acque tra la Libia e la Sicilia le navi militari degli stati non operano più interventi di soccorso. Il Mediterraneo centrale è stato trasformato in un deserto liquido. Adesso la nuova emergenza sanitaria sta consentendo un abuso dell’istituto della quarantena, che rallenta i soccorsi e colpisce anche gli equipaggi delle navi umanitarie.

Non si può consentire, più in generale, che una scelta politica e le conseguenti prassi, che eludono gli obblighi di soccorso stabiliti dalle Convenzioni internazionali, recepiti nel diritto interno per effetto del richiamo costituzionale ( artt. 10 e 117 Cost.), sia giustificata con finalità politiche, magari per la difesa delle frontiere o della “sicurezza nazionale”, che appaiono con tutta evidenza come scelte meramente propagandistiche. Non si possono delegare ancora alle motovedette libiche attività che, sotto coordinamento italiano ed europeo, come accertato in diverse occasioni, a Catania, a Ragusa ed a Agrigento dalla magistratura italiana, assumono le caratteristiche di respingimenti collettivi vietati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Ai trafficanti in Libia, o in altri paesi di origine, sono stati concessi ampi spazi, sia in mare che in terra, al punto che i più noti trafficanti di esseri umani continuano a muoversi impunemente da un paese all’altro. Il caso del noto trafficante Bija arrivato in Italia in missione ufficiale, addirittura a Roma al ministero dell’interno e presso la sede della Guardia costiera italiana, è solo la punta dell’iceberg, l’aspetto più evidente dei processi della degenerazione della esternalizzazione dei controlli di frontiera. Non si tratta neppure di una scoperta recente. Gia’ nel 2017 la sedicente guardia costiera “libica” dava copertura alle milizie di Zawia guidate da Bija che intercettavano i migranti che tentavano di fuggire verso l’Europa. Fatti che già allora in Europa non si potevano certo nscondere.

La definizione di Guardia costiera “libica” appare ancora oggi destituita di fondamento perché in realtà ciascuna citta’ (Zuwara,  Tripoli, Zawia,  Sabratha,  Gharian,  Khoms, è controllata da milizie diverse che a loro volta dispongono di unità navali che vengono denominate “Guardia costiera libica”, pur senza corrispondere ad un Comando centrale unificato. Sono quelle unità che si dirigono verso le acque internazionali e che, a seconda dei rapporti con le milizie che gestiscono il traffico, lasciano passare, oppure bloccano le imbarcazioni cariche di migranti che sono riuscite a raggiungere le acque internazionali, in diversi casi, ormai documentati anche in sede giudiziaria, sotto il “sostanziale” coordinamento della Marina militare italiana. La zona SAR libica, benchè riconosciuta dall’IMO ( Organizzazione internazionale del mare) non può assurgere al rango di categoria normativa in violazione delle Convenzioni internazionali, perchè la Libia non ha aderito alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati e non controlla ( se ci riferiamo alle autorità di Tripoli) che una minima parte del territorio, ormai in preda ad un grave conflitto armato. Continuano ad esser ignorate le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa sugli obblighi di soccorso in mare spettanti agli stati.

Dopo la breve esperienza della missione Triton di Frontex nel 2015, a seguito della strage del 18 aprile di quell’anno, con oltre 800 morti, L’Unione europea è rimasta completamente assente, arrivando al ritiro delle unità navali delle operazioni Frontex ed Eunavfor Med (Sofia).

I vertici di Bruxelles hanno saputo soltanto insistere sulle politiche di esternalizzazione, mantenere gli accordi intergovernativi con la Turchia di Erdogan, negando persino che fossero frutto di una decisione collegiale degli organismi europei, e finanziare indirettamente la sedicente guardia costiera “libica”.  Soltanto in Egeo l’Unione Europea ha assegnato alla missione Frontex un ruolo attivo nelle operazioni di intercettazione in mare e respingimento dei  profughi provenienti dalle coste turche.

Su altre questioni, come gli ingressi per lavoro dei cd. migranti economici e la riforma del regolamento Dublino III, l’Unione Europea è rimasta paralizzata dai governi di destra che ormai dettano l’agenda di governo a Bruxelles, ma anche negli stati in cui si trovano all’opposizione, ed impongono lo sbarramento delle frontiere, la negazione sotanziale del diritto di asilo, e la discriminazione istituzionale delle persone di origine straniera che esercitano il loro diritto alla mobilità. Come si vedrà presto anche in Gran Bretagna dopo la Brexit, questa volta a danno proprio di cittadini europei.

