di Daniela Padoan
In data 8 febbraio il ministro dell’Interno Marco Minniti ha presentato in una prima audizione in Parlamento, alle commissioni Affari Costituzionali riunite di Camera e Senato, il suo “piano per la sicurezza”, di cui abbiamo già lungamente accennato e sul quale da quasi un mese si attendevano informazioni ufficiali. Due giorni dopo, al Consiglio dei Ministri, queste misure sono state presentate sotto forma di Decreti Legge. Daniela Padoan pone le domande che in molti vorremmo forse rivolgere a chi ci governa. E insieme alle domande fornisce dati certificabili che dovrebbero far ragionare chi non si rassegna alle logiche emergenziali ma cerca semplicemente di comprendere alcune ragioni e di proporre soluzioni.
L’ultima rilevazione periodica sul clima politico e sugli orientamenti elettorali realizzata da Demos per il quotidiano “La Repubblica” dice che per il 40% degli italiani l’immigrazione costituisce un pericolo per l’ordine pubblico e per la sicurezza delle persone. Un dato così alto non si registrava dal periodo a cavallo tra 2007 e 2008, quando politica e media imposero l’immagine dell’invasione sulle coste italiane e il binomio migrazione-criminalità, calcando su episodi di violenza, veri o presunti, con protagonisti cittadini stranieri, pur in assenza di significative variazioni nel numero complessivo di reati. Proprio nello stesso periodo, allora come adesso, veniva firmato un accordo che prevedeva l’avvio di pattugliamenti congiunti italo-libici da effettuarsi in acque libiche, con l’obiettivo di respingere verso i porti di partenza i migranti fermati in mare. Si trattava del secondo accordo – firmato il 29 dicembre 2007 dal governo Prodi – dopo quello del 2003 firmato dal governo Berlusconi, che prevedeva l’invio di mezzi di pattugliamento in Libia e fondi per la costruzione di due campi di detenzione per i profughi, uno a Kufrah e l’altro a Gharyan. Vale allora la pena di esaminare i numeri reali degli sbarchi e della presenza degli stranieri in Italia.
Gli sbarchi in Italia
Lo scorso anno, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), 362.376 persone hanno attraversato il Mar Mediterraneo, facendo registrare un calo del 64% rispetto al 2015, quando giunsero complessivamente 1.015.078 migranti e profughi.
Di queste, 181.436 sono giunte lungo la rotta del Mediterraneo centrale, che riguarda soprattutto l’Italia e – in misura molto minore – Malta. La grande maggioranza viene dall’Africa sub-sahariana (Nigeria, Eritrea, Guinea, Costa d’Avorio, Gambia), mentre è in netta diminuzione l’arrivo di cittadini siriani: dai 42.323 del 2014 si è passati ai 7.448 del 2015 e ai 1.200 del 2016, perlopiù, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), profughi sfollati in Egitto e Giordania.
Su 181.436 migranti giunti in Italia, 24.133 sono state le donne e 25.846 i minori non accompagnati o separati dai genitori, oltre il 90 di tutti i bambini e ragazzi non ancora maggiorenni giunti in Italia. Il numero di questi minori è aumentato del 132% rispetto all’anno precedente: 25.846 nel 2016, 11.154 nel 2015.
Gli arrivi complessivi in Italia, avverte Frontex, l’agenzia europea per la gestione delle frontiere esterne dell’Unione, nel 2016 sono cresciuti del 20%. Occorre però considerare che nel 2016 gli arrivi in Grecia sono crollati del 79%. Il fenomeno si è registrato a partire da ottobre – con 27.384 arrivi contro gli 8.915 dell’ottobre 2015 e i 15.264 del 2014 – in coincidenza con la chiusura della rotta balcanica e l’applicazione dell’accordo UE-Turchia.
In assenza di alternative, le persone che cercano di raggiungere l’Europa passano per la via più pericolosa, quella del Mediterraneo centrale, dove, per giunta, le attività di ricerca e salvataggio sono state notevolmente ridotte. Un’evidenza che si è tradotta nel macroscopico numero di 240 morti in mare solo nei primi quindici giorni del 2017, a fronte di 2.000 arrivi.
