Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lofti e Nasim, sei nomi che oggi forse non dicono nulla. Erano i nomi di 6 ragazzi tunisini rinchiusi nel dicembre 1999 nell’allora Centro di Permanenza Temporanea ed Assistenza, (CPTA), “Serraino Vulpitta” a Trapani, un mini carcere ricavato da un’ala di un vecchio ospizio. Stavano per essere rimpatriati, tentarono la fuga il 28 dicembre, vennero presi e rinchiusi insieme ad altri due connazionali. Uno di loro diede fuoco ad un materasso, non si rassegnavano alla sconfitta. Il risultato fu una morte orribile, resa possibile dal fatto che non si trovavano le chiavi per aprire la cella in cui erano rinchiusi, nessuno si volle assumere la responsabilità di farli uscire, gli estintori erano vuoti o non funzionanti. Nessuno ha pagato per le loro morti anche se i due superstiti hanno ottenuto un indennizzo che non potrà certo cancellare l’orrore. Non ricordiamo questo solo perché sono passati 20 anni da un plurimo omicidio, tante altre morti fra “malori”, suicidi, tentativi di evadere ci sono stati negli anni successivi nei diversi centri di detenzione in Italia che cambiavano denominazione e acronimo ma producendo gli stessi osceni disastri. E a dire il vero la prima vittima delle galere create da un governo di centro sinistra, c’era già stata a Roma, nel CPTA di Ponte Galeria. Era la notte di Natale del 1999, si chiamava Mohammed Ben Said, venne ritrovato all’alba con la mascella rotta ed ecchimosi in tutto il corpo. Un’altra morte impunita, pochi giorni prima della strage di Trapani. Venti anni dopo cosa è cambiato? I centri hanno cambiato, si diceva, più volte denominazione, prima CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) con il ministro Maroni, nel 2009 e ora CPR, Centri Permanenti per il Rimpatrio, con il ministro Minniti. In 20 anni si è tentato in ogni modo di chiudere queste strutture, utilizzando dapprima una parte del mondo politico che conservava una idea di diritto, contemporaneamente grazie alle piazze che hanno visto grandi mobilitazioni per chiedere o la chiusura di un centro appena aperto o per impedirne l’apertura. E insieme si mossero giuristi, avvocati, giornalisti, uomini e donne che, cercando di creare un fronte ampio di consapevolezza, aspiravano a far comprendere i danni ed i costi umani, economici, culturali e politici che il rinchiudere e deportare persone per il solo fatto di esistere, avrebbero portato. Sono migliaia in tanti anni gli uomini, le donne e a volte anche i minorenni, che sono stati “ospiti” (questo è il termine con cui vengono chiamati), fra queste gabbie di ferro e cemento sparse per l’Italia, spesso ex caserme, a volte strutture create ex novo, da Torino a Caltanissetta, da Gradisca D’Isonzo a Lamezia, a Palazzo S.Gervasio, Bari, Brindisi,Lecce, Crotone, Milano, Modena, Bologna ed ltri ancora. Nel periodo del loro massimo “successo” furono 14 i centri sparsi per la penisola. Dal 2007 numerose ragioni portarono lentamente a chiudere alcuni centri. In primis le rivolte che scoppiarono soprattutto quando aumentarono i tempi di trattenimento, rivolte che portarono spesso a rendere inagibili interi settori, denunce per malagestione, suicidi, difficoltà rendere effettivi i rimpatri. Per un breve periodo addirittura si auspicò il superamento dell’istituto della detenzione amministrativa e il numero dei centri operativi, lentamente, si ridusse. Nel 2011, all’inasprirsi delle tensioni nei centri rimasti operativi il Viminale reagì con una circolare che inibiva totalmente l’ingresso a operatori dell’informazione e ad associazioni di sostegno non riconosciute, la maggior parte. Nacque una campagna “LasciateCIEntrare” per provare a rompere la cappa di silenzio che era ormai caduta sui centri, a cui rimanevano ad opporsi pochi attivisti, qualche legale, aree molto limitate di movimento. Intervenne anche l’FNSI, l’Ordine dei Giornalisti e, con la crisi del governo Berlusconi/Maroni si giunse ad una sospensione della circolare. Di fatto l’accesso ai centri resta ancora oggi limitato ed a totale discrezione delle prefetture e quindi del competente Ministero dell’Interno. Ma il vero peggioramento è iniziato nel 2015 ed è in fase di realizzazione. Prima, attraverso il Migration Compact, concordato con l’Unione Europea, vennero realizzate ulteriori strutture di identificazione, gli hotspot, destinate a separare i richiedenti asilo sbarcati che potevano aver diritto ad alcune forme di protezione o allo status di rifugiato da quelli da rimpatriare. In assenza di una loro definizione giuridica non