 L’esperienza della esternalizzazione delle frontiere, già praticata con gli accordi tra Italia e Libia nel 2008, ed estesa nel 2014 con il Processo di Khartoum, promosso dal’Unione Europea, su proposta del governo italiano guidato da Matteo Renzi, ha costituito una risposta improntata allo stato di emergenza permanente proclamato sul territorio nazionale ogni qualvolta si registrava un aumento degli arrivi di richiedenti asilo. Come si era verificato a partire dal 2004, dopo la crisi in Darfur, e poi rispetto alla fase  delle Primavere arabe (2011), con la breve interruzione dell’Operazione italiana Mare Nostrum (2014), nella quale gli stati sembravano avere anteposto i diritti fondamentali della persona, a partire dal diritto alla vita, rispetto alla chiusura delle frontiere ed ai respingimenti collettivi. Respingimenti che comunque verso i paesi terzi non si sono mai interrotti del tutto, su delega delle autorità italiane ed europee, sulla base di Memorandum d’intesa o altri accordi bilaterali conclusi con regimi che non rispettavano i principi democratici dello stato di diritto, più spesso con veri e propri regimi dittatoriali ( come nei casi dell’Egitto, nel 2011 e del Sudan, nel 2016).

Gli accordi bilaterali con paesi che non rispettano i diritti umani, come l’Egitto, lo stesso Sudan e tanti altri bene individuati da anni nei rapporti di Amnesty International hanno creato una pericolosa assuefazione nell’opinione pubblica occidentale, che non si indigna più di fronte alle ricorrenti violazioni dei diritti umani che caratterizzano anche l’attuazione di queste intese. Non si vuole considerare però che le politiche di esternalizzazione non hanno combattuto il diffondersi del terrorismo negli stati in cui operavano, anzi, hanno rafforzato i regimi militari ed autoritari, con un effetto moltiplicatore delle alleanze che gruppi criminali dediti al traffico di armi e di persone instauravano con i gruppi terroristici che dal medio oriente si trasferivano verso gli stati dell’Africa centrale. Come riferisce Andrea De Gorgio su L’Internazionale, l’Isis  sta occupando spazi sempre maggiori nei paesi della fascia del Sahel e più a nord, nel Sahara, dopo avere esteso la sua presenza in stati come Nigeria, Mali, Niger e Burkina Faso. Ma tutto questo all’opinione pubblica europea, eai decisori politici nostrani d ai detentori del potere di orientare i consensi elettorali, sembra interessare poco.

Malgrado le politiche europee ed italiane rivolte esclusivamente alla esternalizzazione delle frontiere in funzione di contrasto dell’immigrazione irregolare, che a partire dal 2017 si sono poi articolate nella guerra contro i soccorsi umanitari, in mare, nel Mediterraneo, e nei territori di frontiera, la mobilità umana è sfuggita a qualsiasi controllo, indotta da fattori economici ed ambientali sempre più pressanti. Nessuna crisi regionale è stata risolta, la situazione in Siria rimane catastrofica, dopo l’attacco al Rojava della Turchia di Erdogan, in Afghanistan ed in Irak si continua a morire, e nel Sahel domina la devastazione ambientale che sta producendo nuove categorie di migranti, i rifugiati ambientali .

Come si è verificato a partire dall’11 settembre 2001 le ricorrenti violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani, in nome di una pretesa sicurezza dei cittadini di fronte alle minacce del terrorismo e delle migrazioni di massa, si sono tradotte ovunque in una serie di conflitti regionali ed in un crescente divario tra paesi ricchi e paesi poveri. Ed hanno fatto la fortuna delle grandi multinazionali, dei produttori di armi e dell’industria dei servizi di sorveglianza. Soprattutto in Europa hanno favorito l’avanzata dei partiti populisti e nazionalisti che hanno utilizzato la paura della diversità e l’incertezza economica per conquistare un ampio consenso elettorale.

