Soccorsi in mare, accordi bilaterali, Unione europea e ruolo di Frontex

di Fulvio Vassallo Paleologo

1.Esternalizzazione dei controlli di frontiera e politiche nazionali

Dopo la debacle sulle proposte presentate dall’Italia al Consiglio dei ministri dell’interno dell’Unione Europea, il governo Meloni sembra insistere molto sulla necessità che “intervenga l’Unione Europea” a sostegno della collaborazione con i paesi terzi al fine di bloccare le partenze dei migranti e rendere più efficaci le procedure di respingimento e di espulsione. Temi sui quali il prossimo 8 dicembre si svolgerà un ennesimo Consiglio europeo “Giustizia e affari interni”, sulla dimensione esterna della migrazione e sulla situazione lungo le principali rotte migratorie. In quell’occasione si parlerà senz’altro del Patto europeo sull’asilo e l’immigrazione del 23 settembre 2020, rimasto fin qui lettera morta, come la coeva Comunicazione della Commissione 2020/1365 sulla cooperazione tra gli Stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso” . In due anni l’Unione Europea non ha fatto alcun progresso, né sulla strada della redistribuzione dei richiedenti asilo e della riforma del Regolamento Dublino, né sulle politiche di ingresso legale ed inclusione. Il più recente Piano di azione proposto in bozza nelle scorse settimane, incentrato sulla cooperazione con i paesi terzi per rendere più efficaci le procedure di rimpatrio forzato, come osserva Statewatch, appare fortemente regressivo rispetto ad un pieno rispetto dei diritti fondamentali delle persone migranti, soprattutto nella parte che si occupa dei soccorsi in mare. La politica degli accordi di esternalizzazione con i paesi terzi si esplica anche sul fronte dei soccorsi in mare, con conseguenze che si dimostrano sempre più letali. Il nuovo Piano europeo sulle migrazioni rischia così di ratificare ulteriori e più gravi abusi sulla pelle delle persone migranti nei paesi di transito, sulle rotte del Mediterraneo, nei paesi di primo ingresso, sempre che a Bruxelles si riesca a raggiungere un accordo tra tutti i paesi membri.

Unico terreno dove si è riusciti a trovare un brandello di accordo, la politica di esternalizzazione delle frontiere ed i rimpatri con accompagnamento forzato. ai quali occorrerebbe conferire maggiore “effettività”. Si parlerà anche del finanziamento, con risorse sempre maggiori, malgrado gli scandali che hanno travolto il suo Direttore, dell’ l’Agenzia per il controllo delle frontiere esterne FRONTEX, ormai stabilmente collegata con la missione europea EUNAVFOR MED IRINI, che continua a tracciare con i suoi assetti aerei le imbarcazioni in fuga dalla Libia, e dalla Tunisia, in modo da rendere più facili le intercettazioni in acque internazionali ed i respingimenti collettivi “su delega” .Su tutte queste operazioni di sorveglianza dei confini marittimi europei che hano negato il diritto al socorso indagherà adesso la Corte Penale internazionale.

Risulta che dal 2017 ad oggi l’agenzia Europea Frontex abbia avvertito le autorità libiche della presenza di barconi da intercettare in acque internazionali, e per questa ragione negli ultimi anni è aumentato in misura esponenziale il numero delle persone bloccate da motovedette libiche in acque internazionali e ricondotte nei centri lager dai quali erano riuscite a fuggire. Il Rapporto dell’agenzia antifrode europea OLAF su Frontex mette a nudo responsabilità che dovrebbero essere accertate anche a livello nazionale. Su queste prassi di law enforcement, che riguardano direttamente anche gli Stati ospitanti le missioni di Frontex, in primis l’Italia e Malta, è stato presento un esposto-denuncia alla Corte Penale internazionale. Mentre le navi delle ONG cercano di salvare altre vite umane nelle acque del Mediterraneo centrale, malgrado la tempesta di calunnie che le sta investendo, crolla la credibilità dei rapporti e delle analisi rischi di Frontex, sempre più influenzati dagli indirizzi politici dei partiti di destra che sono andati al potere in diversi paesi europei.

I più recenti rapporti di Frontex sembrerebbero abbandonare comunque ogni riferimento alla tesi del cd. pull factor, attribuito alle navi delle ONG, che è stato tanto utilizzato dalle forze di polizia italiane per gettare fango addosso ai soccorsi umanitari e criminalizzare l’operato delle ONG. Tesi questa del “pull factor” (fattore di attrazione, che continua ade ssere smentita dalla realtà dei fatti, ed appare sempre più evidente come aumenti il numero dei barconi intercettati dai libici in acque internazionali grazie al supporto italiano ed europeo. Vedremo quanto la criminalizzazione dei soccorsi umanitari reggerà nel processo a Salvini, in corso a Palermo per il caso Open Arms, un processo che la difesa cerca di capovolgere mettendo sul banco degli accusatori l’imputato. La scoperta (tardiva) di un sommergibile sul luogo del primo soccorso il primo agosto del 2019, sembra ideata proprio per avvalorare la tesi che l’imbarcazione sovraccarica di naufraghi fosse in buono stato di galleggiamento e quindi che gli operatori umanitari di Open Arms, accusati di essere un pull factor, avrebbero proceduto ai soccorsi “in autonomia” senza avvisare le competenti autorità nazionali e dei paesi costieri più vicini. Vedremo come le smentite delle linee difensive di Salvini, bocciate di recente anche dalla Commissione Europea e dal Parlamento europeo, che, confermando quanto già sostenevano nel 2019, hanno respinto le tesi della possibilità di negoziazioni sulla redistribuzione dei naufraghi prima dello sbarco a terra, potranno incidere sul verdetto che pronuncerà il Tribunale di Palermo. Del resto, come si è visto, senbra che anche Frontex stia facendo marcia indietro sulle accuse che rivolge da anni alle ONG che costituirebbero un pull factor. Senza che da parte dell’Agenzia o dalle forze di polizia che ne fanno parte, si riuscisse mai a provare fatti penalmente rilevanti, come ammise anche il Procuratore Zuccaro a Catania, nel 2019, con una archiviazione clamorosa, al termine di due anni di indagine.

«Da quando Legeri ha rassegnato le dimissioni, Frontex ha adottato un approccio più cauto sui diritti umani», avrebbe detto infatti una fonte interna all’agenzia. «La direttrice ad interim è intervenuta al Parlamento Europeo dicendo che Frontex avrebbe adottato un approccio più attento e trasparente sui diritti umani. Il fatto che le ONG non vengano più citate come “pull factor” per i migranti può essere visto come coerente con questa direzione».

Un recente documento dell’UNHCR smentisce la tesi del governo italiano che le imbarcazioni cariche di persone sulle rotte del Mediterraneo centrale non siano tutte in situazioni di distress, sottolinenando invece, per garantire soccorsi più rapidi,, l’esigenza di un coordinamento tra gli Stati costieri che includa anche le ONG, coordinamento che al momento non esiste. Lo stesso documento chiarisce che lo sbarco dei naufraghi deve avvenire nel tempo più breve ragionevolmente possibile, in base all’emendamento 3.1.9 della Convenzione di Amburgo del 1979, aggiungendo che il comandante della nave non è abilitato a formalizzare richieste di asilo e che lo Stato di bandiera deve partecipare al coordinamento dei soccorsi ed all’assistenza tecnica, ma non è tenuto alla indicazione di un porto di sbarco sicuro. Obbligo che ricade invece sullo Stato costiero responsabile della zona SAR, sempre che possa garantire un place of safety (POS) nel suo territorio, o in assenza di queste circostanze di qualunque altro Stato costiero a conoscenza dell’evento di soccorso, o “Stato di primo contatto” che possa garantire un porto sicuro da raggiungere “nel rempo più breve ragionevolmente possibile”.

L’Unhcr conferma a tale riguardo la nozione di place of safety generalmente diffusa nel diritto internazionale consuetudinario e già accolta nel Regolamento Frontex n. 656 del 2014, chiarendo che la nave soccorritrice non può essere utilizzata come POS a tempo indeterminato in attesa che si risolva la controversia tra gli Stati costieri sulla sua destinazione finale. Secondo questo documento delle Nazioni Unite, dunque le ONG non sembrano certo quel fattore di attrazione delle partenze (pull factor), che torna utile al governo italiano per nascondere le proprie responsabilità nella mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro. Non ricorrono dunque gli elementi per affermare che una nave umanitaria che ha effettuato un soccorso in acque internazionali e che attraversi il mare territoriale possa costituire un passaggio “non inoffensivo” ai sensi dell’art. 19 della Convenzione UNCLOS di Montego Bay. Le conseguenze del mancato coordinamento tra gli Stati costieri nella indicazione di un porto di sbarco sicuro non possono ricadere sul comandante della nave soccorritrice, o, peggio, sui naufraghi, costretti ad attese estenuanti, anche quando sono già stremati dalla traversata.

