di Fulvio Vassallo Paleologo
1.Il recente golpe in Niger, dopo quelli che lo hanno preceduto in Sudan, in Chad, in Mali ed in Burkina Faso, se ha colpito direttamente il ruolo economico e militare della Francia in questi paesi, con l’ingresso di nuovi attori politici internazionali che si muovono dietro le giunte militari, ha intercettato i progetti politici dell’Unione Europea, ed ha reso evidente l’impraticabilità di soluzioni “nazionaliste”, come Il Piano Mattei per l’Africa, da mesi al centro della propaganda del governo Meloni. Non è facile prevedere le conseguenze dei diversi golpe che dal 2020 ad oggi hanno stravolto gli assetti politici e militari nel Sahel e nell’intera Africa subsahariana. Ed ancor meno prevedibili sono le conseguenze che deriveranno sul fronte degli arrivi di migranti in Europa. Alcuni dati certi si possono però individuare già adesso. L’andamento degli “sbarchi” appare più collegato alla situazione dei migranti nei paesi di transito ed alle condizioni meteo-marine, che non ad accordi, memorandum, o “intese tecniche” con i paesi di transito. La caccia “su scala globale” a trafficanti e scafisti si è rivelata l’ennesimo annuncio propagandistico, anche se si dà molta enfasi alla intensificazione dei controlli di polizia e agli arresti di presunti trafficanti ad opera delle autorità di polizia e di guardia costiera degli Stati con i quali l’Italia ha stipulato accordi bilaterali finalizzati al contrasto delle reti di trafficanti, e dunque dell’immigrazione “clandestina”. Ma le partenze non diminuiscono affatto, ed anzi, fino a quando il tempo lo permette, sono in continuo aumento.
Dopo la parata mediatica a Tunisi che a luglio ha portato alla (non) firma del Memorandum d’intesa Unione Europea -Tunisia, le conclusioni del Consiglio informale dei ministri degli esteri dell’Unione Europea del 31 agosto scorso mettono a nudo limiti e divisioni che rendono improbabile un intervento incisivo della stessa Unione Europea sui dossier più scottanti in materia economica e sul contrasto delle migrazioni. Dossier aperti da anni con paesi terzi che in Africa non sembrano più disponibili ad accettare l’obsoleto principio della “condizionalità “migratoria “(aiuti economici in cambio di um maggiore controllo delle migrazioni), lanciato da Sarkozy, proseguito da Macron e poi ribadito da Renzi nel 2014 con il Processo di Khartoum. Una coda avvelenata del neocolonialismo europeo in Africa. Una impostazione che ha destituito di credibilità la politica estera francese ed italiana, non solo sui dossier dell’immigrazione e dell’asilo, ma anche sul terreno degli accordi economici con i paesi terzi, con vicende alterne fino ai governi Gentiloni e Draghi, La debolezza europea su questi fronti si sta così traducendo in una crescente sudditanza rispetto all’alleato americano, che ormai utilizza i paesi europei, e tra questi l’Italia, per giocare in Africa il suo scontro globale con la Russia e con la Cina.
Al di là dell’esito ancora incerto della partita che si sta giocando, anche sul piano militare, in Africa, e non possiamo dimenticare le urla dal silenzio che arrivano dal Corno d’Africa e dalla Repubblica Centro-africana, alcuni dati sembrano certi. Le politiche europee ed italiane di esternalizzazione dei controlli di frontiera con il coinvolgimento di paesi terzi, ritenuti a torto sicuri, sono definitivamente fallite, gli arrivi delle persone che fuggono da aree geografiche sempre più instabili, per non parlare delle devastazioni ambientali, non sono diminuiti per effetto degli accordi bilaterali o multilaterali con i quali si è cercato di offrire aiuti economici in cambio di una maggiore collaborazione sulle attività di polizia per la sorveglianza delle frontiere. Dove peraltro la corruzione, i controlli mortali, se non gli abusi sulle persone migranti, si sono diffusi in maniera esponenziale, senza che alcuna autorità statale si dimostrasse in grado di fare rispettare i diritti fondamentali e le garanzie che dovrebbe assicurare a qualsiasi persona uno Stato democratico quando negozia con un paese terzo.