sono mai state ufficialmente spazi di privazione delle libertà personali ma, la loro collocazione, la lentezza delle prime procedure di fotosegnalazione e identificazione, a volte il sovraffollamento hanno soventemente bloccato gli “ospiti” per tempi mai regolamentati, anche nell’ordine di settimane. E non è bastata una condana dell’Italia, da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, sul caso Klhaifia, per impedire queste prassi che violano le garanzie costituzionali ed internazionali in materia di libertà personale. L’aumento temporaneo degli arrivi del 2016, il Memorandum con la Libia del febbraio 2017, l’assenza di politiche di regolarizzazione di chi perdendo il lavoro, perdeva anche il diritto a restare in Italia, ha fatto rilanciare l’idea che nuovi centri di detenzione fossero “necessari”. Il “piano Minniti”, reiterazione di quanto già affermato da precedenti inquilini del Viminale di identica o diversa appartenenza politica, prevedeva l’apertura di (Centri Permanenti per il Rimpatrio) CPR in ogni regione. Si è iniziato ripristinando la sezione maschile di Ponte Galeria (Roma), poi riaprendo Palazzo San Gervasio (Potenza). Da tempo era decisa l’apertura di almeno 4 o 5 Cpr ed erano già stati individuati i siti. Il primo ad aprire è stato quello di Gradisca D’Isonzo, in provincia di Gorizia, nell’ex caserma Polonio. Il centro, trasformato in CARA (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) dopo che peer 6 anni era già stato un centro di detenzione, ha riaperto i battenti, per ora a ranghi ridotti, il 16 dicembre scorso. Nella stessa area resta ancora uno spazio come CARA e un altro che è divenuto CPR, nei giorni scorsi una trentina di uomini, trattenuti nel CPR di Bari sono stati trasferiti a Gradisca, facendo già rialzare la tensione. Fra gli enti gestori che garantiscono i servizi nel centro, (le vecchie gestioni nel periodo di attività precedente furono coinvolti in inchieste che hanno visto al centro anche personale della prefettura) una delle cooperative già invischiata nel CAS di Cona, provincia di Venezia, dove ha perso la vita una ragazza. L’apertura del Centro di Gradisca era annunciata da tempo, doveva servire anche a fomentare la campagna elettorale delle elezioni europee, ma per numerose ragioni anche di carattere burocratico, per mesi si attese da un momento all’altro, e quel giorno è arrivato. Si pensava di procedere prima alla riapertura del CPR di Via Corelli a Milano, uno dei primi a entrare in funzione alla fine degli anni Novanta. A Milano si era però già creata una rete composita e plurale contro il centro, manifestazioni, azioni di sensibilizzazione, nel frattempo il centro non ha ancora aperto i battenti anche se il momento pare vicino. Doveva essere già entrato in funzione anche il CPR pensato per la Sardegna nel nuorese, nell’ex carcere mandamentale di Macomer. Il paese era famoso negli anni passati perché luogo di destinazione “punitiva” per i militari di leva. La macchina si è fermata però a causa di un esposto presentato alla Corte dei Conti che intende fare alcuni rilievi. Per gli altri si fanno diverse ipotesile procedure di realizzazione di un CPR sembrano secretate, fra le più accreditate Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, (altro ex carcere mandamentale) nei pressi della tendopoli di San Ferdinando, dove alloggiano centinaia di lavoratori in agricoltura. E poi Modena, anche in questo caso sembra privilegiato l’ex CIE un tempo gestito dalle “Misericordie” di Daniele Giovanardi, fratello dello zelante uomo politico, situato in una caserma dismessa in Via La Marmora. Si tratta di uno dei centri che l’allora ministro Salvini, nell’ottobre 2018 dava come pronto per aprire, ad oggi, pur essendo tecnicamente pronto ancora permangono difficoltà nel farlo ripartire. Problemi di appalto ma soprattutto dissidi interni alla maggioranza di governo nel capoluogo emiliano, dove governa il M5S e alle divergenze nelle politiche nazionali si assomma la contrarietà della città che ha già potuto verificare l’inutilità di questi centri. A detta del Viminale si sta lavorando per l’apertura (ma non si hanno notizie di spazi individuati)di CPR in Veneto e Liguria, governate dal centro destra e mentre sta per partire la campagna elettorale per le elezioni regionali in entrambe le regioni. Formalmente il parere di Regioni ed enti locali non è vincolante per la realizzazione di un CPR ma di fatto non avere l’appoggio delle amministrazioni è importante sia per i servizi connessi alla gestione sia per i rapporti con il territorio. Ad