Chi voleva spacciare una falsa sicurezza giocando sulla paura inculcata nel “popolo sovrano” e sull’allarmismo, tuttavia potrebbe non avere vinto, come si vorrebbe fare credere evidenziando la riduzione numerica dei cd. sbarchi, evidente a partire dal Codice Minniti del luglio del 2017. Sbarchi, in verità soccorsi di persone in evidente condizioni di distress, dunque soccorsi obbligatori, che se sono diminuiti in Italia, per la situazione di grave conflitto civile in Libia, sono aumentati in maniera esponenziale in Spagna e soprattutto in Grecia come le tragiche immagini di Lesvos dimostrano in modo incontrovertibile. Su quelle isole, e sulle persone che venivano detenute, si è scaricato tutto il peso delle intese stipulate tra i governi europei e la Turchia di Erdogan. Non sono neppure mancati Tribunali che hanno sostenuto la inapplicabilità del diritto internazionale alle ONG che hanno soccorso naufraghi in acque internazionali. Decisioni che hanno avuto un riscontro anche nel voto del Senato sul caso Diciotti, ma che adesso vengono ribaltate da altre sentenze dei giudici che richiamano correttamente il sistema gerarchico delle fonti e la valenza dei principi costituzionali e delle Convenzioni internazionali, come nei casi Gregoretti ed Open Arms, per i quali si trova sotto accusa l’ex ministro dell’interno Matteo Salvini. Esiste ancora una giurisprudenza che resiste alle spinte del populismo ormai rappresentate anche a livello di governo, e rimane nel solco di una interpretazione delle norme costituzionalmente orientata. Ma non si può scaricare solo sui giudici la difesa dello stato di diritto e della democrazia. La qestione della legalità riguarda tutti. e richiede l’impegno attivo di tutti.

I governi dei “porti chiusi” e delle frontiere sbarrate hanno alimentato le mafie connesse a regimi corrotti, i conflitti civili ed etnici, e le guerre su procura nei paesi di origine e transito, chiudendo ogni canale legale di ingresso e contrastando  i soccorsi in mare perché le navi di soccorso sono state ritenute come un fattore di attrazione (pull factor). Ma gli sconfitti non sono certo i migranti, anche se hanno pagato e continuano a pagare un prezzo altissimo in termini di vite umane. Gli sconfitti siamo tutti noi europei, chiusi nella finzione dei nostri muri. Le popolazioni che hanno riversato il loro consenso elettorale sui partiti nazionalisti e populisti hanno perso ancora di più, perché le loro condizioni economiche sono ancora peggiorate. Mentre il numero crescente di immigrati irregolari, in gran parte entrati via terra o dagli aeroporti con visti di ingresso breve, previsti dal regolamento europeo Schengen, è stato di gran lunga superiore al numero di persone che negli anni dal 2014 al 2017 venivano soccorse in mare, con un impegno allora sinergico delle ONG e delle navi degli assetti italiani (Guardia costiera e Marina militare) ed europei ( Operazioni Frontex ed Eunavfor Med).

Molti profughi hanno continuato a spostarsi via terra dalla Grecia attraverso i Balcani. Al 30 settembre 2019, il Ministero della Sicurezza aveva riferito che circa 21.800 persone erano arrivate in Bosnia-Erzegovina, con migliaia di persone che si radunavano nel nord-ovest del paese vicino al confine con la Croazia. I rapporti internazionali tracciano un quadro allarmante che viene sistematicamente nascosto all’opinione pubblica europea. Nessun paese europeo sarà mai in grado di espellere tutte le persone che le politiche di esclusione lasciano senza un valido titolo di soggiorno.

4. La detenzione amministrativa e le operazioni di rimpatrio forzato, Dai CIE a CPR, cambiano le categorie normative, non si garantiscono i diritti fondamentali.

Per le persone migranti nessun luogo è lontano. Nessuna frontiera rimane davvero “chiusa”, anche se molte di queste persone rimangono imprigionate ed abusate nei paesi di transito, mentre i nazionalismi, e più di recente gli allarmi sanitari, continuano a condizionare la narrazione collettiva e le scelte politiche. Scelte che in Italia si spostano dal versante legislativo al versante esecutivo (con l’uso dei decreti legge) ed amministrativo, con una crescente autoreferenzialità dei decisori locali, dei ministri, piuttosto che del governo nella sua collegialità, rispetto alle assemblee parlamentari. Di fatto uno svuotamento quotidiano della democrazia con il Parlamento come luogo utilizzato per una campagna elettorale permanente.