Gli arrivi di gennaio 2017 in Italia lungo la rotta del Mediterraneo centrale sono stati inferiori allo scorso anno (4.463 contro i 5.273 del 2016), ben lontani dall’immagine di “invasione” veicolata da politici e media.
Nei primi giorni di febbraio, gli arrivi registrati sono stati 3.805 contro i 3.829 del 2016, ai quali vanno aggiunti gli sbarchi di naufraghi raccolti nel Canale di Sicilia, che hanno portato in Italia più di 1.600 profughi. Un aumento concomitante alle decisioni europee di fermare le partenze dai porti libici.
La differenza davvero preoccupante riguarda i morti in mare: nel 2017 (dato OIM al 2 febbraio) sono già 254, contro i 90 registrati nello stesso periodo del 2016: un numero quasi triplicato.
Nessuno può dire l’esatto numero dei dispersi, in una situazione sempre meno trasparente riguardo alle notizie sugli incidenti in mare. Nei primi giorni del 2017, la Guardia costiera libica – addestrata dall’Italia nell’ambito dell’operazione navale Eunavfor Med-Operazione Sophia, voluta dall’UE contrastare i trafficanti di esseri umani in Libia – ha sparato su un’imbarcazione di profughi causando la morte di due persone, calpestate nel panico che si è creato a bordo. A dirlo, solo un tweet dell’equipaggio di Medici Senza Frontiere presente nelle acque internazionali prospicienti la Libia, perché sempre più cala il silenzio sui naufragi, mentre gli operatori delle navi umanitarie vengono minacciati e intimiditi.
La provenienza dei profughi
Secondo i dati del Rapporto mensile dell’UNHCR sugli arrivi nel Mediterraneo, la comunità principale dei cittadini sbarcati in Italia nel 2016 è quella nigeriana: 37.551 profughi, il 21 per cento del totale, di cui 1.700 sono donne e bambini, 3.040 i minori non accompagnati. Si tratta di quei cittadini «in posizione irregolare» che un telegramma urgente della Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere del Viminale – diramato alle questure italiane lo scorso 26 gennaio – chiede di rintracciare su tutto il territorio nazionale per riempire un volo charter previsto entro il mese per la Nigeria, dando così avvio a retate e espulsioni collettive su base etnica. Poco importa che scappino da un paese che da dieci anni è sconvolto dalla rivolta dei ribelli jihadisti del gruppo di Boko Haram, che ha causato oltre 17 mila morti e costretto alla fuga 2,6 milioni di persone – tra sfollati interni e profughi oltreconfine.
Gli eritrei in fuga dal regime di Afewerki sono stati il secondo gruppo per rilevanza numerica a giungere in Italia nel 2016: 20.718 persone che costituiscono l’11 per cento degli arrivi, di cui fanno parte 3.832 minori non accompagnati.
Seguono Guinea, Costa d’Avorio e Gambia.
Dal Gambia, dove il dittatore Yhaya Jammeh – al potere dal 1994 e costretto alla fuga solo lo scorso 20 gennaio – aveva messo a tacere le opposizioni con carcerazioni illegali, scomparse, torture e uccisioni, sono giunti in Italia 12.000 profughi su una popolazione di meno di 2 milioni di persone.
Secondo il rapporto, è in netta diminuzione l’arrivo di cittadini siriani: dai 42.323 del 2014 ai 7.448 del 2015 e ai 1.200 del 2016, perlopiù, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), profughi sfollati in Egitto e Giordania.
Su 181.436 migranti giunti in Italia, 24.133 sono state le donne e 25.846 i minori non accompagnati o separati dai genitori, oltre il 90 di tutti i bambini e ragazzi non ancora maggiorenni giunti in Italia. Il numero di questi minori è aumentato del 132% rispetto all’anno precedente: 25.846 nel 2016, 11.154 nel 2015.