Gli accordi per bloccare le partenze hanno soltanto rafforzato autocrati impresentabili e regimi autoritari, e l’aumento della repressione, che in taluni paesi, come la Tunisia, ha assunto l’aspetto di una vera e propria pulizia etnica, ha aumentato, piuttosto che limitato, il numero delle persone in transito da quei paesi e costrette alla fuga. Anche quando le condizioni del mare rendevano probabile un naufragio. Non è servito a nulla, e non servirà a nulla, cedere motovedette ad autorità militari che sono in mano a gruppi di potere (milizie e tribù) condizionati dalle organizzazioni dei trafficanti, come in Libia, che ancora non riconoscono una unica autorità centrale, o non possono garantire comunque interventi di ricerca e soccorso nelle acque internazionali, come nel caso della Tunisia. Ed è ancora molto dubbio che i fondi stanziati dall’Unione Europea arrivino davvero al Presidente Saied che continua a praticare respingimenti collettivi illegali di migranti subsahariani.
Dove ci sono stati i colpi di Stato, seguiti generalmente dalla chiusura delle frontiere nazionali, si è registrato nell’immediato un calo delle persone migranti che riuscivano a passare da un paese all’altro, ma il sovvertimento militare e politico che ne è seguito ha messo a rischio tutti coloro che erano confinati in campi profughi che si sono venuti a trovare in una situazione di terra di nessuno. E nel medio periodo sono aumentate, e aumenteranno ancora, le persone in fuga verso il Mediterraneo. Per questa ragione oggi la prima richiesta da portare avanti, come ha avvertito anche l’OIM, è l’immediata evacuazione di tutte le persone intrappolate nei campi profughi in Sudan, in Niger ed in altri paesi africani, sempre più esposte alle violenze dei militari e delle bande paramilitari che ormai caratterizzano le guerre ibride che si stanno combattendo in Africa. Ma si dovrebbe chiedere l’evacuazione di tutte le persone in cerca di protezione, intrappolate in una condizione di grave vulnerabilità in Libia ed in Tunisia. Verso l’Unione Europea e non solo. Invece, puntualmente, gli Stati, non appena si verifica una crisi internazionale, pensano esclusivamente all’evacuazione dei propri cittadini.
2. Di fromte ad una situazione geopolitica tanto complessa ed in continua evoluzione, e di fronte ad un aumento esponenziale degli arrivi che per ora, al di là della variante meteorologica, corrisponde alla situazione disastrosa (non solo per i migranti) nei paesi di transito, come la Libia e la Tunisia, se non agli sconvolgimenti epocali che stanno riguardando i paesi di origine nell’Africa subsahariana. il governo Meloni lascia sullo sfondo il proprio fallimento diplomatico internazionale, dopo mesi di propaganda smentita dai fatti, e rilancia la prospettiva interna securitaria. Si attende un nuovo pacchetto sicurezza che dovrebbe essere adottato a settembre, con l’avvio di una stretta contro i richiedenti asilo provenienti da paesi terzi “sicuri” per i quali, al termine di un rapidissimo esame delle domande di protezione duranre le “procedure accelerate in frontiera , dovrebbero essere previsti “rimpatri veloci”. Come se non fossero certi i dati sul fallimento delle operazioni di espulsione e di rimpatrio di massa.
Secondo rare notizie della stampa locale, dal primo settembre sarebbe entrato in funzione a Pozzallo-Modica un vero e propro centro di detenzione, all’interno di quello che doveva essere, o forse sarà, un centro di accoglienza che avrebbe dovuto duplicare il centro Hotspot già esistente nel porto di Pozzallo. E intanto continuano trasferimenti da un capo all’altro dell’Italia, nei quali vengono violati i principi basilari di rispetto della dignità umana. L’intero sistema di accoglienza italian smantellato dal primo Decreto sicurezza di Salvini nel 2018, si avvia verso un vero e proprio collasso. Anche se i prefetti sostengono che tutto viene gestito con ordine e secondo le direttive impartite dal Viminale. Basta andare a Porto Empedocle (Agrigento) per vedere sul territorio gli effetti di queste direttive ministeriali. E non andrà meglio con le nuove strutture detentive che si vogliono aprire nei diversi punti di frontiera sul territorio nazionale, dopo la sperimentazione del CPR appena aperto nella zona industriale al limite tra i comuni di Modica e Pozzallo, in provincia di Ragusa.