Si pensava che la esternalizzazione delle frontiere avrebbe ridotto gli ingressi e contribuito a garantire maggiore “sicurezza” ai cittadini. Ma non si sono fatti i conti con le frontiere aperte in base agli accordi internazionali ed attraversate continuamente da persone straniere che comunque riescono ad ottenere un visto di ingresso, anche di breve durata, e che poi diventano overstayers, rimanendo nel territorio alla scadenza del visto.

Nei confronti di chi rimane in una condizione di soggiorno irregolare si applica una rigida apartheid, con casi frequenti di lavoro servile e sfruttamento para-schiavistico. Si scopre oggi che le politiche di sbarramento e le paure di invasione costruiscono muri dentro le nostre società, addirittura dentro le persone, condannate ad un crescente isolamento, malgrado le possibilità di connessione globale. Muri tra le comunità locali, tra le regioni, tra queste ed il governo nazionale. Dalla frontiera che separa due stati, dai confini tracciati sulle carte, si passa così alla moltiplicazione dei campi di confinamento, a ridosso della frontiera (Approccio Hotspot) ma anche a distanza ( centri di permanenza per i rimpatri), in tutti i luoghi in cui si limiti la libertà personale o la libertà di circolazione. Una libertà che si limita sempre più in nome dell’emergenza, anche in nome dell’emergenza sanitaria, con i provvedimenti di messa in quarantena dei pochi naufraghi ancora soccorsi dalle ONG e e con il blocco degli ultimi voli umanitari che ancora offrivano una via di ingresso legale ai rifugiati riconosciuti dall’ONU nei campi in Niger. Persone particolarmente vulnerabili, che hanno già subito ogni tipo di tortura in Libia e che adesso si vedono preclusa per un tempo indeterminato la salvezza promessa.

La restrizione dei casi di riconoscimento della protezione internazionale, con la chiusura delle possibilità di protezione umanitaria, la proliferazione di sanzioni penali, viste come unico strumento per contrastare l’immigrazione irregolare, ed il legame perverso tra il permesso di soggiorno ed il contratto di lavoro, imposto per la regolarizzazione dei cd. migranti economici, producono la moltiplicazione dei migranti costretti alla irregolarità, come anche dei richiedenti asilo e dei rifugiati, perennemente confinati in un limbo tra legalità e illegalità. Moltiplicazione della clandestinità che deriva anche dalla previsione sempre più ampia (anche se poco realizzabile) di spazi di confinamento, come i centri di detenzione, oggi definiti CPR ( Centri per il rimpatrio) anche per i richiedenti asilo, o di aree geografiche di esclusione (come si verifica in qualche isola, da Lesvos a Lampedusa). In vista di un possibile allontanamento forzato che appare destinato a rimanere uno squallido manifesto elettorale. L’efficacia delle procedure di allontanamento forzato, e ancora meno la sicurezza dei cittadini, non vengono certo garantite dalla moltiplicazione delle strutture detentive come i CPR o dall’inasprimento delle sanzioni penali, a fronte di carceri ormai affollate fino al collasso. Si è già visto come sia ben difficile che le regioni, anche quelle a guida leghista, accettino l’apertura di altri centri di detenzione per irregolari sul loro territorio.

La detenzione amministrativa dei migranti in attesa di un rimpatrio con accompagnamento forzato, che nella maggior parte dei casi non sarà mai realizzabile, viene sistematicamente nascosta all’opinione pubblica ed i centri, variamente denpominati ( Da CPT a CIE ed adesso a CPR, centri per i rimpatri) rimangono sbarrati all’accesso di osservatori indipendenti.

Negli ultimi tempi si è parlato di CPR ( Centri per i rimpatri) soltanto per sottolineare il “disagio” delle forze di polizia incaricate della sorveglianza, criminalizzare gli “ospiti” di queste strutture detentive, o per creare allarme ipotizzando una “regia esterna” delle numerose proteste che nei casi più gravi sono culminate con incendi e danneggiamenti. Mai un accenno alle condizioni disastrose delle strutture, all’abbattimento dei costi e quindi dei servizi di assistenza e consulenza garantiti dagli enti gestori, alla eterogeneità della popolazione detenuta, che per effetto del decreto sicurezza, poi convertito nella legge n.132 del 2018, annovera sempre più spesso richiedenti asilo denegati e soggetti vulnerabili rimasti privi di un permesso di soggiorno per la cancellazione della protezione umanitaria. Anche in questo caso si è cambiata denominazione ( da CIE a CPR) per strutture che avrebbero dovuto rispondere ad una politica di rimpatrio più energica sulla base di nuovi accordi con i paesi di origine, accordi che però non sono stati conclusi. Un ennesimo fallimento delle politiche di esternalizzazione delle frontiere.