Gli stranieri in Italia e i nuovi italiani
La fotografia statistica a fine 2015 in Italia registra 5.026.153 cittadini stranieri residenti (dati Istat), molti dei quali residenti da più di cinque anni, con un’incidenza dell’8,3 sul totale della popolazione.
Le prime dieci collettività provengono da Romania (22,9%), Albania (9,%), Marocco (8,7%), Cina (5,4%), Ucraina (4,6%), Filippine (3,3%), India (3,0%), Moldavia (2,8%), Bangladesh (2,4%), Egitto (2,2%), smentendo l’idea di una dilagante presenza di africani indotta da una martellante propaganda razzista.
Secondo i dati del Ministero dell’Interno, al 1° gennaio 2016 erano regolarmente presenti in Italia 3.931.133 cittadini non comunitari, un numero sostanzialmente stabile rispetto all’anno precedente. Continuano a crescere i soggiornanti di lungo periodo, che passano da 2.248.747 (56,3 sul totale) nel 2015 a 2.338.435 nel 2016 e rappresentano il 59,5 dei cittadini non comunitari regolarmente presenti.
Anche la progressiva acquisizione della cittadinanza italiana porta a una riduzione del numero di “stranieri”. Solo tra i non comunitari le acquisizioni sono passate da meno di 50 mila nel 2011 a quasi 159 mila nel 2015, da parte soprattutto di albanesi (35.134) e marocchini (32.448) che insieme rappresentano oltre il 42 delle acquisizioni. Tra il 2014 e il 2015 sono diminuite le acquisizioni per matrimonio, dal 14 al 9 (per le donne si passa dal 25 al 16). Il 42 di coloro che hanno acquisito la cittadinanza italiana nel 2015 ha meno di vent’anni; tra questi cresce il numero di chi acquisisce la cittadinanza per trasmissione dai genitori o perché, nato in Italia, al compimento del diciottesimo anno di età sceglie la cittadinanza italiana: da circa 10 mila nel 2011 a oltre 66 mila nel 2015.
Prosegue la flessione del numero di nuovi permessi di soggiorno concessi. Durante il 2015 ne sono stati rilasciati 238.936, il 3,9 in meno rispetto al 2014. Tale diminuzione ha interessato in misura maggiore le donne (-4,8 contro il -3 degli uomini). La flessione riguarda in particolare gli ingressi per motivi di lavoro (-35.312, pari al -62). Se nel 2014 rappresentavano il 23 dei nuovi ingressi, nel 2015 sono scesi al 9. Continua invece a ritmi sostenuti la crescita dei permessi per asilo e protezione umanitaria (+19.398 ingressi, pari a +40,5) che nel 2015 arrivano a rappresentare il 28,2 dei nuovi ingressi (19,3 nel 2014, 7,5 nel 2013). I principali paesi di cittadinanza delle persone in cerca di asilo e protezione internazionale sono Nigeria, Pakistan e Gambia che insieme coprono il 43,8 dei flussi in ingresso per questa motivazione.
Bisogna poi considerare che più di 800mila persone nate e cresciute in Italia non sono italiani a causa di una legge ingiusta che impone ai bambini la cittadinanza dei genitori e che 45.000 cittadini italiani di origine straniera sono emigrati all’estero.
Nel 2015, a 64.000 persone non è stato rinnovato il permesso di soggiorno, mentre i ritorni assistiti sono stati 3.697 tra i 2009 e il 2015.
Sono 2.425.000 le famiglie con almeno un componente straniero, in tre quarti dei casi composte esclusivamente da stranieri. Sono 72.000 i nuovi nati da genitori entrambi stranieri, circa un settimo di tutte le nascite dell’anno.
Complessivamente, gli stranieri in Italia sono l’8,3% della popolazione totale, ha spiegato il 9 novembre 2016 il presidente dell’Istat Giorgio Alleva nel corso di un’audizione davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza, identificazione ed espulsione. Ogni anno si registra un numero crescente di persone che ogni anno da straniere diventano italiane (178.000 nel 2015). La composizione per genere della popolazione straniera è equilibrata, con un lieve vantaggio femminile (le donne sono il 51,4 %). I dati mostrano una sostanziale stabilità del fenomeno. Dal 1998, risultavano poco meno di un milione gli stranieri residenti in Italia, nel 2015 il numero è quasi quintuplicato in conseguenza sia delle migrazioni, sia dei nuovi nati da genitori entrambi stranieri, le cosiddette seconde generazioni: più di 70.000 all’anno.