In base all’art. 7 comma 1 bis della legge 50/2023, con riguardo alla domanda di protezione internazionale presentata direttamente alla frontiera o zona di transito da uno straniero proveniente da Paese di origine sicuro oppure fermato per avere eluso o tentato di eludere i relativi controlli, la procedura accelerata di esame della domanda può essere svolta direttamente alla frontiera o nelle zone di transito. L’esito delle istanze sembra però in molti casi del tutto scontato. Se si incrociano gli effetti del Decreto del ministero degli esteri del 17 marzo scorso sui “paesi terzi sicuri”, che ne amplia la lista e restringe il riconoscimento della protezione a chi provenga da paesi come la Nigeria, il Gambia, la Tunisia, con il testo definitivo del Decreto Cutro, si vedono gli effetti nefasti della deterrenza attuata attraverso misure amministrative che restringono l’accesso ad uno status legale di soggiorno. Ad oggi, sono ritenuti paesi terzi “sicuri” Albania, Algeria, Bosnia Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia e Tunisia. Il problema non riguarda soltanto le riammisioni dirette in questi paesi, che spesso non si eseguono per le disfunzioni (mancanza di contropartite) nell’applicazione degli accordi bilaterali, ma investe soprattutto la condizione dei cittadini di questi paesi ritenuti “sicuri” che si trovano o si sono trovati in condizioni di grave vulnerabilità in paesi di transito per niente sicuri nei quali hanno subito, o potrebbero subire ancora, ogni tipo di abusi. Secondo diverse sentenze, le violazioni più gravi dei diritti fondamentali subite nei paesi di transito possono giustificare il riconoscimento di uno status di protezione. Per non parlare della devastazione economica e ambientale che sta caratterizzando molti dei paesi ritenuti sicuri, come il Bangladesh e la Nigeria. Anche l’accertamento dell’età, in questi casi riveste un ruolo fondamentale, e desta gravi preoccupazione il proposito del governo Meloni di ribaltare con il nuovo decreto sicurezza la presunzione di minore età, prevista in attuazione del principio generale del “superiore interesse del minore”, dalla legge Zampa n.47 del 2017.
All’atto della presentazione della domanda di protezione internazionale l’ufficio di polizia deve informare il richiedente che, ove proveniente da un Paese designato di origine sicuro ai sensi dell’art. 2-bis, la domanda può essere rigettata dalla Commissione territoriale ai sensi dell’art. 9, co. 2-bis (art. 10, co. 1, d.lgs. n. 25/2008), cioè che se non produrrà elementi gravi per fare capire che la sua situazione individuale non è sicura la domanda potrà essere ritenuta manifestamente infondata per questo solo motivo; in questi casi sarà un onere a carico del richiedente protezione invocare di fronte alla Commissione territoriale “gravi motivi” per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova (art. 2-bis, co. 5, d.lgs. n. 25/2008). La domanda di protezione internazionale è esaminata in questi casi con procedura accelerata (ai sensi dell’art. 28-bis, d.lgs. 25/2008).
Come scrive Martina Flamini in un articolo pubblicato da Questione Giustizia,“in applicazione della nozione di «Paese di origine sicuro», il diniego della domanda di protezione potrebbe assumere carattere stereotipato, finendo per restare sostanzialmente privo di motivazione, almeno fino alla fase giurisdizionale: sarebbe rimesso al giudice – in caso di (eventuale) ricorso – l’espletamento della valutazione in ordine all’effettiva sicurezza nel Paese di origine (con particolare attenzione al rischio di refoulement), data per presupposta in fase amministrativa.
Peraltro, lo stesso decreto interministeriale con cui sono stati designati i Paesi di origine considerati sicuri ai fini dell’applicazione della relativa disciplina, in forza della sua portata generale, non rientra tra gli atti sottoposti ad obbligo di motivazione (art. 3, comma 2 L. 241/1990). Da esso, si evince che le valutazioni relative allo stato di sicurezza dei Paesi di origine sono stati effettuate dalla Commissione nazionale per il diritto d’asilo, in forza delle informazioni fornite dai competenti uffici geografici del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale. Tuttavia, dalla mera elencazione dei Paesi di origine considerati sicuri contenuta nel decreto17, non è possibile individuare quali siano le ragioni che hanno determinato l’inserimento di determinati Paesi e non di altri all’interno della lista. In particolare, come osservato nel caso della Nigeria, le ragioni di perplessità aumentano laddove i numerosi elementi di criticità riscontrati nella scheda paese militino nel senso opposto ad una conclusione in termini di sicurezza del Paese.