Di fronte al ricorrere di gravi abusi all’interno dei centri di detenzione, già in passato denunciati con interventi Rapporti assai dettagliati, da mesi non è stata concessa alcuna possibilità di ingresso nei centri ai rappresentanti della società civile, come gli attivisti della Campagna LasciateCientrare, e sotto questo profilo l’avvicendamento al Viminale non ha cambiato nulla.

Questa “continuità” di governo della detenzione amministrativa è denunciata in un volume divulgativo edito dal settimanale Left dal titolo “Mai Più”.  Si continua a untare così su comunicazioni propagandistiche  che mettono in risalto un aumento irrisorio delle persone soggette al trattenimento amministrativo e quindi dei conseguenti rimpatri, che aumentavano soltanto di qualche centinaio di unità per anno. Che comunque rimangono solo una frazione molto modesta dei casi di espulsione o respingimento per cui i questori dispongono l’accompagnamento forzato in frontiera, in assenza di qualsiasi possibilità di regolarizzazione successiva all’ingresso o al soggiorno irregolare. Soprattutto per coloro che provengono dal circuito carcerario, magari senza neppure avere riportato una condanna definitiva, il meccanismo delle espulsioni con accompagnamento forzato porta inesorabilmente al trattenimento nel CPR in tutti i casi in cui al momento della scarcerazione non siano ancora pronti i documenti necessari per il rimpatrio. E spesso si tratta di persone presenti in Italia da molti anni. senza nessuna effettiva possibilità di accompagnamento forzato e di reinserimento nei paesi di origine.

La discrezionalità politico-amministrativa tende a sfuggire da qualsiasi controllo e in materia di libertà personale sembra prevalere sulla riserva di legge e sulla riserva di giurisdizione (art. 13 della Costituzione), come si verifica negli Hotspot e nei centri di permanenza per i rimpatri (CPR) al punto di costituire un grave attentato ai principi democratici, in particolare al principio di legalità costituzionale. Principio che sarebbe altresì inficiato se, in contrasto con l’art. 117 della Costituzione,  si ammettesse una illimitata derogabilità delle Convenzioni internazionali e delle Carte dei diritti fondamentali sottoscritte negli anni dall’Italia a garanzia dei diritti fondamentali della persona umana. Diritti inderogabili come il diritto di asilo (arrt.10) già sanciti dalla Costituzione italiana.

Il legame che si vorrebbe imporre tra immigrazione e (in)sicurezza con l’utilizzo di categorie che permettono di falsificare i dati reali o di giustificare politiche di morte, come quella praticata con la esternalizzazione delle frontiere, costituiscono un fattore di disumanizzazione quando le esigenze di protezione dei confini e della pretesa sicurezza dei cittadini autoctoni prevalgono sul riconoscimento dei diritti fondamentali dei migranti come persona. Diritti che in Italia la Costituzione e l’art.2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998 attribuiscono a tutti gli stranieri “comunque” presenti alla frontiera o nel territorio nazionale, a cui vanno garantiti ” i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti.” Come ha insegnato la Corte Costituzionale con la sentenza n.105 del 2001, “per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”.

5.  Oltre le categorie normative che producono esclusione e conflitto, le proposte di azione.

L’attuale modello di sviluppo, i processi di delocalizzazione, la crisi dello stato sociale, i particolarismi regionali, condannano intere generazioni europee, in particolare in Italia, ad un futuro di emigrazione (anche interna) e di precarietà. Occorre invertire questo degrado e contrastare l’aggressione contro i più deboli, contro le povertà e le differenze, ma con la pratica di un nuovo modello di convivenza sociale basato sulla solidarietà, sulla valorizzazione dei beni comuni, sull’ambiente, sull’accoglienza considerata come una risorsa e non un problema da risolvere con misure da ordine pubblico.

Al di là della resistenza sui territori contro una caduta senza precedenti della percezione collettiva dei valori democratici su cui si basa lo Stato, occorre formulare proposte che aggreghino consenso sociale, incidano sui processi legislativi, limitino la discrezionalità amministrativa e salvaguardino l’autonomia della magistratura.