Mentre si nasconde lo stillicidio di vittime in mare, conseguenza della mancanza di coordinamento tra gli Stati costieri e del ritiro dalle acque internazionali degli assetti navali militari degli stessi Stati, o del loro impiego ad esclusivi fini di sorveglianza, infuria una truce tempesta mediatica che si abbatte su qualsiasi episodio di soccorso umanitario. Anche se i processi penali a carico dei rappresentanti delle tanto odiate ONG si chiudono con archiviazioni, il richiamo a presunti obblighi di soccorso degli stati di bandiera, (flag state) che caratterizzano da tempo la gestione del ministero dell’interno, riducono al minimo l’impegno di soccorso dell’Italia e di Malta in acque internazionali e sembrano legittimare divieti di ingresso in porto. Divieti che corrispondono a palesi violazioni del diritto internazionale del mare e del diritto dei rifugiati. Appare evidente come tra paesi di dimensioni tanto diverse non si possa mai parlare di un vero coordinamento nelle attività SAR, perchè Malta non ha mai accettato gli emendamenti alle Convenzioni di diritto internazionale del mare apportate nel 2004 proprio per rafforzare il nesso tra l’obbligo di soccorso in acque internazionali e lo sbarco in un porto sicuro “nel tempo più breve ragionevolmente possibile”( art. 3.1.9 dell’Allegato alla Convenzione SAR del 1979). Rimane anche controversa la effettiva ripartizione delle zone SAR nel Mediterraneo centrale, perchè nella zona a sud ovest di Lampedusa ed nella zona a est di Malta, le zone SAR risultano sovrapposte (overlapped) ed il coordinamento dei soccorsi spesso viene a mancare o si verifica in ritardo. Sono questioni che hanno ritardato i soccorsi in acque internazionali causando la perdita di molte vite umane in mare.

Le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera e del contrasto delle migrazioni irregolari hanno sostanzialmente svuotato la portata del diritto di asilo previsto dalla Convenzione di Ginevra e dall’art. 10 della Costituzione italiana. Si è negato il diritto di accesso ad un territorio sicuro e si sono favorite le prassi di respingimento collettivo verso paesi non sicuri, collaborando attivamente con polizie di frontiera che non rispettavano i diritti fondamentali della persona, come è emerso nel caso attualmente all’esame della Corte europea dei diritti dell’Uomo (S.S. e altri contro Italia) relativo all’intervento violento di una motovedetta libica durante un operazione di salvayaggio condota dalla Sea Watch il 6 novembre del 2017. Dal 2017 al 2020 è accertato anche in decisioni dei Tribunali che le autorità italiane hanno coordinato di fatto le attività della sedicente Guardia costiera libica, alla quale hanno fornito numerose motovedette, corsi di formazione, supporto tecnico. Situazione che risulta alquanto cambiata oggi, con la presenza predominante dei militari turchi in Tripolitania e con un rafforzato ruolo di spinta delle partenze e di collusione con i trafficanti da parte delle milizie che controllano la Cirenaica, ed in particolare la zona di Bengasi. La perdurante situazione di divisione del paese impedisce di considerare ancora validi, e legittimi sotto il profilo del diritto interbnazionale, gli accordi tra l’Italia ed il governo di Tripoli, che non appare rappresentativo di buona parte delle milizie che controllano il territorio libico a sud nel Fezzan, ed a oriente in Cirenaica, dove è pure presente il gruppo russo Wagner.

Nel 2021 L’UNHCR ha pubblicato un rapporto che “riassume gli standard legali applicabili e le posizioni dell’Agenzia in merito alle politiche e alle pratiche che servono effettivamente a ‘esternalizzare’ gli obblighi di protezione internazionale”. La nota è accompagnata da un allegato che “spiega che le misure volte, o effettivamente utili, ad evitare responsabilità o a spostare, piuttosto che condividere, gli oneri sono contrarie alla Convenzione del 1951 relativa allo status dei rifugiati (‘Convenzione sui rifugiati del 1951’) e ai principi di cooperazione e solidarietà internazionale generalmente accettati”. Nel Rapporto si evidenzia come gli accordi di di esternalizzazione siano distanti dalle politiche e dalle pratiche adottate in conformità del diritto internazionale, volte a condividere le responsabilità in materia di protezione internazionale nello spirito della cooperazione e della solidarietà internazionali.

Di certo non si può strumentalizzare la presenza dell’UNHCR in Libia, paese che non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951, per giustificare hotspot in quel paese, ancora diviso tra milizie in conflitto, o prassi di respingimento collettivo su delega ai guardiacoste libici. Anche la ministra Lamorgese aveva parlato della «preziosa opera dell’Unhcr e dell’Oim, per il rispetto dei diritti umani nei centri allestiti nel Paese nordafricano». Ma dalla Libia fonti delle Nazioni Unite smentivano qualunque tentativo di individuare in Libia porti sicuri di sbarco: «Non abbiano nessuna possibilità di cambiare la situazione rispetto ai diritti umani». Una situazione che oggi non appare certo nigliorata e che si presta soltanto a facili strumentalizzazioni elettorali.

In questi giorni, nei centri di detenzione libici è stato impedito persino l’accesso ad una missione ufficiale delle Nazioni Unite, e la Libia continua a non ratificare la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e, se aderisce alla Convenzione OUA dei paesi africani che contiene un richiamo al diritto d’asilo, non ha una legislazione interna che garantisca lo status di richiedenti asilo e rifugiati, che sono spesso oggetto di scambio tra le milizie e le bande criminali, anche quando hanno avuto riconosciuto il diritto alla protezione.

2.La finzione della zona SAR “libica”

Nel dicembre dello scorso anno una grossa nave della Marina militare italiana, la San Giorgio, ha trasportato nel porto militare di Abu Sittah a Tripoli, già sede dell’operazione NAURAS, rientrante nelle attività operative in acque internazionali della stessa Marina militare, definite come operazione Mare Sicuro, alcuni containers che a detta dei giornalisti de la Repubblica conterrebbero una “unità antiscafisti” da consegnare ai libici. Di fatto si tratterebbe di attrezzature che permetterebbero ai libici di avere una Centrale di coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio in mare (MRCC), mentre fino ad oggi hanno operato soltanto con un Centro congiunto di coordinamento, definito JRCC, a seconda delle forze che potevano essere chiamate in soccorso e delle zone dove si verificavano gli eventi SAR. E fino al mese di luglio del 2020 il coordinamento principale avveniva da bordo di una nave della missione NAURAS (Capri, Gorgona ed altre) presente a turno nel porto militare di Abu Sittah a Tripoli. Si ha così l’ennesima prova che i libici non dispongono ancora oggi di una centrale di comando unificato (MRCC), siccome non esiste neppure una autorità statale che controlla l’interno territorio,. Dunque si ha la conferma che non ci sono le condizioni minime per il riconoscimento di una zona SAR ad un paese costiero. Fino a quando l’IMO continuerà ad essere complice del riconoscimento di una zona SAR “libica” che non è finalizzata al soccorso ma esclusivamente alla intercettazione di chi fugge dai lager gestiti dalle milizie ?