La normativa nazionale descritta pare porsi in contrasto, innanzitutto, con quanto statuito dall’articolo 11, paragrafo 2 della direttiva 2013/32, in virtù del quale è espressamente previsto un obbligo di motivazione in fatto e in diritto del provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale“. E ancora ” L’obbligo di congrua motivazione, che esplichi l’iter logico-argomentativo seguito dall’autorità competente per giungere ad una determinata conclusione, è posto a tutela del diritto di difesa dell’interessato, il quale può così disporre di un ulteriore strumento di verifica sulla coerenza e ragionevolezza dell’operato dell’autorità decidente. Come precisato dalla Corte di giustizia, «[il diritto al contraddittorio] implica anche che l’amministrazione competente presti tutta l’attenzione necessaria alle osservazioni della persona coinvolta esaminando, in modo accurato e imparziale, tutti
gli elementi rilevanti della fattispecie e motivando circostanziatamente la sua decisione (v. sentenze Technische Universität München, C-269/90, punto 14, e Sopropé, punto 50), laddove l’obbligo di motivare una decisione in modo sufficientemente dettagliato e concreto, al fine di consentire all’interessato di comprendere le ragioni del diniego opposto alla sua domanda, costituisce un corollario del principio del rispetto dei diritti della difesa (sentenza M., punto 88)». La definizione di una lista di paesi terzi sicuri continua a rimanere caratterizzata da grande opacità e si attende che il governo risponda alla richiesta di accesso civico relativa ai criteri di determinazione (le cd. schede paese) degli Stati che rientrano in questa lista.
3. La nozione di “Paese terzo sicuro” è presente nella legislazione eurounitaria con la direttiva 2005/85/Ce del Consiglio del 1° dicembre 2005. L’art. 29 prevedeva che il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, potesse adottare un elenco comune minimo dei paesi terzi considerati dagli Stati membri paesi d’origine sicuri. Tale disposizione fu annullata dalla Corte di giustizia perché introduceva una riserva di competenza in favore del Consiglio, con semplice obbligo di consultazione del Parlamento europeo, che non poteva essere prevista da un atto derivato.
Con la cd. direttiva procedure (dir. 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013) la traccia è stata ripresa e ampliata.
Gli articoli da 36 a 39 disciplinano infatti in termini molto dettagliati i contorni della nozione di Paese di origine sicuro e le conseguenze di tale nozione sulle procedure di valutazione delle domande e sui successivi provvedimenti di espulsione o respingimento.
L’art. 36 detta le condizioni soggettive alle quali è subordinato il riconoscimento della natura di Paese sicuro di un determinato richiedente: questi deve essere cittadino del Paese di provenienza definito sicuro o apolide che in quel Paese soggiornasse abitualmente; inoltre, non deve avere invocato gravi motivi a lui riferibili, tesi a escludere che il Paese di origine sia sicuro.
L’art. 37 fa rinvio all’allegato I della stessa direttiva, dove sono dettate le condizioni alle quali è possibile designare un Paese come sicuro. Il testo dell’Allegato I è il seguente: “Un paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Per effettuare tale valutazione si tiene conto,tra l’altro, della misura in cui viene offerta
protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante:
a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del paese ed il modo in cui sono applicate;
b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e sociali
L’art. 38 della Direttiva atualmente in vigore, fino a quando non verrà espressamente abrogata, fornisce il: “Concetto di paese terzo sicuro”.
1. Glic Stati membri possono applicare il oncetto di paese terzo sicuro solo se le autorità competenti hanno accertato che nel paese terzo in questione una persona richiedente protezione internazionale riceverà un trattamento conforme ai seguenti criteri:
a) non sussistono minacce alla sua vita ed alla sua libertà per ragioni di razza, religione,
nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale;
b) non sussiste il rischio di danno grave definito nella direttiva 2011/95/UE;
c) è rispettato il principio di «non-refoulement» conformemente alla convenzione di Ginevra;
d) è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né
trattamenti crudeli, disumani o degradanti, sancito dal diritto internazionale; e
e) esiste la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e, per chi è riconosciuto come rifugiato,
ottenere protezione in conformità della convenzione di Ginevra.
2. L’applicazione del concetto di paese terzo sicuro è subordinata alle norme stabilite dal diritto nazionale, comprese:
a) norme che richiedono un legame tra il richiedente e il paese terzo in questione, secondo le quali sarebbe ragionevole per detta persona recarsi in tale paese;
b) norme sul metodo mediante il quale le autorità̀ competenti accertano che il concetto di paese terzo sicuro può̀ essere applicato a un determinato paese o a un determinato richiedente. Tale metodo comprende l’esame caso per caso della sicurezza del paese per un determinato richiedente e/o la designazione nazionale dei paesi che possono essere considerati generalmente sicuri;
c) norme conformi al diritto internazionale per accertare, con un esame individuale, se il paese terzo interessato sia sicuro per un determinato richiedente e che consentano almeno al richiedente di impugnare l’applicazione del concetto di paese terzo sicuro a motivo del fatto che quel paese terzo non è sicuro nel suo caso specifico. Al richiedente è altresì data la possibilità di contestare l’esistenza di un legame con il paese terzo ai sensi della lettera a)”
4. Il ricorso sempre più esteso alla categoria di “paese terzo sicuro” comporta un procedura più rapida per negare il riconoscimento di uno status di pritezione e l’ ampliamento dei casi nei quali anche i richiedenti asilo possono essere ristretti in un cenrtro di detenzione amministrativa, con tutte le caratteristiche di un CPR (Centro per i rimpatri).