esempio la Toscana, che ha sempre rifiutato la realizzazione di strutture di detenzione e in cui i sondaggi danno per vincente ancora forze di centro sinistra, non è ad oggi considerata come fra quelle in cui realizzare un centro. Anche per altre regioni, Marche, Abruzzo, Molise, Trentino Alto Adige mentre si vanno ampliando quelli di: Torino (da 175 a 210 posti), nonostante sia quello con maggiori tensioni e una morte ancora recente, Bari,riaperto nel novembre 2017, che passerà dagli attuali 90 a 126 po, poi con lavori più strutturali, Palazzo San Gervasio e Caltanissetta. Ribadire la contrarietà a tali strutture deve diventare un obiettivo praticabile di cui ormai debbono farsi carico le reti associative, di movimento, le attiviste e gli attivisti vecchi e nuovi, il mondo del diritto. La classe politica sembra voler ignorare che i CPR, in cui si potrà restare rinchiusi anche per sei mesi rischiano di divenire vere e proprie bombe ad orologeria in cui potrebbero facilmente riaccadere tragedie come quella con cui abbiamo iniziato questo racconto e che per il mondo antirazzista resta indimenticabile e inaccettabile. In 20 anni è stata prodotta una ampia letteratura sull’argomento, dai rapporti realizzati prima da MSF e poi da MEDU, al Libro Bianco mai pubblicato ma realizzato grazie al Comitato diritti Umani del Senato, a ricerche specifiche sui singoli centri e a relazioni delle istituzioni e del Garante per i detenuti e le persone private della libertà personale. Da ultimo un volume divulgativo edito dal settimanale Left di cui Adif è fra le forze che hanno contribuito a realizzarlo e dal titolo “Mai Più”. Una corretta comunicazione su queste strutture è determinante per svelarne il carattere nocivo, ma altrettanto importante è riprendere le mobilitazioni. L’11 gennaio, dopo un primo presidio a pochi giorni dall’apertura, si terrà una manifestazione a Gradisca D’Isonzo, il 18 una assemblea regionale a Milano per fermare l’apertura di Corelli. Ci auguriamo che sia solo l’inizio.
Pubblichiamo una lettera di Valeria Bertolino, operatrice sociale, nostra grande amica e testimone dei giorni, dei mesi e degli anni che seguirono alla strage del Centro Serraino Vulpitta nel 1999. Una memoria che non si potra’ cancellare, una voce che ci ricorda gli abusi e la disumanità della detenzione amministrativa.
Di Valeria Bertolino
Vent’anni fa. Il 29 dicembre 1999 ci ritrovammo di mattina presto davanti il cancello del centro di permanenza temporanea di Trapani, che si trovava nei locali dell’opera pia Rosa Serraino Vulpitta, nello stesso edificio dell’ospizio per vecchi. Eravamo lì per sapere:si era diffusa la notizia di una rissa o di un tentativo di fuga, di un morto. Vedevamo una grande macchia nera sul ballatoio. Il cancello centrale veniva aperto per fare entrare o uscire le macchine della polizia. Arrivò il senatore D’ali’, allora non ancora sottosegretario. La scena fu alquanto imbarazzante: lui scende dall’auto e viene a salutarci; noi esitiamo un istante, poi riluttanti gli stringiamo la mano; evidentemente non ci aveva riconosciuti. Gli chiediamo notizie :una rissa, a quanto pare; si sono ammazzati fra di loro. La verità si saprà alcune ore dopo dai tg :un incendio appiccato in un tentativo di fuga; tre uomini bruciati vivi; altri tre moriranno nei giorni seguenti in ospedale a Palermo. Entriamo il nove gennaio 2000. C’è Dino Frisullo. Le pareti sono state imbiancate; per il pavimento non hanno potuto fare nulla: é annerito e scoppiato. La sensazione di sentire quasi l’odore della carne bruciata. Dino scriverà un racconto su quella notte maledetta del Vulpitta :”Il giuramento”. Viene presentata una denuncia nei confronti del prefetto Cerenzia. Otteniamo la possibilità di entrare periodicamente in modo autonomo e indipendente: è “la politica di umanizzazione dei centri”. I nomi di chi abbiamo incontrato dentro non li ricordo più, tranne uno. Ma i nomi dentro un centro di detenzione non contano: i reclusi dichiarano nomi falsi per ritardare il riconoscimento e il rimpatrio ; i carcerieri li identificano con il numero di ingresso. Io e Fulvio Vassallo abbiamo assistito a una crisi epilettica; a un tentativo di impiccagione, con i poliziotti che cercavano di tenere sollevato il detenuto nell’attesa interminabile che qualcuno trovasse qualcosa per tagliare il cappio; un malato di tubercolosi dentro una cella con altri detenuti, nonostante tutti dovessero, prima dell’ingresso al centro, essere sottoposti a visita medica. Poi, come corollario :un interrogatorio di 5 ore, come persona