Per effetto della invenzione a tavolino della cd. zona SAR libica, dichiarata nel 2018, sono state abbandonate in mare ed hanno fatto naufragio, se non sono finite nei lager libici, migliaia di persone. La Guardia costiera libica è stata per anni coordinata, rifornita e formata da personale italiano ed europeo ( delle missioni Eunavfor Med Sophia ed Irini). Quelle stesse autorità marittime libiche che i precedenti ministri dell’interno italiano hanno lodato come alleati fidati sono oggi sul banco degli imputati con la pesante accusa di avere concorso alla commissione di crimini contro l’umanità, oltre che di reati ordinari come il contrabbando di petrolio e il traffico di persone. Sarebbero queste già ragioni sufficienti per denunciare gli accordi di collaborazione con la sedicente Guardia costiera libica. Le autorità italiane rilanciano invece i loro rapporti di collaborazione con il governo di Tripoli sul fronte della lotta all’immigrazione “illegale” senza preoccuparsi minimamente della sorte che subiscono le persone intercettate in mare e riportate a terra dai guardiacoste libici, e senza alcun rispetto degli obblighi di coordinamento e soccorso in alto mare imposti dalle Convenzioni internazionali, Convenzioni che dovrebbero impedire ad un paese firmatario come l’Italia di collaborare con autorità marittime che non sono in grado di garantire né azioni immediate di soccorso, né tanto meno lo sbarco in un porto sicuro, al punto da consentire alle milizie che le sostengono la commissione sistematica di atti configurabili come crimini contro l’umanità.

3. Complicità dela sedicente Guardia costiera libica con le organizzazioni criminali

Le responsabilità delle autorità libiche e dei paesi che le sostengono nella lotta contro la migrazione “illegale”, permettendo nei fatti la commissione di crimini contro l’umanità, si intrecciano con quelle derivanti dalla commissione di reati comuni. Il governo provvisorio di Tripoli e le milizie che lo sorreggono, incluse quelle che controllano il porto industriale e la base petrolifera a partecipazione ENI di Zawia, risultano sempre più coinvolte in attività criminali, oltre lo smuggling, anche il traffico di petrolio. Intanto si stima che almeno 6000 persone siano trattenute nei centri di detenzione ufficiali, mentre altrettante sarebbero sequestrate nei centri di detenzione “informali” alla mercé di milizie che li utilizzano come merce da rivendere sul mercato al migliore offerente. Per chi non ha i soldi per pagarsi un riscatto arrivano le torture più brutali e tutte le donne vengono sistematicamente stuprate, soprattutto quelle più giovani.

Chi controlla davvero le diverse guardie costiere libiche ? Cosa si nasconde davvero dietro la sigla dei GACS (General Administration for Coastal Security) ? Che tipo di coordinamento operativo garantiscono a queste forze l’Unione Europea e il governo italiano ? E’ ammissibile l’apposizione del segreto militare a tutte le fasi attuative degli accordi con i libici, misura adottata dall’ex Ministro dell’interno Lamorgese.

Sono peraltro noti a tutti i collegamenti tra la stessa sedicente “guardia costiera libica” e le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di migranti dalla Libia, e dalla Tripolitania, in particolare. Si tratta di rapporti che ormai appaiono istituzionalizzati, come emerge dalla nomina del noto trafficante Al Milad Bija a comandante dell’Accademia navale libica. Fino a quando gli Stati europei continueranno a collaborare con autorità marittime e militari che non garantiscono il rispetto dei diritti umani ?

Alla fine dello scorso novembre (2022) “una nave della cosiddetta Guardia costiera libica, ma in realtà di una milizia, ha intercettato a 60 chilometri dalla costa e riportato a Tobruk 522 persone fra i quali 240 minori, soprattutto cittadini siriani ed egiziani, che erano a bordo di un vecchio peschereccio. Non si sa a chi rispondano queste unità militari, non certo al governo provvisorio di Tripoli, che nel 2020 non è riuscito ad ottenere la liberazione dei pescatori siciliani intercettati in acque internazionali e sequestrati dalle autorità di Bengasi, poi rilasciati a seguito di una lunga trattativa diplomatica nella quale erano stati convolti addirittura Putin e le autorità egiziane che sostenevano il generale Haftar, capo delle milizie che controllano la Cirenaica.

Nel corso del 2021,erano già state oltre 28.000 le persone intercettate in acque internazionali dalla sedicente Guardia costiera libica e riportate a terra. Se prima queste intercettazioni avvenivano davanti le coste della Tripolitania, adeso si verificano anche sulle rotte che partono da Bengasi in Cirenaica. Secondo l’OIM dal 27 novembre al 3 dicembre scorso 633 persone sono state intercettate in acque internazionali e ricondotte in Libia, Queste azioni di “soccorso”, in realtà propedeutiche a veri e propri sequestri di persona, nel cordo del 2022 hanno finora riguardato 21.457 persone, di cui 1089 donne e 678 bambini. Lo scorso anno le persone intercettate in acque internazionali dai libici e riportate a terra erano state 32.425. Queste intercettazioni sono state posibili grazie alle attività di sorveglianza aerea di Frontex ed al trasferimento di tecnologia militare per i controlli sulle frontiere marittime affidati agli Stati terzi, anche quando si trattava di paesi che non garantivano ol pieno rispetto dei diritti umani. Il Mediatore europeo ha rilevato che la Commissione europea non ha adottato le misure necessarie per garantire la protezione dei diritti umani nei trasferimenti di tecnologia con potenziale capacità di sorveglianza sostenuta dal Fondo fiduciario di emergenza per l’Africa.

4. I casi Vos Thalassa e Asso 28 davanti ai tribunali italiani. La Libia non è un paese terzo sicuro.

La Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio, il 26 aprile di quest’anno, la sentenza della Corte di Appello di Palermo, che in riforma di una precedente sentenza del Tribunale di Trapani aveva assolto due naufraghi soccorsi da questo rimorchiatore che il comandante, probabilmente su indicazione delle autorità marittime italiane, voleva riportare in Libia. Nella sentenza del Tribunale di Trapani si ribadiva chiaramente che la Libia non può essere considerata un paese terzo che garantisce porti sicuri di sbarco e che dunque potevano ritenersi nulli, o inapplicabili, gli accordi stipulati nel tempo dai governi italiani con le autorità di Tripoli, nei quali si prevedeva la collaborazione con la sedicente Guardia costiera libica, al fine di intercettare i migranti in acque internazionali e ricobdurli quindi in territorio libico. La decisione del giudice trapanese, che, sulla base dei rapporti delle Nazioni Unite, rileva l’esposizione ad abusi dei migranti internati nei centri di detenzione libici, equipara le eventuali riconsegne di migranti alla Guardia costiera libica ad un «respingimento collettivo», vietato dalle Convenzioni internazionali. E infatti si osserva come. «se si riflette un momento sul fatto che i67 migranti imbarcati dalla Vos Thalassa avevano subìto, prima della partenza dal territorio libico, le disumane condizioni rappresentate dalla Unhcr, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’uomo. Emerge inconfutabilmente che tutti i soggetti imbarcati sulla Vos Thalassa (..) stavano vedendo violato il loro diritto ad essere condotti in un luogo sicuro (…)

Come si è già osservato in dottrina, la sentenza del Tribunale di Trapani fornisce una “un’ampia ricostruzione del fondamento nel diritto internazionale (consuetudinario e pattizio) del principio di non refoulement e del divieto di tortura, e conclude che “il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-refoulement aveva già acquisito rango di jus cogens, è: – privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’art. 10 co. 1 Cost., secondo cui ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement’”.

il Tribunale di Napoli ha successivamente condannato il comandante della nave Asso28 a un anno di reclusione perché dopo avere soccorso 101 migranti, tra cui diversi minori e alcune donne incinte, accettò di consegnarli a Tripoli. Come riferisce Nello Scavo dopo una documentata inchiesta condotta sulle pagine de l’Avvenire, il Tribunale di Napoli ha condannato ad un anno di reclusione il comandante del rimorchiatore ASSO 28 ,di servizio nel luglio del 2018 alla piattaforma petrolifera offshore Sabratha in acque internazionali, per avere riconsegnato ad una motovedetta libica al largo del porto di Tripoli oltre cento persone soccorse nei pressi della piattaforma, dunque al di fuori delle acque territoriali libiche. Anche in questo caso, per garantire la conoscenza dei fatti, è risultata decisiva la presenza di una nave ONG nei pressi dell’evento di soccorso.

Secondo quanto riportato in una registrazione audio pubblicata dalla stessa fonte giornalistica, dopo la denuncia dell’accaduto da parte dei rappresentanti della ONG Open Arms, il comandante del rimorchiatore ASSO 28, che batteva bandiera italiana, avrebbe deciso di fare rotta su Tripoli, con i naufraghi a bordo, su “indicazioni dalla piattaforma Sabratha”, dunque per effetto di un ordine provenuto da altri che a bordo della piattaforma avevano deciso autonomamente, o su indicazioni di autorità non meglio identificate, che i naufraghi fossero riportati a Tripoli. Sembra anche che, a bordo del rimorchiatore ASSO 28, battente bandiera italiana, sarebbe stato presente un esponente della sedicente Guardia costiera libica. Con quale ruolo, dal momento che si trattava di una nave che batteva bandiera italiana ?