D’altra parte l’Italia è un paese colpito da una contrazione demografica, dove i decessi cominciano a superare le nascite. Da anni la popolazione italiana è in calo, con un saldo netto complessivo di -130mila persone nel 2015 e di -142.000 per quanto riguarda la sola componente italiana, mentre per gli stranieri il saldo è stato di + 12.000 unità. Un perfetto bilanciamento, se si tiene conto che nel periodo 2011-2065, nello scenario ritenuto più probabile delle proiezioni demografiche curate dall’Istat, la dinamica naturale in Italia sarà negativa per 11,5 milioni (28,5 milioni di nascite contro 40 milioni di decessi) e quella migratoria sarà positiva per 12 milioni (17,9 milioni di ingressi contro 5,9 milioni di uscite).
Rimpatri e riammissioni
Nel 2015, a 64.000 persone non è stato rinnovato il permesso di soggiorno, mentre –tra il 2009 e il 2015 – i ritorni assistiti sono stati 3.697.
Nel 2015, nei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) sono state trattenute 5.242 persone, di cui 2.746 sono state rimpatriate. Nel 2014 sono state trattenute 4.986 persone, di cui 2.771 rimpatriate. Nel 2013 sono state trattenute 6.016 persone, di cui 2.749 rimpatriate. Nei primi 9 mesi del 2016, nei CIE sono entrate 2.000 persone, di cui rimpatriate 876 (762 da Milano).
Nel corso di un’audizione alla Camera del 20 gennaio 2016, il Capo della Polizia Alessandro Pansa ha affermato che nel 2015 su 34.107 stranieri sottoposti a provvedimento di espulsione, 15.979 sono stati effettivamente allontanati dal territorio italiano (circa il 46 per cento) mentre 18.128 non hanno mai lasciato il paese.
«Dal 1996 l’Italia ha iniziato a stipulare accordi bilaterali finalizzati alla riammissione nei territori di provenienza o di transito di immigrati illegali ed alla cooperazione tra forze di polizia, a cui vanno aggiunti gli accordi relativi al controllo dell’immigrazione e delle frontiere», si legge nel rapporto sui CIE della Commissione diritti umani del Senato. «L’obbligo di riammissione riguarda le persone che non soddisfano (o non soddisfano più) le condizioni di ingresso e soggiorno negli Stati contraenti secondo procedure diversificate a seconda degli accordi. Sono state formalizzate intese con l’Egitto nel 2007 e con la Tunisia nel 2011, e più recentemente con la Nigeria e il Marocco. Peraltro non risultano significativi i risultati evidenziati dai dati sui voli di rimpatrio dell’agenzia Frontex in quanto da settembre a dicembre 2015 l’Italia ha rimpatriato 153 persone con voli organizzati in via bilaterale verso l’Egitto e la Tunisia, e 137 persone verso la Nigeria attraverso voli congiunti con gli altri Stati membri attraverso Frontex».
I numeri dell’asilo in Italia
Negli ultimi anni, la pressione migratoria in Italia è diminuita, come in tutta Europa, mentre è aumentata in maniera esponenziale quella dei richiedenti asilo, anche perché la richiesta di asilo o di qualsiasi forma di protezione umanitaria è il solo modo per poter entrare in Europa. Nel 2016 in Italia sono state presentate 123.600 domande di asilo, con una crescita percentuale netta rispetto agli anni precedenti, quando la prosecuzione del viaggio verso il Nord Europa era meno difficile. Secondo i dati del Viminale, erano state 26mila nel 2013, 64.000 del 2014, 83.000 nel 2015. I dati di gennaio 2017 indicano un ulteriore aumento del 41% rispetto allo stesso mese del 2016.[1]
Delle 123.600 domande di asilo del 2016, 11.656 sono state presentate da minori.[2]
A gestire le istanze sono state 20 commissioni territoriali per l’asilo, cui si sono aggiunte 28 sezioni, solo 6 delle quali con presidente a tempo pieno. Ogni commissione costa 314.000 euro l’anno.