Mentre molti dei paesi che sono considerati “sicuri” dal governo Meloni precipitano in situazioni di grave instabilità che colpisce non solo i cittadini residenti in quei paesi ma anche e soprattutto i migranti in transito, si propone così di incrementare i centri di detenzione in frontiera per respingere in modo più rapido le richieste di protezione di tutti coloro che provengono da quei paesi, e facilitare quelli che vengono definiti “rimpatri veloci”. Vedremo presto quanto “veloci” saranno questi rimpatri e quali altre violazioni saranno commesse dalle autorità italiane dopo le condanne che continuano ad arrivare dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, da ultimo, proprio con riferimento a “procedure semplificate” per il rimpatrio forzato di cittadini tunisini, sul caso J. e A. contro Italia. Nel caso della condanna dell’Italia per il trattenimento arbitrario nell’Hotspot di Lampedusa nel 2017, alla quale si rinvia per la sua articolata motivazione, la Corte di Strasburgo, oltre a riconoscere la ricorrenza della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU), afferma la violazione dell’art. 5 paragrafo 1 della stessa Convenzione, per un trattenimento arbitrario “de facto” durato dieci giorni, in assenza di una esplicita previsione di legge, e di correlati provvedimenti amministrativi. Infatti ” In the light of the above considerations and bearing in mind that the applicants were placed at the Lampedusa hotspot by the Italian authorities and remained there for ten days without a clear and accessible legal basis and in the absence of a reasoned measure ordering their retention, before being removed to their country of origin, the Court finds that the applicants were arbitrarily deprived of their liberty, in breach of the first limb of Article 5 § 1 (f) of the Convention.”
Con il Decreto Cutro (legge n.50/2023), si è introdotta soltanto una generica previsione del trattenimento amministrativo obbligatorio per tutti i richiedenti asilo che provengono da paesi terzi sicuri, ma al di là della previsione normativa ancora inattuata, si continuano a ripetere situazioni di fatto, di privazione prolungata ed arbitraria della libertà personale che potrebbero portare ad altre condanne dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo.
Secondo le posizioni contenute nei documenti dell’’UNHCR , che valgono per tutti i potenziali richiedenti asilo, “la detenzione di richiedenti asilo non dovrebbe essere utilizzata in maniera automatica o obbligatoria per tutti, piuttosto dovrebbe rappresentare l’eccezione. Brevi periodi di trattenimento sono ammissibili nella fase iniziale di verifica dell’identità e durante i controlli di sicurezza quando l’identità è incerta o controversa o emergono elementi indicativi di rischi per la sicurezza. Quando una misura di detenzione è applicata per un fine legittimo, essa deve essere prevista dalla legge, deve fondarsi su di una decisione individuale, e deve risultare strettamente necessaria e proporzionale, avere un durata prestabilita ed essere sottoposta a revisione periodica . La detenzione non dev’essere applicata ai minori”.
5. La Tunisia non può essere considerata come un “paese terzo sicuro”, neppure per i suoi stessi cittadini, che a fronte della repressione avviata dal presidente Saied contro ogni forma di dissenso democratico, hanno diritto a chiedere in Italia l’asilo costituzionale ancora previsto dagli articoli 5.6 e 19 comma 1, parte prima, del Testo Unico in materia di immigrazione n.286 del 1998. Lo afferma da tempo la giurisprudenza italiana che, su base individuale, ha riconosciuto in diverse occasioni, a cittadini tunisini che avevano ricevuto un diniego dalle Commissioni territoriali, la protezione (prima) umanitaria, ed adesso speciale, in base ad una normativa ed al richiamo dell’art. 10 della Costituzione, che non possono essere abrogati da una legge ordinaria, come la legge n.50 del 2023 (ex “Decreto Cutro”). Anche i Rapporti dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (OIM) confermano la situazione di grave pericolo e di discriminazione razziale nella quale si trovano i migranti attualmente in transito in Tunisia.