Quali erano le autorità che avevano impartito l’ordine di respingimento dalla piattaforma Sabratha e con quali centrali di coordinamento (MRCC) erano in contatto ? Di certo la riconsegna dei naufraghi si verificò poco al di fuori del porto di Tripoli, con il trasbordo su una motovedetta libica, lontano da occhi indiscreti. Evidentemente nessuno doveva vedere o riferire quanto stava accadendo. Si deve infatti ricordare che nella stessa giornata del 30 luglio 2018 mentre il rimorchiatore ASSO 28 riconsegnava i naufraghi alla motovedetta libica appena fuori dal porto di Tripoli, venivano arrestati.quattro giornalisti della Reuters e dell’Associated Press che volevano documentare la riconsegna alle milizie libiche, proprio nel porto militare di Tripoli, ad Abu Sittah, dove fanno base anche le navi della missione militare italiana NAURAS.

La corrispondenza tra gli attacchi alle ONG che nel 2019 raggiungevano il culmine con i divieti di ingresso in porto per sbarcare naufraghi socsorsi nella SAR libica e poi conl’arresto di Carola Racjete a Lampedusa, arresto poi annullato dalla Corte di Cassazione, al quale corrispondeva in Libia, con rara sintonia, un Decreto emesso dal Cosnsiglio presidenziale del Governo provvisorio di Tripoli (G.N.A.) n 1034/2019 del 14 settembre 2019, che imponeva alle ONG di inoltrare una domanda di autorizzare per potere svolgere attività di ricerca e salvataggio nella cd. zona SAR “libica” e di restare vincolati ad un obbligo di obbedienza nei confronti delle direttive impartite dalle autorità locali in ordine allo sbarco in porto dei naufraghi soccorsi in alto mare. Quasi una versione “libica” del Codice di condotta Minniti, ed in particolare degli obblighi stabiliti a carico delle ONG nel decreto sicurezza n.53 del 2019 che pure subordinava le navi delle ONG che operavano attività di soccorso nella zona SAR “libica” al coordinamento di una inesistente Centrale di coordinamento congiunto (JRCC) “libica”.

A proposito delle responsabilità di coordinamento delle attività SAR che rimangono sullo sfondo della sentenza del Tribunale di Napoli occorre anche ricordare quanto osservato nel caso Open Arms a marzo del 2018, dunque con riferimento ad un periodo anteriore a quello del caso ASSO 28, in un Decreto di convalida di sequestro emesso in quello stesso periodo dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Catania. Questo giudice osservava come di fatto la Guardia costiera libica fosse allora coordinata dalle autorità militari italiane, presenti nello stesso porto militare di Abu Sittah a Tripoli con la missione Nauras, facente parte della operazione Mare Sicuro della Marina militare italiana. Un coordinamento che è proseguito anche dopo la istituzione di una finta zona SAR “libica” nel mese di giugno del 2018, come è stato confermato fino allo scorso anno anche da autorevoli esponenti di governo italiani, coordinamento che, secondo quanto dichiarato dal ministro della difesa Guerini, sarebbe venuto meno soltanto nel mese di luglio del 2020. Da quando, dopo la stipula di un accordo tra la Turchia di Erdogan e il governo provvisorio di Tripoli le autorità turche hanno preso il controllo della maggior parte delle coste della Tripolitania, istituendo una base navale turca ad Al Khums (Khoms) e gestendo direttamente i rapporti con le milizie che controllavano in precedenza le diverse guardie costiere libiche, di fatto una per ogni città.

Il trasferimento dei naufraghi verso il porto di Tripoli, operato a luglio del 2018 dal rimorchiatore ASSO 28, fino al trasbordo al largo della base militare di Abu Sittah, luogo di attracco stabile della nave Caprera della missione italiana Nauras , indipendentemente dalle autorità che lo abbiano ordinato, costituisce un respingimento collettivo analogo a quello effettuato il 6 maggio 2009 dalla Guardia di finanza su ordine di Maroni. Che poi e’ costato all’Italia una denuncia e quindi nel 2012 una condanna definitiva dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo ( caso Hirsi). Il rimorchiatore ASSO 28 batteva bandiera italiana e restava dunque sotto la giurisdizione delle autorità italiane, seppure in acque internazionali, come erano sotto giurisdizione italiana le persone presenti sulla nave.

5. Gli accordi bilaterali tra Stati costieri e il coordinamento nelle attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali.

Come riferisce il giornale L’Avvenire, agli inizi di settembre, una bimba siriana di 4 anni è morta, dopo giorni in attesa dei soccorsi, sul barcone in zona SAR maltese. Era stata evacuata dall’imbarcazione in cui si trovava, con a bordo 60 migranti, che da diversi giorni chiedevano soccorso dalla zona Sar di Malta, Ma nessuna autorità marittima ha risposto. Secondo Alarm Phone Malta ha rifiutato di autorizzare il mercantile Sti Solace, che si trovava nell’area, di soccorrerli. La bambina, ha spiegato la stessa organizzazione, era stata presa a bordo di un elicottero dal mercantile che aveva poi soccorso i migranti ,ma è spirata prima di arrivare in ospedale.

Le rotte dal Mediterraneo orientale sono più lunghe di quelle dalla Libia, i mezzi utilizzati sono generalmente più grandi, ma il numero delle vittime continua ad aumentare, come si sta verificando anche sulle rotte dalla Libia e dalla Tunisia. Tutte queste rotte attraversano infatti una zona SAR, quella maltese, che non è presidiata con mezzi di soccorso adeguati rispetto all’estensione della zona di mare che vi corrisponde, ed i barconi carichi di migranti si trovano spesso abbandonati anche dalle centrali di coordinamento dei singoli Stati (MRCC), che al di fuori delle rispettive acque territoriali ( 12 miglia dalla costa) si rimbalzano la competenza degli eventi SAR o negano che ricorrano situazioni di distress, tali da imporre interventi immediati in acque internazionali a salvaguardia della vita umana.

Secondo quanto comunicato dall’agenzia DIRE il 12 settembre scorso, ventotto persone sono sbarcate da una nave della Guardia Costiera italiana a Pozzallo ed hanno raccontato una terribile odissea nella quale hanno perso alcuni compagni di viaggio.. Secondo quanto hano riferito i media “l’Unhcr denuncia che sei siriani sono tragicamente deceduti durante il viaggio disperato in mare per cercare sicurezza in Europa. Tra le vittime ci sarebbero due bambini di uno e due anni, un dodicenne e tre adulti, tra cui la nonna e la madre di bambini sopravvissuti. Si pensa che siano morti di fame e di sete. Molte delle persone sbarcate presentano anche condizioni estremamente gravi, tra cui ustioni.” Nel caso di questo soccorso, completato dalla Guardia costiera italiana, la lunga attesa in mare, dopo le prime richieste di aiuto, ha anche aggravato la condizione dei sopravvissuti, persone che si erano messe in navigazione sulla rotta orientale, partendo dalla Turchia e dal Libano, dopo essere fuggite dalla Siria e dall’Afghanistan, dimenticato da tutti.

Queste vicende recenti, ma tante altre se ne potrebbero riferire, ed altre simili purtroppo si verificheranno ancora in futuro, dimostrano che il coordinamento nelle attività di soccorso imposto dalle Convenzioni internazionali, ed auspicato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite nei suoi documenti più recenti, nei fatti ancora non esiste.

Come ha denunciato l’Unhcr, questa inaccettabile perdita di vite umane, e il fatto che le persone abbiano trascorso diversi giorni alla deriva prima di essere soccorse, evidenziano ancora una volta “l’urgente necessità di ripristinare un meccanismo di ricerca e soccorso tempestivo ed efficiente guidato dagli Stati nel Mediterraneo.” Perché gli Stati non si possono sottrarre al coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali e hanno in proposito l’obbligo di coordinarsi tra loro per garantire la massima tempestività degli interventi SAR (di ricerca e salvataggio) al fine di evitare la perdita di vite umane in mare. La sistematica elusione dei doveri di coordinamento tra gli Stati per il soccorso nelle acque del Mediterraneo centrale, e gli accordi di cooperazione conclusi con il governo di Tripoli non solo dall’Italia, ma anche da Malta, hanno comportato la perdita di almeno 1500 vite umane lo scorso anno e oltre 1200 vite umane, tra morti e dispersi, sono il tributo pagato nel corso del 2022 alle politiche di esternalizzazione delle frontiere, praticate dagli Stati costieri e dall’Unione Europea. In diverse occasioni le autorità maltesi non hanno risposto a chiamate di soccorso provenienti da imbarcazioni che si trovavano nella loro area di responsabilità.