I tempi medi di esame delle richieste nel periodo 2014-2016 sono stati di 257 giorni, «con una tendenza all’accelerazione» che ha portato dai 347 giorni del 2014 ai 261 del 2015 e ai 163 del 2016, facendo diventare l’Italia «il secondo paese europeo, dopo la Germania, per numero di pratiche esaminate».[3]
A conclusione dell’iter, lo status di rifugiato è stato concesso per il 5% delle domande esaminate. Al 14% dei richiedenti è stata accordata la protezione sussidiaria, e al 21% la protezione umanitaria. Per quasi il 60% dei cittadini richiedenti c’è stato il diniego.
Quali sono i criteri in base ai quali le commissioni prendono decisioni da cui dipendono le sorti, le speranze, la vita stessa di esseri umani non è dato sapere; chiara invece è la difficoltà in cui si trova il richiedente asilo, specie se con scarsa o nulla conoscenza dell’inglese, di fronte a questionari da compilare e a colloqui da sostenere spesso in una lingua non sua, e la difficoltà ancora maggiore, di fronte a un diniego, di trovare un avvocato e presentare un ricorso.
La crescita dei dinieghi, che espone i richiedenti asilo al respingimento verso il paese da cui sono fuggiti o, più spesso, alla discesa nell’irregolarità, comporta una parallela crescita dei ricorsi. Dal 2014 al 2016 sono stati presentati 53.000 ricorsi contro il diniego dello status, il 18% dei quali definiti (con un 70% di ricorsi accolti) e l’81% pendenti.
É proprio quel 70% di ricorsi accolti che getta un’ombra sull’opera delle commissioni, apparentemente più preoccupate di “proteggere” lo Stato italiano che gli esseri umani in fuga – molto spesso – dalla violenza e dalla fame.
«Si stanno accentuando i problemi, dovuti soprattutto alla necessaria presenza di uomini delle forze di polizia, oberati da altri impegni» ha detto il prefetto Trovato. «Invece di fare 4-5 audizioni al giorno, si è scesi a 3. Nel 2017 si è registrato un calo del 10 per cento delle domande esaminate e ciò è preoccupante». Il prefetto ha parlato di un sistema «in sofferenza», con le commissioni che non riescono a esaminare un quantitativo eccessivo di richieste. I dati di gennaio 2017 indicano 5.600 domande esaminate, l’11 per cento in meno rispetto al gennaio 2016.
Il 7 gennaio 2017 è stata resa pubblica la Relazione del ministero di Giustizia contro le impugnazioni. Secondo il ministro Orlando, le impugnazioni in sede giurisdizionale contro i dinieghi delle domande d’asilo delle Commissioni territoriali amministrative sono troppi e in crescita esponenziale. La relazione contiene una sorta di “lista nera” delle Corti d’appello che detengono il primato dei ricorsi in esame: il Tribunale di Milano con circa 400 procedimenti iscritti al mese, quasi a pari merito con Torino, ma anche Catania, Ancona, Caltanissetta, Catanzaro, Cagliari e Firenze, aumentando del 300% i ricorsi rispetto al 2014.
Di fronte a questa situazione, anziché prendere provvedimenti per migliorare la funzionalità del sistema di asilo e di accoglienza, il nuovo governo, per bocca dell’appena insediato ministro dell’Interno Marco Minniti, ha parlato della riduzione a uno dei gradi di ricorso e appello contro la decisione della commissione territoriale di negare lo status di protezione internazionale.
Il dovere di rendere giustizia lascia il posto alla preoccupazione per l’intasamento delle Corti d’appello e, più ancora, alla necessità di mostrare risultati in termini di rimpatri e riammissioni alle istituzioni europee e a un’opinione pubblica sempre più sottoposta a sollecitazioni xenofobe.