L’esternalizzazione dei controlli di frontiera è fallita e si è dimostrata non idonea a garantire la cd. “sicurezza nazionale” limitando gli arrivi. La moltiplicazione dei muri, adesso per una emergenza sanitaria che sta riportando in auge provvedimenti da “stato di eccezione” con gravi limitazioni della libertà di circolazione, si tradurrà assai presto in un disastro non solo civile, ma anche economico, perché nessun sistema economico oggi, tanto a livello regionale quanto a livello nazionale ed europeo, può sopravvivere in una situazione di frontiere e porti chiusi. Come si è visto le misure più drastiche adottate in materia di mobilità hanno prodotto soltanto un aumento della clandestinità e dello sfruttamento, peggiorando anche le condizioni lavorative degli autoctoni, ma non hanno ridotto il numero degli immigrati irregolari presenti nel nostro territorio nè la diffusione della criminalità organizzata.

Scopriremo presto che, malgrado le condizioni sempre peggiori offerte ai lavoratori, stranieri ed italiani, nessun gruppo economico e nessun paese possono reggere la concorrenza internazionale se non si rispetta la libertà di circolazione con un regolare afflusso degli immigrati nel territorio e quindi nel mercato legale del lavoro. La libertà di circolazione non potrà essere limitata ai soli cittadini residenti, perché se si chiude agli immigrati, prima o poi queste “chiusure” si ritorcono verso i cittadini dei paesi che chiudono porti e frontiere. Purtroppo dai governi non sembra che arrivino segnali di discontinuità, come emerge dalle più recenti decisioni dell’Unione Europea in materia di soccorso in mare e del governo italiano in materia di collaborazione con i paesi terzi allo scopo di bloccare il maggior numero possibile di persone che tentano di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo o sulle rotte balcaniche. Le politiche di esternalizzazione continuano a mietere vittime. alcune le vediamo, la maggior parte rimangono nascoste.