Per le ricorrenti violazioni del diritto di chiedere asilo, e per le deportazioni violente realizzate dalle forze di polizia tunisine, nelle quali si sono configurati respingimenti collettivi illegali, sotto il diretto indirizzo del presidente Saied, non è legalmente sostenibile l’ipotesi della firma di un Memorandun d’intesa tra Unione Europea e Tunisia. Che, tra l’altro, potrebbe prevedere anche il respingimento o l’espulsione verso Tunisi di cittadini di paesi terzi, intercettati in mare, in acque internazionali, durante operazioni di soccorso, o ai quali, dopo le procedure accelerate in frontiera, non sia stato riconosciuto il diritto alla protezione, perchè provengono da paesi terzi ritenuti “sicuri”. Il Parlamento europeo ha espresso al riguardo un fermo richiamo alla Commisione perchè la stessa Commissione europea prenda atto della violazione dello stato di diritto (rule of law) in Tunisia, a fronte delle espulsioni collettive illegali via terra e delle intercettazioni violente in alto mare, operate dalla polizia e dalla guardia costiera tunisina.
6. La Libia è divisa tra due governi, tra Tripolitania e Cirenaica, nelle acque attribuite ai libici operano diverse guardie costiere che non rispondono allo stesso governo e che neppure hanno un coordinamento centrale unitario. I soccorsi operati in autonomia dai libici non coprono l’intera zona SAR che si sono attribuiti. Mentre invece spadroneggiano in acque internazionali, anche a 90 miglia dalle loro coste, con le motovedette regalate dagli italiani, per mitragliare pescherecci italiani. La parte della SAR (area di ricerca e salvataggio) “libica” controllata da Haftar è diventata il principale snodo dei trafficanti che operano sotto la copertura delle milizie del generale, corteggiato da tempo anche dai governi itaiani, ma sempre vicino all’influenza russa. La corruzione è diffusa, in tutta la Libia, come sono ricorrenti le violenze ai danni delle persone intercettate in mare. Lo confermano da anni i rapporti dele Nazioni Unite.
Per il Tribunale di Messina (Sentenza 28 maggio 2020) proprio nelle zone dalle quali partono la maggior parte dei migranti, nella fascia costiera da Sabratha a Zawia, i centri di detenzione sarebbero sotto il controllo delle stesse milizie che operano a bordo delle motovedette donate dall’Italia, che arivano ad operare in acque internazionali grazie agli accordi stipulati con il nostro paese e la continua assistenza tecnica ed operativa fornita dalla Marina militare italiana (Operazione Nauras della Missione Mare Sicuro). Il Giudice dell’Udienza preliminare di Messina accerta come a Zawiya “operava (e opera) un’associazione criminale che quotidianamente e indisturbatamente sequestra migranti provenienti da tutto il continente africano e, dopo averli privati della libertà e sottoposti a violenze e torture, costringe i parenti a pagare un riscatto che consentirà il rilascio e la possibilità di imbarcarsi per l’Europa”..
Quale legittimità può avere un Memorandum d’intesa concluso da Gentiloni e Minniti nel 2017 con una soltanto delle due autorità politiche e militari che di fatto si dividono la Libia? Il Parlamento che per due volte ha prorogato il sostegno economico e logistico promesso dal Memorandum al governo di Tripoli poteva ignorare la situazione reale esistente in Libia ?
Nel 2019 Il Tribunale di Trapani, in una sentenza, ribaltata dalla Corte di Appello di Palermo e poi confermata lo scorso anno dalla Corte di Cassazione (caso Vos Thalassa), affermava che “laddove le persone soccorse in mare, oltre che ‘naufraghi’, si qualifichino – in termini di status – anche come ‘migranti/rifugiati/richiedenti asilo”, soggetti quindi alle garanzie ed alle procedure di protezione internazionale, l’accezione del termine ‘sicuro’ (riferita al luogo di sbarco) si connota anche di altri requisiti, legati alla necessità di non violare i diritti fondamentali delle persone, sanciti dalla norme internazionali sui diritti umani (…), impedendo che avvengano ‘sbarchi’ in luoghi ‘non sicuri’, che si tradurrebbero in aperte violazioni del principio di non-respingimento, del divieto di ‘espulsioni collettive’, e, più in generale, pregiudizievoli dei diritti di ‘protezione internazionale’ accordati ai rifugiati e richiedenti asilo”. Lo stesso Tribunale ribadiva poi che ““il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-refoulement aveva già acquisito rango di jus cogens, è: – privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’art. 10 co. 1 Cost., secondo cui ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement’”. Se è pacifico che ad oggi la Libia non può essere considerata nella sua interezza un paese terzo sicuro, anche perchè ancora priva di una unitaria consistenza territoriale, come si può giustificare la collaborazione ed il supporto economico ed operativo con autorità che su base sistemica non rispettano i diritti umani ? Fino a quando ci si potrà trincerare dietro la finzione della zona SAR “libica” ?