Piano Minniti per la migrazione
La risposta contenuta nel piano presentato dal ministro dell’Interno Marco Minniti, ad oggi non ancora atto legislativo (si attende una seconda audizione delle Commissioni e poi si dovrà legiferare in materia), anziché andare nella direzione di un miglioramento del sistema dell’asilo e dell’accoglienza, prevede la riforma in senso restrittivo delle norme sul diritto di asilo, con l’eliminazione del secondo grado di giudizio, il raddoppio dei centri di espulsione (che saranno ribattezzati Centri di permanenza per i rimpatri), rastrellamenti e rimpatrio forzato degli “irregolari”, accordi bilaterali di riammissione con i paesi di origine e transito.
Il 30 dicembre 2016, Franco Gabrielli, capo del Dipartimento di PS, ha diramato una circolare urgente in cui si chiede alla Polizia di effettuare «attività di controllo straordinario per un’azione di prevenzione e contrasto a fronte di una crescente pressione migratoria e di uno scenario internazionale connotato da instabilità e minacce».
«Appare necessario – si legge – conferire massimo impulso all’attività di rintraccio dei cittadini di Paesi terzi in posizione irregolare, in particolare attraverso una specifica attività di controllo delle diverse Forze di Polizia. […] La Direzione Centrale per l’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere curerà il necessario raccordo con gli Uffici Immigrazione delle Questure per una pianificazione più specifica di tale attività di controllo straordinaria della presenza straniera in territorio nazionale, con riguardo, in particolare, all’assegnazione dei posti nei CIE. Analogo raccordo, per i profili di rispettiva competenza, avranno cura di assicurare gli Uffici dipartimentali interessati al fine di consentire alle iniziative assunte a livello territoriale di dispiegare piena efficacia tenuto anche conto della complessità e articolazione del dispositivo che, anche in ragione dell’eventuale numero degli stranieri rintracciati, può rivelarsi complesso e delicato sotto il profilo organizzativo e per i conseguenti riflessi sul piano dell’ordine e della sicurezza pubblica. Si confida nella consueta fattiva collaborazione».
Nel frattempo Minniti cuciva i rapporti tra Libia e Malta, nell’imminenza del vertice che si è tenuto il 3 febbraio a La Valletta. Le mosse italiane, maltesi, della Commissione europea e del Consiglio sembrano convergere su un’unica strategia perseguita passo passo: poiché non è fattibile l’assenso del Consiglio di sicurezza dell’ONU all’ingresso in acque libiche previsto nella seconda e terza fase dell’operazione Eunavfor Med, si addestra la Guardia costiera libica per operazioni staffetta. Le navi europee pattugliano il Canale di Sicilia fino alle acque libiche, dove la Guardia costiera libica prende in consegna i migranti e li riporta in Libia. A terra, i confini con Sudan e Ciad saranno pattugliati con l’aiuto italiano grazie al Memorandum d’intesa tra Italia e Tripoli. L’Italia sta facendo da apripista – in continuazione del processo di Rabat e Khartoum e del Forum dei paesi africani tenuto a Roma sotto il governo Renzi – alle politiche di esternalizzazione del respingimento e agli accordi europei con i paesi da cui i profughi cercano – a rischio della vita – di fuggire, dittature comprese.