  • Va sospesa – nell’immediato anche unilateralmente da parte dell’Italia- la cd. zona SAR libica. Su questo punto occorre una decisione chiara del Comitato esecutivo dell’IMO ( Organizzazione marittima internazionale).  Va ripristinata della presenza di navi militari italiane ed europee nel Mediterraneo centrale, a nord delle acque territoriali libiche, con prevalente destinazione al soccorso dei naufraghi, senza tentare operazioni di blocco navale che produrrebbero un aumento esponenziale delle vittime. Nell’immediato, anche prima di un pronunciamento dell’IMO, le autorità marittime italiane ed europee devono rispondere sollecitamente alle chiamate di soccorso inviando propri mezzi nelle acque internazionali a nord delle coste libiche e garantendo lo sbarco in un porto sicuro in Europa, nel più breve tempo possibile, come prescritto dalle Convenzioni internazionali. Dovrà essere ripristinato il protocollo d’intesa con le ONG che vigeva fino al 2017, prima della adozione del cd. Codice di condotta Minniti.
  • Il governo italiano deve ritirare la missione militare Nauras ancora presente con una nave nel porto militare di Tripoli ( Abu Sittah) ed interrompere qualunque attività di manutenzione e coordinamento delle motovedette libiche attualmente impegnate nelle attività di intercettazione dei migranti in acque internazionali. Attività che possono comportare una grave responsabilità per i respingimenti collettivi delegati alle motovedette libiche, attualmente sotto esame da parte del tribunale Penale Internazionale.
  • Occorre una nuova legge che abroghi il decreto sicurezza 113/2018 (non solo per le previsioni che abbattono il diritto alla protezione e ridimensionano il sistema di accoglienza) con la reintroduzione della protezione umanitaria come istituto che costituisce attuazione del diritto alla protezione nella formulazione più ampia prevista dall’articolo 10 della Costituzione. Tutti coloro che hanno avuto un diniego in base alla applicazione retroattiva del decreto sicurezza  113/2018, imposta dal Ministero dell’interno alle Commissioni territoriali, devono potere ripresentare una nuova richiesta di asilo, se non una richiesta di riesame per il ritiro del diniego in autotutela, senza attendere l’esito del ricorso giurisdizionale.
  • Occorre ridurre al minimo, in conformità con la direttiva 2008/115/CE i casi di trattenimento amministrativo. Si deve verificare ancora la conformità delle prassi attualmente applicate nei Centri per i rimpatri (CPR) rispetto alle garanzie costituzionali (in particolare gli articoli 13, 24 e 32 Cost.) accordate a qualunque straniero presente in Italia, anche se si trova in condizione irregolare, come prescrive l’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/1998. Occorre ricostruire una rete sul territorio che possa verificare l’attuazione effettiva dei diritti di difesa ed il rispetto delle garanzie procedurali accordate agli “ospiti” dei CPR,
  • Vanno incrementati i canali umanitari con il supporto di tutte le organizzazioni della società civile e degli enti locali che si possono assumere, in concorso con lo stato, la responsabilità e gli oneri dell’accoglienza e dei percorsi di inclusione ( anche con la sponsorizzazione). Una normativa specifica, che potrebbe essere preceduta da disposizioni di carattere amministrativo rivolte alle Commissioni territoriali, dovrà riguardare coloro che hanno subito violenza, le donne con figli minori le vittime di tortura, che vanno aiutati con percorsi di sostegno e una stabile legalizzazione. Coloro che sono arrivati dalla Libia, per le violenze subite in quel paese, ormai in una situazione di guerra civile permanente tra milizie, devono avere riconosciuta almeno la protezione umanitaria, ovvero come oggi si può denominare, “per casi speciali”,se non un grado più elevato di protezione, ove ne ricorrano i presupposti, indipendentemente dalla situazione nel paese di origine. Come era possibile prima dell’abrogazione della protezione umanitaria. E come sarebbe imposto ancora oggi anche da una interpretazione conforme al testo costituzionale dell’art. 19 del Testo unico sull’immigrazione n. 286/1998. Infatti, in caso di rimpatrio nel paese di origine, dopo le violenze che queste persone hanno subito in Libia, non potrebbero avere alcuna forma di risarcimento e di tutela effettiva dei propri diritti fondamentali.
  • Vanno abrogati gli articoli 1 e 2 del cd. decreto sicurezza bis, n.53 del 2019, che penalizza i soccorsi in mare operati dalle ONG. Gli stati devono garantire un efficace sistema di soccorso coordinandosi con gli stati competenti per gli interventi di salvataggio nelle zone SAR limitrofe, con l’eccezione di quei paesi come la Libia, che non garantiscono i diritti fondamentali della persona, o non applichino effettivamente neppure la Convenzione di Ginevra. Vanno sospesi tutti gli accordi stipulati nel tempo con i diversi governi libici ed interrotta immediatamente la collaborazione con la sedicente guardia costiera “libica” nelle attività di intercettazione dei migranti in mare.
  • Occorre aprire nuovi canali legali di ingresso per lavoro per i cd. migranti economici, con l’adozione di nuovi “decreti flussi”, e con la regolarizzazione permanente a regime di quanti sono rimasti senza un permesso di soggiorno per la perdita del contratto di lavoro. E’ urgente adottare un provvedimento di regolarizzazione permanente, a regime, per coloro che vengono definiti come “migranti economici”, sulla base di un contratto di lavoro o di uno stabile rapporto con il territorio e in tutti i casi in cui sia evidente che non ci sono concrete possibilità di rimpatrio.  La regolarizzazione deve rivolgersi, anche in assenza di un contratto di lavoro,  a tutti coloro che  dopo avere presentato richiesta di protezione internazionale hanno atteso anni per la definizione della loro procedura con un esito negativo. Una proposta di emersione dell’irregolarità, a partire dai rapporti di lavoro, ma è stata recentemente bocciata dal Parlamento, con una posizione negativa del governo in carica. 

Bisogna mirare alla vasta base di consenso che ancora oggi appoggia le destre populiste e nazionaliste in materia di immigrazione ed asilo. Le contraddizioni ed i fallimenti dei fautori dei “porti chiusi” e della “sicurezza a tutti i costi”, anche a costo di uccidere innocenti o di rinunciare alla democrazia, sono sotto gli occhi di tutti. Se chi percepisce di vivere all’interno di muri, dopo anni che si è pensato di poterli innalzare per “difendere” la “nostra” libertà e il “nostro” benessere, riuscirà a scavalcare il muro che lo circonda, anche il muro che si porta dentro, ritornando all’ascolto delle persone che ha vicino, alla pratica attiva della solidarietà, se questa infine riuscirà a dimostrarsi economicamente utile ed a resistere alla logica dei mercati, e della guerra, allora ci sarà ancora da condividere una speranza di futuro.