Le Convenzioni internazionali di diritto del mare e la normativa interna, nel caso dell’Italia il piano Sar Nazionale approvato nel 2021, precisano gli obblighi di soccorso a carico degli Stati. Ma nella stessa direzione andava già il piano Sar nazionale del 1996 che, come previsto dal Diritto internazionale, imponeva una immediata attività di coordinamento tra gli stati che ricevono chiamate di soccorso in modo che non venisse messa a rischio la vita umana in mare. Le attività di ricerca e salvataggio non possono essere degradate ad attività di controllo dell’immigrazione irregolare e gli eventi nei quali le persone si trovano in difficoltà e rischiano di annegare non possono essere qualificati da parte delle autorità marittime come meri “eventi migratori”, da affrontare con le drastiche misure di contrasto dell’immigrazione clandestina, ma vanno classificati immediatamente come eventi di ricerca e salvataggio (SAR), tali da imporre un avvio immediato delle attività di soccorso in modo da evitare la perdita di vite umane in mare. La prima autorità richiesta di un soccorso non può limitarsi a trasferire ad un altro Stato il coordinamento delle attività SAR se non è garantito che comunque vengano messe in atto nel più breve tempo possibile tutte le attività richieste per la salvaguardia della vita umana in mare. Una questione di grande rilievo che stata è al centro del processo penale “Libra” davanti al Tribunale di Roma concluso purtroppo a dieci anni dai fatti con la dichiarazione della prescrizione dei reati contestati.

Qualunque conflitto di competenza tra autorità maltesi italiane, in ipotesi anche libiche, non può assolutamente pregiudicare l’immediatezza dei soccorsi che vanno avviati dallo Stato che per primo ha notizie della presenza di imbarcazioni in pericolo di affondare nelle acque del Mediterraneo centrale, anche al di fuori delle proprie acque territoriali. Le Convenzioni internazionali e il Manuale IAMSAR fissano bene i fattori di rischio che vanno considerati per stabilire se un imbarcazione richiede un immediato intervento di soccorso. Occorre considerare le modalità di carico, la quantità di persone a bordo, le condizioni fatiscenti, l’assenza di mezzi di salvataggio e di efficaci sistemi di comunicazione. Tutte le imbarcazioni che si trovano in mare nelle acque tra la Libia Tunisia e l’Italia sono cariche di decine e decine di migranti, vanno qualificate come imbarcazioni a immediato rischio di affondamento (distress) e come tali vanno immediatamente soccorse ovunque si trovino, senza agttendere il loro avvicinamento alle coste. Nei soccorsi in acque internazionali, al fine superiore di salvaguardare la vita umana in mare, tutti gli Stati costieri devono assicurare il massimo coordinamento, senza trincerarsi dietro la responsabilità dello Stato di bandiera della nave soccorritrice.

6. Gli accordi tra l’Italia ed il governo provvisorio di Tripoli. Nuove prospettive

Nei rapporti con le diverse fazioni libiche le violazioni dei diritti umani e la cancellazione del diritto di asilo non contano più. Da anni rmangono inascoltate le durissime critiche del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite ad accordi che l’Italia ha perfezionato con la Libia con il Memorandum d’intesa del 2017, ma che in realtà prendono avvio nel 2004, con le prime intese sui respingimenti collettivi da Lampedusa, ed hanno una significativa svolta operativa con il Protocollo di polizia, definito come “aggiuntivo tecnico-operativo” stipulato nel dicembre 2007 dal governo Prodi, poi confluito nel Trattato di amicizia e cooperazione tra Italia e Libia firmato nel 2008 da Berlusconi e Gheddafi. Accordi confermati ed aggiornati nel 2012, dopo le primavere arabe e la caduta di Gheddafi, dal governo Monti con il ministro dell’interno Cancellieri che andava e veniva da Tripoli. La sedicente Guardia costiera libica è così cresciuta grazie alle donazioni di motovedette provenienti dall’Italia e dai suoi diversi governi nel tempo. Tutti dovrebbero sapere come si sono utilizzate quelel motovedette, e quante vite si sono perse a causa della loro presenza. Lo scorso anno oltre 30.000 persone sono state intercettate in acque internazionali e rigettate nei lager libici dai quali erano fuggite.

 Un rapporto  sulla Lbia, redatto da un gruppo di esperti delle Nazioni Unite,  documentava igià nel 2017 come ” gruppi armati, alcuni dei quali hanno ricevuto un mandato o almeno un riconoscimento dalla Camera dei rappresentanti o dal Consiglio di presidenza, non sono stati sottoposti a un controllo giudiziario significativo. Ciò ha ulteriormente aumentato il loro coinvolgimento nelle violazioni dei diritti umani, inclusi rapimenti, detenzioni arbitrarie ed esecuzioni sommarie. I casi indagati dal gruppo comprendono abusi”. Secondo lo stesso rapporto, “Abd al-Rahman Milad (alias Bija), e altri membri della guardia costiera, sono direttamente coinvolti nell’affondamento delle barche dei migranti usando armi da fuoco. A Zawiyah, Mohammad Koshlaf ha aperto un rudimentale centro di detenzione per i migranti nella raffineria di Zawiyah. Il gruppo di esperti scientifici ha raccolto informazioni su abusi contro i migranti da parte di diverse persone (cfr. Allegato 30). Inoltre, il gruppo di esperti scientifici ha raccolto notizie di cattive condizioni nei centri di detenzione dei migranti a Khums, Misratah e Tripoli. Secondo lo stesso rapporto “il capo della guardia delle strutture petrolifere di Zawiyah, Mohamed Koshlaf, noto anche come Kasib o Gsab (v. punti 105 e 258), è coinvolto nell’approvvigionamento di carburante per i trafficanti. Comanda anche la cosiddetta milizia Nasr.81 Suo fratello, Walid Koshlaf, noto anche come Walid al-Hadi al-Arbi Koshlaf, gestisce la parte finanziaria dell’azienda. Il capo della guardia costiera di Zawiyah, Abd al-Rahman Milad (alias Bija) (vedi anche punti 59, 105 e 258), è un importante collaboratore di Koshlaf nel settore dei carburanti.” Eppure, malgrado questo Rapporto dell’ONU, il Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017 veniva concluso ed attuato proprio contando sull’appoggio di quelle milizie di Zawia che i rapporteurs dell’ONU avevano indicato come collusi con le organizzazioni criminali.

E’ rimasta del tutto  inascoltata la Commissaria ai diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatovic che già nel 2019 chiedeva di “sospendere ogni collaborazione con la Libia e fare in modo che il meccanismo per gestire congiuntamente sbarchi e ridistribuzione dei migranti porti anche alla “creazione di un sistema a lungo termine e ambizioso per diminuire la pressione dei flussi migratori su certi Stati come Italia, Grecia e Malta”. Secondo il Commissario,“oggi gli Stati Ue hanno la possibilità di prevenire nuovi disastri umanitari decidendo di sospendere ogni collaborazione con le autorità libiche che implica il ritorno in Libia dei migranti intercettati in mare, sino a quando il Paese non darà chiare garanzie sul pieno rispetto dei diritti umani”. Ancora oggi le autorità marittime italiane (e maltesi) collaborano attivamente con la sedicente guardia costiera “libica”, nella finta zona di ricerca e salvataggio che, su spinta dell’Italia, il governo di Tripoli ha istituito nel mese di giugno del 2018, con una comunicazione all’IMO (Organizzazione internazionale del mare).

Purtroppo l’Unione Europea, dagli infami accordi del 2016 con la Turchia di Erdogan, fino ai più recenti finanziamenti al Marocco, continua a confermare nei fatti le politiche nazionali basate sugli accordi bilaterali, e sulla esternalizzazione dei controlli di frontiera e dei respingimenti collettivi, su cui si fonda la strategia del Piano europeo sulle migrazioni del 2020. Che poi rimane la stretegia di fondo di esternalizzazione dei controlli, e persino del diritto di asilo, di cui si discuterà nei prossimi vertici a Bruxelles.