informata sui fatti : un esponente della comunità Tamil di Palermo, che avrebbe chiesto denaro a un gruppo di cingalesi per far fare loro la richiesta di asilo. “Lei non conosce il cingalese; quindi non può sapere cosa si sono detti. Lei si fida.” “Neanche voi lo conoscete il cingalese. Anche voi vi fidate”. Il prefetto galantuomo, Fulvio Sodano, trasferito; sostituito dal prefetto di ferro, Finazzo, già questore a Trapani, Roma e Milano, ritornato in compagnia delle notizie di varie proteste nei suoi confronti degli stessi poliziotti , e dagli slogan con le facili assonanze con il suo cognome. Divieto di entrare. Proteste e interrogazioni parlamentari che fanno ritornare il prefetto sui suoi passi. Un volto tumefatto. Fulvio Vassallo che neanche riesce a parlare :non mi capiterà più di vederlo così arrabbiato. Il direttore del centro Giacomo Mancuso che ci dice che il ragazzo ha fatto a pugni con un suo compagno. Quello, che rifiuta l’interprete ufficiale e vuole che sia chiamato un altro detenuto che parla italiano. E così racconta di come l’abbiano portato nella cella di isolamento e di come lo abbiano pestato. I poliziotti. Lo sguardo vitreo e nessuna emozione nel volto e nella voce ell’on. Di Lello, ex magistrato del pool antimafia, quando dice di voler parlare con il prefetto. Cella di isolamento : il detenuto ha una lametta in mano. Ti chiedono di convincerlo a restituirla; tu gli parli, hai il braccio proteso tra le sbarre e la mano aperta ; i poliziotti sono tutti dietro di te ; lui comincia il suo delirante show ;si taglia il petto, le cosce; le braccia. Tu vedi schizzare il sangue dappertutto, i poliziotti indietreggiare e girano la faccia; tu continui a tenere la mano oltre le sbarre. Poi, lui inghiotte la lametta ; si calma. Lo portano finalmente al p.s. Un inserviente asciuga la pozza di sangue. Questo è giovane ; non sai che età abbia veramente, ma è troppo giovane per stare lì dentro. E ha paura; anzi è terrorizzato all’idea di passarci la notte. Tu chiami l’ispettore, gli chiedi se possono metterlo in un’altra cella, o comunque controllarlo. Quello ti risponde che ciò che fanno la notte è affar loro. Allora tu fai chiamare il capo, perché ce n’è sempre uno in un posto così ; gli prometti che gli porterai le sigarette, quelle buone, e un paio di scarpe nuove, e lui ti promette che lo proteggerà. Tu fai finta di crederci per non metterti ad urlare, per cercare di non andare fuori di testa , ma quello sguardo terrorizzato ti verrà a fare compagnia per troppe notti. E poi c’è il metal detector: devono controllare che non porti addosso armi o oggetti che i detenuti possano utilizzare come armi. Te lo passano vicino, troppo vicino, perché, così dicono, altrimenti non funziona. Tu protesti che si è ad un passo, uno solo, dalle molestie sessuali; Sergio, che entra con te, più efficacemente gli chiede se hanno intenzione di infilarglielo nel culo. Ogni volta che Sergio entra c’è sempre qualcuno dei poliziotti che gli chiede perché non si tagli i capelli. Una volta i poliziotti del reparto mobile di Palermo ci accerchiarono; fummo invitati ad andarcene; accettammo l’invito, nella realistica convinzione che avrebbero pestato anche noi. E poi il processo. Deposizione di un alto dirigente di polizia: avvocato della difesa (del prefetto Cerenzia):” Lei ha dichiarato che c’era una sbarra che chiudeva la cella dall’interno; ma quando l’onorevole Fava gli chiese se c’era una sbarra, lei rispose che non c’era una sbarra. Insomma questa sbarra c’era o non c’era?” “C’era. L’onorevole Fava mi chiese se c’era una sbarra di ferro; io risposi di no, perché la sbarra non era di ferro” “E come era fatta questa sbarra?” “La sbarra era di acciaio”. E poi Khaled, che si cuci la bocca. Khaled era uno tranquillo, che non aveva mai dato problemi, così ci disse l’ispettore. Per questo gli avevano dato ago e filo, quando li aveva chiesti per riparare i pantaloni. E Khaled, quello tranquillo, aveva fatto un buon lavoro:i punti erano abbastanza larghi da permettergli di parlare; il dolore però doveva essere terribile. La storia del Vulpitta dimostra come ci si può abituare all”orrore”; come questo orrore possa non solo essere considerato normale, ma addirittura utile e necessario. Non ci sono eroi in questa storia ; solo uomini e il loro dolore. L’ultimo flashback forse non c’entra nulla con il Vulpitta; ma c’entra con il dolore, anche di chi non credevi così fragile da non saperlo gestire :ad agosto del 2019, il prefetto Finazzo, ormai in pensione, si è buttato giù dal balcone della sua abitazione.