Il ruolo dell’Italia nella politica di respingimento europea
Di fronte alle spinte nazionaliste e xenofobe e in vista delle numerose scadenze elettorali europee, la stretta delle politiche europee sui migranti è sempre più ferrea e si avvale della collaborazione dei due paesi più ricattabili a causa della situazione di bilancio, oltre che della posizione geografica: Grecia e Italia. Alla Grecia è stato fatto accettare obtorto collo l’accordo UE-Turchia, secondo il quale – in cambio di 6 miliardi di euro e della cancellazione dei visti d’ingresso nell’Unione – Ankara si impegna a fermare le partenze verso le isole dell’Egeo e a riprendere i migranti che arriveranno in Grecia. Più volonterosa l’Italia, anche in considerazione delle mire geopolitiche ed economiche del governo Renzi in Libia, e comunque sottoposta alla doppia pressione dovuta all’inasprimento dei controlli alle frontiere interne europee – con la sospensione di fatto della libertà di circolazione prevista dal Regolamento Schengen – e con l’imposizione dell’identificazione forzata dei migranti al fine di mantenere l’iniquo dispositivo del Regolamento di Dublino. L’Italia si è conquistata il ruolo di capofila negli accordi di riammissione con i paesi terzi che, in cambio di denaro e aiuti allo sviluppo, devono impegnarsi a bloccare la partenza dei migranti e a riprendere i propri cittadini, a costo di normalizzare le relazioni con quelle stesse dittature da cui migliaia di profughi fuggono ogni anno, spesso a rischio della vita. Ruolo svolto con solerzia dal governo Renzi durante il semestre di presidenza europeo dell’Unione con il processo di Khartoum, il Migration compact e i Memorandum d’intesa. Poco più di tre mesi dopo l’accordo UE-Turchia, la cui applicazione comporta la violazione della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei rifugiati, il governo italiano ha infatti presentato all’Unione una proposta che cerca di riprodurre la stessa collaborazione con i principali paesi africani di origine e transito dei migranti (a cominciare da Tunisia, Senegal, Ghana, Niger, Egitto e Costa d’Avorio) coniugandola a un programma di sviluppo per l’Africa (collaborazione che spesso si traduce in accresciute sofferenze per i migranti e guadagni per le élites al potere).
A governare gli accordi con i paesi terzi per conto dell’Unione sarà Frontex, recentemente sdoppiata e rifinanziata nel nuovo organismo denominato Guardia costiera e di frontiere europea. Stiamo parlando dell’agenzia che ha sparato contro le imbarcazioni di migranti nell’Egeo, «agendo in base alle regole d’ingaggio della Marina e della Polizia greca». Dell’agenzia presente negli hotspot italiani dove, secondo il rapporto pubblicato da Amnesty International il 3 novembre 2016, si verificano episodi di violenza e persino tortura per forzare migranti e rifugiati e rilasciare le impronte digitali. Dell’agenzia che, come denunciato dall’on. Erasmo Palazzotto nella Relazione di minoranza alla Commissione parlamentare d’inchiesta, presenzia al trattenimento di migranti nell’hotspot di Lampedusa, «senza che di tale trattenimento sia dato avviso alcuno all’autorità giudiziaria», dove «alcuni minori presenti da quasi un mese» riferiscono «di non aver ricevuto neanche un cambio di vestiti né sapone per poter lavare quelli già loro distribuiti» e dove «gli ospiti, anche minori, vivono in condizioni di promiscuità senza alcun controllo, per periodi prolungati, dai 25 ai 40-50 giorni, e questa situazione addirittura si prolunga per i minori stranieri non accompagnati».[4] Questa agenzia ha il mandato di coordinare con gli Stati membri il rimpatrio di cittadini afgani, anche minori non accompagnati, senza alcun accenno al loro superiore interesse, previsto in un accordo negoziato segretamente a settembre 2016.
Numerosi episodi dicono di una pericolosa militarizzazione nel Mediterraneo, un mare dove è presente la NATO ed è scomparso il soccorso umanitario, mentre le operazioni di ricerca e soccorso sono compiute con crescenti difficoltà dalle ONG e (ancora) dalla Guardia costiera italiana.
[1] Dati forniti dal prefetto Angelo Trovato, presidente della Commissione nazionale per il diritto di asilo, durante l’audizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sui migranti, 2 febbraio 2017.
[2] Relazione del prefetto Angelo Trovato, presidente della Commissione nazionale per il diritto di asilo del ministero dell’Interno, audito il 31 gennaio 2017 dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sui migranti.
[3] cit.
[4] Colloqui effettuati durante la visita della Commissione d’inchiesta del Senato a Lampedusa il 21 luglio 2016.