Dopo il rinnovo tacito del Memorandum del novembre 2019 il 2 novembre scorso si è arivati all’ennesimo rinnovo tacito, e presto interverranno le camere per finanziare gli accordi e definirne il quadro politico complessivo. Su questo non si possono attendere sorprese dai partiti di governo, malgrado le recenti fibrillazioni che, dopo le ulrime elezioni, hanno spaccato partiti e movimenti.

Si nasconde agli italiani la portata della crisi libica ed il ruolo sempre più determinante della Russia che influenza il governo di Bengasi e condiziona le scelte di tutti gli attori del teatro di una guerra strisciante, civile ed economica, malgrado le tregue periodicamente dichiarate, che continua ad affliggere un paese praticamente diviso in tre parti (Tripolitania, Cirenaica, Fezzan). Dietro il mantenimento degli accordi con i libici si cela uno dei più grandi fallimenti della politica estera italiana, che non riesce a bloccare le partenze dei migranti, non garantisce la continuità della produzione e della commercializzazione del petrolio libico, ed al contempo è sempre più inserita nelle logiche di guerra che dilaniano il paese, sempre ostinatamente, dalla parte sbagliata. Dalla parte di chi non riconosce i diritti umani delle persone migranti e degli stessi libici, come è dimostrato dalla repressione violenta che segue ad ogni azione di protesta e dall’attacco all’ambasciata italiana a Tripoli. Ma si trattava di “proiettili vaganti”, almeno per certa stampa italiana.

Occorre prendere atto che dopo l’intervento nel 2020, a difesa di Tripoli, contro gli attacchi del generale Haftar. già sostenuto dagli egiziani e dai russi, la Turchia ha una posizione di predominio sulle politiche del governo di Tripoli, ed estende la sua influenza alle zone marittime di maggiore interesse commerciale. Il ruolo dell’Italia nel controllo della Marina militare e della Guardia costiera libica è ormai marginale, e si inserisce all’interno di rapporti di comunicazione che portano alla delega di respngimenti collettivi alle motovedette che partono dalle coste della Tripolitania, assai più di rado dalla Cirenaica. La Turchia ha ormai il coordinamento e cura la formazione della Guardia costiera libica, ed ha aperto una sua base navale nel porto di Khoms.

Sono finiti i tempi in cui il coordinamento della sedicente Guardia costiera libica veniva operato dalla plancia delle navi militari italiane di base nel porto militare di Tripoli (Abu Sittah), nel qudro della missione NAURAS. Per nascondere questa realtà e non fare arrivare migranti in Italia qualcuno ha ritenuto che era meglio allontanare le ONG dal Mediterraneo centrale, ad ogni costo e con tutti i mezzi, anche giudiziari, e questo ha avuto un costo umano che non si può neppure misurare.Ma soprattutto, mentre ci si accaniva nella “guerra” contro i soccorsi umanitari, guerra che con toni diversi prosegue ancora oggi, non si coglieva quanto stava succedendo in Libia, o si cercava di nasconderlo a tutti i costi.

7. Il caso El Hiblu e gli accordi bilaterali tra Malta e la Libia

I casi di respingimento collettivo in mare operati dalle autorità maltesi non si contano più e costituiscono la normale pratica di intervento della Marina maltese qyando interviene al di fuori delle proprie acque territoriali ma all’interno della zona SAR che si continua a riconoscere a questo Stato.

Dopo il caso del soccorso operato dalla nave commerciale El Hiblu tre ragazi, due dei quali minori all’epoca dei fatti, rimangono ancora in carcere a Malta, Come riferisce Amnesty International, “Il 28 marzo 2019, tre adolescenti richiedenti asilo, un ivoriano di 15 anni, e due guineani di 16 e 19 anni, sono stati arrestati al loro sbarco a Malta. Erano sospettati di avere dirottato la El Hiblu 1, una nave mercantile che li aveva soccorsi nel Mediterraneo centrale assieme a oltre un centinaio di altri rifugiati e migranti, per impedire che il capitano della nave li riportasse in Libia dove sarebbero stati riconsegnati alle autorità libiche. Le autorità di Malta hanno accusato i tre ragazzi di una serie di gravi reati, anche ai sensi della legislazione antiterrorismo, alcuni dei quali punibili con l’ergastolo. I tre hanno negato ogni addebito”. Un caso per certi versi simile al caso Vos Thalassa risolto con una sentenza di assoluzione dalla Corte di Cassazione pochi mesi fa. I tre giovani naufraghi si erano ribellati rispetto alla minacia, indotta dalle autorità maltesi, di essere riportati in Libia dalla stessa nave che li aveva soccorsi. Nel corso di questo processo si sono verificate gravi lesioni dei diritti di difesa e si è avuta la misura del trattamento che le autorità maltesi riservano ai naufraghi dopo lo sbarco nel loro territorio, quando vengono accusati di un reato.

Come riferiva Giacomo Zandonini su Repubblica,basandosi su registrazioni radio e su numerose testimonianze, in primis quella del guineano Abdalla Bari, il maggiore dei tre, il magazine statunitense The Atavist ha messo in evidenza due aspetti sfuggiti alle cronache del momento. In primo luogo, il ruolo attivo dell’Unione Europea che, tramite un aereo dell’operazione Sophia/Eunavfor Med, avrebbe richiesto alla El Hiblu di soccorrere i naufraghi, indicando poi di sbarcarli a Tripoli. “Stiamo cooperando con la Guardia Costiera libica, ci dicono di dirvi che potete portare le persone a Tripoli”, riporta una delle registrazioni della radio di bordo del mercantile, in dialogo con il personale militare europeo”.

Gli accordi di cooperazione operativa che ha stipulato Malta con il governo di Tripoli non permette di considerare questa città/stato come un porto sicuro di sbarco per i migranti soccorsi nella vastissima zona SAR che si continua a riconoscere per ragioni storiche e commerciali a queto piccolissimo Stato, comunque appartenente all’Unione Europea.

Il governo maltese ha stretto da tempo accordi (MoU) che prevedono l’ingresso delle motovedette libiche nella sua vasta zona SAR e non accetta i naufraghi soccorsi dalle ONG in acque internazionali, garantendo loro un porto di sbarco sicuro. Come sarebbe obbligato a fare in base alle Convenzioni internazionali, in quanto Stato resposabile della zona SAR che gli viene riconosciuta. Lo stesso governo omette sistematicamente le attività di coordinamento delle attività SAR in questa vasta zona ch,e per ragioni storiche e storiche, si è attribuita da tempo, ed ha anche utilizzato mezzi privati con base a Malta per effettuare respingimenti in Libia, come è emrso drammaticamente nel 2020 in occasione della strage di Pasquetta. Le inchieste giornalistiche hanno svelato che anche in occasione di quella strage erano coinvolti personaggi legati ad organizzazioni criminali che agivano in acque internazionali operando respingimenti collettivi per conto del governo. Persino il difensore dei diritti umani nominato all’interno dell’agenzia FRONTEX ha criticato severamente queste prassi. Eppure il governo italiano continua a ritenere che le ONG che operano soccorsi nella zona SAR maltese debbano rivolgersi a La Valletta per la indicazione di un porto di sbarco sicuro.

Una situazione di emergenza in mare tra il 12 e il 13 maggio di quest’anno ha dimostrato come le autorità maltesi lascino navigare attraverso la propria zona SAR senza intervenire barche non idonee alla navigazione in modo che i rifugiati vengano soccorsi molto più tardi dalle aurorità italiane o anneghino a seguito del rovesciamento della loro imbarcazione. Il funzionario ad interim per i diritti fondamentali di Frontex ha avuto su questo punto parole più chiare rispetto al suo predecessore, sostituito dopo le dimissioni del Direttore generale Fabrice Legeri a seguito di una inchiesta del Nucleo Antifrode del Parlamento europeo (OLAF) su Frontex.