7. Gli organi decisionali dell’Unione Europea, ammesso che trovino un punto di intesa, non possono comunque dare il loro sostegno a norme, contenute nella legge n.50 del 2023, che già oggi, nelle prassi applicate, da Lampedusa fino a Trieste e Ventimiglia, vanno contro le Direttive dell’Unione europea. Il riferimento d’obbligo è alla Direttiva “Rimpatri” 2008/115/CE per quanto concerne i respingimenti ed il trattenimento in frontiera, ed alla Direttiva sulle procedure per l’accesso alla procedura di asilo ed il riconoscimento della protezione internazionale. La Direttiva 2013/32/UE, aveva poi imposto l’emanazione di norme contenute nel Decreto legislativo n.142 del 2015 che più volte modificate dal Decreto sicurezza Salvini n.113 del 2018 e dal Dcreto Lamorgese n.130 del 2020, adesso sono state travolte dalle previsioni sulle procedure in frontiera contenute nel cd. “Decreto Cutro”(Legge n.50/2023), testi disponibili in versione sinottica su www.a-dif.org.
In base all’art. 7 comma 1 bis della legge 50/2023, con riguardo alla domanda di protezione internazionale presentata direttamente alla frontiera o zona di transito da uno straniero proveniente da Paese di origine sicuro oppure fermato per avere eluso o tentato di eludere i relativi controlli, la procedura accelerata di esame della domanda può essere svolta direttamente alla frontiera o nelle zone di transito. L’esito delle istanze sembra però in molti casi del tutto scontato. Se si incrociano gli effetti del Decreto del ministero degli esteri del 17 marzo scorso sui “paesi terzi sicuri”, che ne amplia la lista e restringe il riconoscimento della protezione a chi provenga da paesi come la Nigeria, il Gambia, la Tunisia, con il testo definitivo del Decreto Cutro, si vedono gli effetti nefasti della deterrenza attuata attraverso misure amministrative che restringono l’accesso ad uno status legale di soggiorno. All’atto della presentazione della domanda di protezione internazionale l’ufficio di polizia deve informare il richiedente che, ove proveniente da un Paese designato di origine sicuro ai sensi dell’art. 2-bis, la domanda può essere rigettata dalla Commissione territoriale ai sensi dell’art. 9, co. 2-bis (art. 10, co. 1, d.lgs. n. 25/2008), cioè che se non produrrà elementi gravi per fare capire che la sua situazione individuale non è sicura la domanda potrà essere ritenuta manifestamente infondata per questo solo motivo; in questi casi sarà un onere a carico del richiedente protezione invocare di fronte alla Commissione territoriale “gravi motivi” per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova (art. 2-bis, co. 5, d.lgs. n. 25/2008). La domanda di protezione internazionale è esaminata in questi casi con procedura accelerata (ai sensi dell’art. 28-bis, d.lgs. 25/2008).
La nuova norma dettata dall’art. 7 bis della legge 50/2023, prevede che “- 1. Fuori dei casi di cui all’articolo 6, commi 2 e 3-bis, del presente decreto e nel rispetto dei criteri definiti all’articolo 14, comma 1.1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il richiedente puo’ essere trattenuto durante lo svolgimento della procedura in frontiera di cui all’articolo 28-bis, comma 2, lettere b) e b-bis), del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, e fino alla decisione dell’istanza di sospensione di cui all’articolo 35-bis, comma 4, del medesimo decreto legislativo n. 25 del 2008, al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato.
2. Il trattenimento di cui al comma 1 puo’ essere disposto qualora il richiedente non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente in corso di validita’, ovvero non presti idonea garanzia finanziaria. Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, con decreto del Ministero dell’interno, di concerto con i Ministeri della giustizia e dell’economia e delle finanze, sono individuati l’importo e le modalita’ di prestazione della predetta garanzia finanziaria.
In base all’art. 8 della Direttiva 2013/33/UE, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, “Gli Stati membri non trattengono una persona per il solo fatto di essere un richiedente ai sensi della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del iconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale“. In base a questa norma euro-unitaria,“ove necessario e sulla base di una valutazione caso per caso, gli Stati membri possono trattenere il richiedente, salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive. L’ordinamento dell’Unione Europea considera dunque il trattenimento amministrativo del richiedente asilo come una misura residuale”.