L’aereo “Eagle 1”, operante nell’ambito del servizio di sorveglianza aerea multiuso (MAS) per conto di Frontex, aveva individuato una barca di legno con 24 occupanti e l’aveva segnalata al centro di controllo dei soccorsi responsabile a Malta. La vicina petroliera “Ross Sea” avrebbe potuto imbarcare le persone, ma la guardia costiera maltese ha ricevuto l’ordine di attendere. Questo è ciò che l’organizzazione di soccorso in mare Sea-Eye ha riportato su Twitter dopo che la sua nave “Sea-Eye 4” è entrata in contatto con la petroliera battente bandiera di Singapore e ha fatto rotta verso il barcone. I naufraghi sono stati poi presi a bordo dagli operatori umanitari. Secondo le persone a bordo, erano già in mare da quattro giorni.

Sembra ormai chiaro che, per la assegnazione di un porto di sbarco sicuro, non ci si può affidare alle autorità maltesi, capaci persino di respingimenti diretti verso la Libia Non si vede davvero come il governo italiano possa percorrere ancora la strada dell’alleanza con Malta, Cipro e la Grecia, per rinegoziare un “codice di condotta” per le ONG, sul modello del Codice Minniti del 2017, la redistribuzione in Europa dei richiedenti asilo giunti attraverso il Mediterraneo e per imporre ai comandanti delle navi soccorritrici di sbarcare i naufraghi in uno Stato che non li accetta e che non è in grado di garatntire per tutti un place of safety (POS).

8. Gli accordi bilaterali dell’Italia con la Tunisia, ed i respingimenti collettivi dal caso Sarost ad oggi

Tre imbarcazioni rovesciate in tre giorni, sempre nello stesso punto, sulla rotta tra Sfax e Lampedusa, quasi a metà, non certo “davanti Lampedusa”, come scrivono alcuni giornali, dimostrano che il coordinamento degli Stati costieri imposto dalla normativa SAR e richiamato anche dai più recenti documenti dell’UNHCR non funziona, e che le modalità di soccorso non garantiscono la salvaguardia della vita umana in mare. Lunedì 5 novembre si è verificata ,sempre nello stesso punto di mare, sulla rotta tra Sfax e Lampedusa, la terza tragedia in tre giorni, con la perdita di altre vite umane, tra cui quelle di donne e bambini.

Come scrive Sergio Scandura, corispondente di Radio Radicale a Catania, “Il dramma alle 6 del mattino (del 5 dicembre) quando l’imbarcazione, partita ieri sera da Sfax, ha incominciato a imbarcare acqua in eccesso fino all’affondamento. 4 superstiti avrebbero legami familiari coi dispersi. Un cardiopatico e una donna incinta di 4 mesi tra gli ospedalizzati”.

Si dovrà indagare a fondo non soltanto per verificare la presenza di eventuali scafisti, quanto piuttosto per accertare come mai in tre soli giorni si sono ripetuti tre naufragi dalle caratteristiche tanto simili, nella stesa zona. Di certo i tunisini ,se intervengono in alto mare ad intercettare barconi carichi di migranti, non usano procedure conformi alle Convenzioni interazionali sui soccorsi in mare, arrivando a rimorchiare verso terra imbarcazioni stracariche di persone a continuo rischio di ribaltamento.

Non si sa quale ruolo abbia giocato la Guardia costiera tunisina, mancano comunicati ufficiali, la materia viene trattata come segreto militare. Si conferma però che la rotta tunisina viene battuta da migranti di provenienza subsahariana, probabilmente come effetto del rafforzamento delle capacità di intervento dei guardiacoste libici, dopo il rinnovo del Memorandum d’intesa Gentiloni-Minniti del 2017 e dopo l’arrivo a Tripoli di altri finanziamenti da Roma e da Bruxelles.

Le più recenti tragedie confermano la letalità della rotta tunisina, che attraversa la zona SAR maltese in una zona tra la Tunisia, Pantelleria e Lampedusa che non è presidiata da nessuna autorità marittima statale.

La sorveglianza di Frontex si estende anche a questa zona, ma non risultano allarmi lanciati da questa agenzia su imbarcazioni che navigano in questa area nella quale si utilizzano barchini molto piccoli carichi oltre ogni limite di sicurezza. Imbarcazioni che dovrebbero essere dichiarate in distress, e quindi soccorse, fin dal momento del primo avvistamento. Da ultimo sembra che Frontex abbia ritirato il suo unico velivolo e che gli ultimi soccorsi siano stati gestiti con aerei di provenienza maltese.Forse dentro l’agenzia qualcuno teme che la denuncia presentata alla Corte Penale internazionale, per le attività di sorveglianza operate senza dare seguito a interventi di soccorso, posa estendersi anche agli eventi SAR più recenti verificati con tante vittime nel Mediterraneo centrale, sul quale era attiva una continua sorveglianza aerea di aerei e droni di Frontex. Naufragi.che certo non potranno essere qualificati dalle autorità italiane soltanto come “eventi di immigrazione irregolare”.

L’Italia ha concluso diversi accordi bilaterali con la Tunisia, ma mentre sono noti gli accordi di riammssione, resi pubblici attraverso la sentenza di condanna del nostro paese da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo sul caso Khlaifia, nel 2016, rimangono coperti da segreto militare gli accordi operativi con la Guardia costiera tunisina, che comunquen non va quasi mai oltre le 12 miglia dalla costa, perchè la zona SAR tunisina coincide con il limitato spazio (12 miglia dalla costa) delle acque territoriali. Malgrado i sistemi di controllo finanziati dall’Italia e dall’Unione Europea, le fughe dalle coste tunisine sono in continuo aumento.

La situazione a terra in Tunisia e sempre più condizionata dalle difficoltà politiche di un governo che si avvia a diventare regime, in un paese che non applica la Convenzione di Ginevra sui rifugiati che pure ha sottoscritto, non garantisce procedure eque di asilo e status legale a coloro che vengono riconosciuti come rifugiati, pratica respingimenti ed espulsioni verso paesi terzi che non rispettano i diritti umani (in violazione dell’art.33 della Convenzione di Ginevra).

La Tunisia non può essere dunque considerata un paese terzo sicuro in grado di garantire porti di sbarco sicuri (POS) alle persone soccorse in acque internazionali al di fuori delle proprie acque territoriali. Anche i Tribunali italiani, dopo i dinieghi delle Commissioni territoriali, riconoscono in diversi casi il diritto alla protezione a cittadini tunisini.

10, Gli accordi con l’Egitto ed i respingimenti collettivi con procedure semplificate

Le operazioni di riammissione tra Italia ed Egitto, con voli diretti da Catania e da Roma al Cairo, erano rese possibili dall’accordo di collaborazione firmato proprio nel gennaio del 2007 dal governo italiano, in persona del sottosegretario agli esteri Intini e alla presenza del viceministro all’interno Lucidi, accordo che, in cambio di qualche migliaio di posti riservati ai lavoratori egiziani nelle quote ammesse annualmente con i decreti flussi, consentiva forme di attribuzione della nazionalità, se non della identità personale e dell’età, assai celeri, grazie anche alla collaborazione di funzionari e interpreti egiziani presenti in Italia. Già nel 2005, peraltro, tra il governo italiano e quello egiziano esisteva un “Accordo di cooperazione in materia di flussi migratori bilaterali per motivi di lavoro”, siglato al Cairo il 28 novembre 2005 dall’ allora ministro del lavoro Roberto Maroni. Nel testo dell’accordo si prevedeva che i due governi, al fine di “gestire in modo efficiente i flussi migratori e prevenire la migrazione illegale”, si impegnano a facilitare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoratori migranti da e per l’Egitto. Il governo italiano, dal canto suo, si impegnava a valutare l’attribuzione di una speciale quota annuale per lavoratori migranti egiziani. Nel protocollo esecutivo si legge che il ministero del Lavoro e delle politiche sociali italiano comunicheranno all’omologo egiziano i criteri, ai sensi della normativa italiana, per redigere una lista di lavoratori egiziani disponibili a svolgere un’attività lavorativa subordinata anche stagionale in Italia. La lista dovrà essere pubblicata sul sito web del ministero del Lavoro italiano”.

I rapporti con l’Egitto hanno dimostrato nel corso del tempo il fallimento delle politiche basate sulla cd. condizionalità migratoria e mentre non si sono visti arrivare i lavoratori egiziani che avrebbero dovuto ottenere un visto di ingresso per l’Italia, anche per il sostanziale blocco dei decreti flussi annuali, si sono intensificate la pratche di collaborazione nei respingimenti collettivi, sulla base di identificazioni operate con procedure semplificate, che hanno lasciato alla polizia egiziana, dopo il rimpatrio, con i noti mezzi di persuasione di cui dispone, la esatta assegnazione individuale della identità personale.

La piattaforma per i rifugiati (RPE) in Egitto ha recentemente pubblicato un documento in cui critica il sostegno europeo alle politiche di controllo di frontiera attuate dall’Egitto.

Il documento conferma tutte le preoccupazioni delle Organizzazioni non governative sulla situazione dei richiedenti asilo in Egitto. Malgrado queste posizioni critiche il governo italiano mantiene ancora accordi di collaborazione con le autorità italiane, sia sul fronte della prevenzione delle partenze, che sulle procedure di rimpatrio con accompagnamento forzato. E l’Unione Europea ha sottoscritto lo scorso novembre un accordo con l’ Egitto, che prevede lo stanziamento di 80 milioni di euro da parte di Bruxelles per un programma di “gestione delle frontiere”. 

Conclusioni

La Convenzione Sar di Amburgo del 1979 si fonda sul principio della cooperazione internazionale. Le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite d’intesa con gli altri Stati interessati. Tali zone non corrispondono necessariamente alle frontiere marittime esistenti, nè costituiscono spazi di sovranità. Sono piuttosto aree di responsabilità da condividere con quella degli Stati costieri limitrofi. Esiste l’obbligo di approntare piani operativi come il Piano nazionale SAR, che prevedono le varie tipologie d’emergenza e le competenze dei centri preposti. L’obbligo di ricerca e soccorso a carico delle autorità statali  ricorre anche nel caso in cui tali attività debbano essere svolte al di fuori della zona Sar di competenza, laddove l’autorità dello stato che sarebbe, invece, competente in base alla delimitazione convenzionale delle zone Sar non intervenga, o non risponda entro un tempo ragionevole. Sarà l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio. In ogni caso deve prevalere la salvaguardia della vita umana in mare. Nel rispetto del principio di non respingimento e del divieto di trattamenti inumani o degradanti, tutti principi cogenti che le autorità statali non possono derogare.

Gli Stati di bandiera non possono ritenersi competenti a coordinare operazioni di ricerca e salvataggio a migliaia di chilometri di distanza dalla sede delle Centrali operative di coordinamento (MRCC) delle zone SAR in cui si trovano le imbarcazioni a rischio di affondare. Non sembra neppure che i governi possano applicare il diritto internazionale del mare in materia di salvaguardia della vita umana ed il diritto dei rifugiati a seconda della appartenenza della nave soccorritrice, in ipotesi ad una ONG, o a un vettore commerciale, o a seconda della diversa nazionalità del suo armatore.

Il salvataggio delle vite in mare costituisce un dovere degli Stati e prevale sulle norme e sugli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali di diritto del mare [2] cui l’Italia ha aderito costituiscono infatti un limite alla potestà legislativa dello Stato ai sensi degli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione e non possono pertanto costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica e dei conseguenti indirizzi delle autorità amministrative e militari. Come ricorda anche la Corte di cassazione con la sentenza del 16/20 gennaio 2020 “è utile richiamare la Risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”. Nessuno stato, avvertito di un evento di soccorso di persone in situazione di pericolo in alto mare, può dunque rifiutare il coordinamento delle prime fasi delle attività SAR, o attendere dopo i primi soccorsi l’esito di trattative con altri stati, ad esempio con lo stato di bandiera della nave soccorritrice, allo scopo di “scaricare” su quest’ultimo l’onere dello sbarco a terra dei naufraghi,

Sul piano nazionale, di fronte al prevedibile inasprimento del regime normativo e delle prassi operative in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare e di sorveglianza delle frontiere marittime, occorre salvaguardare l’attività di ricerca e salvataggio delle organizzazioni non governative, contrastando il possibile ritorno di qualsiasi tentativo di criminalizzazione, ma evitando anche che queste assumano un ruolo di supplenza rispetto agli interventi delle autorità statali. La comunicazione su questi temi deve andare oltre un generico umanitarismo e deve denunciare inadempienze e ritardi degli Stati, non solo dell’Unione Europea, e delle autorità preposte ai soccorsi, che possono costare altre vite umane.

A livello europeo occorre ritornare alla piena applicazione del Regolamento n. 656 del 2014, che privilegiava gli obblighi di salvaguardia della vita umana in mare e il principio di non respingimento. Dopo le dimissioni del suo Direttore Fabrice Legeri,che hanno evitato un procedimento a suo carico, occorre individuare un nuovo ruolo per l’Agenzia Frontex che sia sia orientato alla prevalente salvaguardia della vita umana in mare rispetto alla collaborazione con autorità di paesi terzi che non rispettino i diritti umani e verso i quali ancora oggi possono essere deportate le persone intercettate o avvistate in acque internazionali, proprio con l’aiuto degli aerei e dei droni di Frontex. Bisogna piuttosto avviare piani immediati di evacuazione dei migranti vulnerabili intrappolati in Libia, con una equa distribuzione tra diversi paesi europei. Il nuovo Piano europeo sulle migrazioni, che si discuterà nei prosimi giorni a Bruxelles, va purtroppo in una direzione opposta.

Gli interventi di ricerca e salvataggio vanno fortemente rafforzati con modalità analoghe a quelle già messe in atto nel 2014 con l’operazione Mare Nostrum, quindi con una collaborazione tra Marina, Guardia Costiera e Guardia di Finanza, sostenuta da unità europee di Frontex e della missione Eunavfor Med, anche in acque internazionali, al di fuori delle nostre acque territoriali, e anche in quelle aree più vaste ricadenti nella zona Sar maltese. Va salvaguardato il ruolo complementare delle navi di soccorso delle ONG, senza che queste assumano però una funzione di sostituzione dei mezzi di salvataggio pubblici. Vanno garantiti tempestivi interventi di soccorso in quella zona di acque internazionali a nord della Tunisia e della Libia ,nelle quali è evidente che le autorità di La Valletta e quelle di Tripoli, come quelle tunisine, non soltanto non hanno numericamente i mezzi, ma non hanno neanche la volontà politica e la capacità tecnica di far arrivare in tempo utile unità di soccorso a seguito di chiamate di persone che rischiano di perdere la vita in mare.

Non si può permettere che la discrezionalità delle scelte politiche, magari per rendere conto ai propri elettorati dopo una campagna basata su slogan ad effetto, possa comportare la violazione di obblighi imperativi stabiliti dalle Convenzioni internazionali, da normative europee e da norme di diritto interno, che impongono di salvaguardare la vita umana in mare, nel rispetto del principio di non respingimento, anche a scapito della difesa dei confini o della lotta all’immigrazione illegale, e sanzionano l’abbandono in mare, l’omissione di soccorso, i respingimenti collettivi o il rinvio verso paesi che non garantiscono un effettivo rispetto dei diritti umani. Perché delle tante vite umane che si perdono nelle acque del Mediterraneo e nei centri di detenzione in Libia, prima o poi, qualcuno dovrà risponderne.

Il Piano d’urgenza approvato a fine novembre dalla Commissione europea per evitare altre crisi come quella della Ocean Voking non può essere ritenuto sufficiente, anche se snentisce l’assunto italiano che lo sbarco dei naufraghi va effettuato nel paese di bandiera della nave soccorritrice, nel solo caso, ovviamente, in cui questa appartenga al soccorso civile operate dalle ONG. Ma rimane assai difficile che l’Unione Europea vada oltre, con un impegno diretto nel Mediterraneo centrale, a fronte della rinnovata crisi dei profughi ucraini e degli arrivi sempre più massicci attraverso la rotta balcanica.

Non sono le ONG ad avere gli stessi interessi degli scafisti. ed è troppo facile attribuire tutte le colpe dei naufragi ai trafficanti o agli scafisti, quando sono le politiche migratorie degli Stati e le attività di contrasto dell’immigrazione “clandestina”, inclusi gli accordi bilaterali con gli Stati terzi, e le prassi di polizia marittima che ne derivano, che determinano tutte le condizioni, come il ritiro dei mezzi di soccorso dalle acque internazionali, ed il mantenimento di estese zone SAR nelle quali non si riesce a praticare un soccorso tempestivo, che producono un aumento esponenziale delle vittime. Sarebbe davvero tempo che si ritorni ad organizzare il coordinamento dei soccorsi statali in acque internazionali piuttosto che continuare a distribuire fake news per mantenere il consenso elettorale conquistato con la guerra ai soccorsi operati dalle odiate ONG.