L’ACNUR dopo una generale considerazione positiva delle procedure accelerate in frontiera, soprattuto nei casi in cui appare maggiormente probabile l’esito positivo della domanda di protezione, “Raccomanda, tuttavia, di incanalare in procedura di frontiera (con trattenimento) solo le domande di protezione internazionale che, in una fase iniziale di raccolta delle informazioni e registrazione, appaiano manifestamente infondate.
In particolare, la domanda proposta dal richiedente proveniente da un Paese di origine sicuro non deve essere incanalata in tale iter quando lo stesso abbia invocato gravi motivi per ritenere che, nelle sue specifiche circostanze, il Paese non sia sicuro. Si sottolinea, a tal fine, la centralità di una fase iniziale di screening, volta a far emergere elementi utili alla categorizzazione delle domande (triaging) e alla conseguente individuazione della procedura più appropriata per ciascun caso.
In ogni caso, nelle “procedure in frontiera”, dovranno rispetttarsi quelli che sono stati definiti come ” I fondamenti unionali e costituzionali della protezione complementare e la protezione speciale direttamente fondata sugli obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato”. Anche nel caso di persone provenienti o transitate da paesi terzi ritenuti “sicuri”. La farneticazioni di alcuni esponenti dell’attuale maggioranza di governo sui poteri sovrani degli Stati, poteri che sarebbero legittimati dal “voto popolare”, potrebbero infrangersi prima o poi sulla riaffermazione del primato del diritto internazionale ed euro-unitario, almeno quando vengono in gioco la protezione dei diritti fondamentali delle persone ed il diritto di accedere al territorio per presentare una richiesta di protezione, anche se si proviene da paesi terzi ritenuti sicuri.. Non si potranno certo cancellare con un ulteriore decreto legge “sicurezza” il principio ad un ricorso effettivo e le garanzie in materia di libertà personale, previsti peraltro dalla nostra Carta Costituzionale.
L’ordinanza della Corte di Cassazione numero 23355 del 24 agosto 2021 ha accolto il ricorso contro la decisione che negava il riconoscimento di uno status di protezione «…per non aver considerato che il richiamato art. 2 lett h) bis del D.Lgs. 25/2008 (nella formulazione introdotta dal D.Lgs. 142/15) definisce quali persone vulnerabili quelle per le quali è accertato che hanno subito torture o altre forme gravi di violenza (v. pure l’art. 17 del D.Lgs 25/2008)», e rilevando ulteriormente che «…il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari costituisce una misura atipica e residuale volta ad abbracciare situazioni in cui non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in condizioni di vulnerabilità, da valutare caso per caso, anche considerando le violenze subite nel paese di transito e di temporanea permanenza del richiedente, potenzialmente idonee, quali eventi in grado di ingenerare un forte grado di traumaticità, ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona (v. Cass. n. 13096 del 2019)». Queste considerazioni possono valere ancora oggi, per effetto dell’abrogazione solo parziale dell’istituto della protezione speciale, che comunque va riconosciuta quando ricorrano vincoli di ordine costituzionale o internazionale, quando siano a rischio dunque i diritti fondamentali della persona. Queste stesse motivazioni permettono di contestare il trattenimento generalizzato nel corso delle procedure in frontiera di tutti coloro che provengono da paesi terzi ritenuti “sicuri”.
In base all’art.117 della Costituzione, nella interpretazione che ne forniscono la Corte di cassazione e la Corte Costituzionale, il legislatore nazionale e le autorità amministrative non possono violare norme di rango superiore di fonte sovranazionale, e quando in passato questo è successo sono arrivate le condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo. Ma le stesse violazioni possono assumere rilievo anche davanti ai giudici nazionali, come è emerso, ed ancora potrà emergere in futuro, in numerosi giudizi in materia di protezione richiesta da persone provenienti da “paesi terzi sicuri”, e nelle procedure di protezione internazionale o umanitaria (speciale), davanti i Tribunali, fino alla Corte di cassazione. In questa direzione l’impegno dei team legali si dovrà collegare ad una capillare e costante opera di informazione per evitare che l’accoglimento delle richieste sui diritti fondamentali da parte dei tribunali possa ribaltato e diventare un argomento di disinformazione di massa da parte di chi vuole nascondere le sconfitte ripetute in politica estera ed il fallimento sul fronte interno delle migrazioni.