di Fulvio Vassallo Paleologo
1.Forse oggi pochi ricordano cosa ha significato il “Processo di Khartoum” avviato dal governo Renzi nel 2014, dopo la chiusura dell’operazione Mare Nostrum, seguita alle stragi di Lampedusa del 3 ottobre e a sud di Malta dell’11 ottobre 2013 (la strage dei bambini). Nel corso del semestre di Presidenza dell’Unione Europea nel 2014 l’Italia lanciava il Processo di Khartoum che, nel solco del Processo di Rabat e degli Accordi di Cotonou, tendeva a trasferire sui paesi terzi, di transito e di origine, il compito di “difendere” le frontiere europee di fronte ad un crescente afflusso di migranti, aumentando i controlli, anche attraverso la collaborazione con l’agenzia europea FRONTEX, in modo da realizzare operazioni di respingimento alle frontiere esterne o di espulsione collettiva verso i paesi di origine. Succesivamente, Renzi ed il governo italiano, con l’appoggio della Commissaria UE Mogherini, adottavano la nuova formula, ben poco comprensibile, del “Migration Compact“, definito come “Contribution to an EU strategy for external action on migration”.che veniva a costituire uno sviluppo concreto del Processo di Khartoum. Un atto politico che è rimasto al di fuori di una procedura legislativa, ma che ha segnato l’azione dell’Unione europea nei confronti dei paesi di origine o di transito dei migranti che, in assenza di canali legali di ingresso, tentavano comunque a raggiungere lo “Spazio Schengen”. Negli anni successivi i governi europei hanno fatto lavorare in modo febbrile le diplomazie ed i servizi, con una fitta rete di agenti di collegamento, e con corsi di formazione congiunta, per concludere nuovi accordi con i “paesi terzi sicuri”, che in Africa avrebbero dovuto garantire l’arresto o la riammissione dei migranti . Fondamentali sotto questi profili, le previsioni del Regolamento europeo Frontex n. 1896 del 2019.
Le misure previste dal Migration Compact ricalcavano il modello degli accordi che, dopo i Protocolli tecnico-operativi del 2007 (governo Prodi), l’Italia di Berlusconi e Maroni stipularono nel 2008 e nel 2009 con la Libia di Gheddafi, sul principio della “condizionalità migratoria” nei rapporti con i paesi terzi, che il governo Sarkozy aveva proposto nel 2008 all’Unione Europea. Si trattava in sostanza di garantire congrui finanziamenti e forniture tecniche e militari ai paesi di transito per contrastare le partenze dei cd. “clandestini”, con la collaborazione attiva da parte delle polizie di questi paesi nelle operazioni di intercettazione in mare e di identificazione dei migranti giunti in Europa. Anche se poi nessuno garantiva il rispetto dei diritti umani delle persone respinte, espulse, oppure riprese in mare e ricondotte nei porti di partenza. Il ricorso agli stati terzi per bloccare le partenze dei migranti era avvertito da tempo come una esigenza prioritaria, soprattutto dopo che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo aveva bocciato gli accordi bilaterali che prevedevano operazioni di respingimento diretto da parte delle unità militari dei paesi europei, come si era verificato nel caso dell’Italia con la sentenza di condanna sul caso Hirsi, pronunciata nel 2012 dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’Uomo. Successive conferme della illegalità dei respingimenti collettivi in Libia, in sentenze pronunciate da parte di tribunali italiani, restavano senza esito. Il Memorandum d’intesa stiulato nel 2017 da Gentiloni, con Minniti ministro dell’interno, finanziato sino allo scorso anno con voto trasversale da un’ampia maggioranza parlamentare, delegava alle motovedette donate ai libici il compito di eseguire i respingimenti collettivi in acque internazionali. Respingimenti, definiti intercettazioni, se non “soccorsi”, che, almeno fino al 2020, quando poi la Turchia assumeva il ruolo di principale attore militare in Tripolitania, restavano coordinati dalle autorità italiane, attraverso la Centrale di coordinamento della Guardia costiera (IMRCC), come è stato sistematicamente accertato nei processi avviati contro le ONG e finiti quasi tutti con un provvedimento di archiviazione.
Rispetto alla Tunisia, alla Libia ed all’Egitto, prevaleva la delega europea ai paesi più esposti agli “sbarchi”, Italia e Malta, che a loro volta concludevano accordi bilaterali con autorità statali di dubbia legittimazione, dietro cui si celavano milizie ampiamente infiltrate dalle organizzazioni criminali che gestivano il traffico. Sono i documenti delle Nazioni Unite che confermano questo scellerato grado di coesione. Ormai si può dire davvero che i trafficanti libici vivono nei palazzi del potere. E dove non prevale la corruzione, prassi di polizia disumane attentano ai diritti ed alle vite di chi è costretto a fuggire da un paese come la Tunisia, nella quale si sta scatenando la caccia agli stranieri subsahariani, dopo la svolta autoritaria di Saied ed il sostegno che ha ricevuto dall’Italia e dall’Unione Europea. Sempre in nome della lotta all’immigrazione irregolare, naturalmente.
2. La politica di esternalizzazione dell’Unione Europea non è sostanzialmente cambiata e si ritrova nelle ultime versioni del Piano di azione europeo per il Mediterraneo centrale, adesso aggiornato nel novembre del 2022, nell’ambito del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo che ricalca le stesse linee di quello del 2020. Misure che, a tre anni dalla loro presentazione, non si sono ancora trasformate in atti legislativi, vincolanti per tutti gli Stati membri. Continuano infatti ad emergere conflitti, in particolare tra il gruppo dei cosiddetti Med 5 (Italia, Spagna, Grecia, Cipro e Malta) e gli altri membri dell’Unione, sul tema definito della “solidarietà”, che poi si dovrebbe tradurre nella (con)divisione della responsabilità nella attività di controllo delle frontiere marittime esterne e della gestione degli sbarchi fino alla redistribuzione in diversi paesi europei. Su questi punti il governo Meloni continua a vantare successi inesistenti, e la cronicizzazione del conflitto in Ucraina, come la devastante crisi economica che sta colpendo tutti gli Stati europei, non facilitano il raggiungimento di intese, che forse sarebbero state possibili in passato, se i paesi a guida sovranista non si fossero opposti a qualunque modifica del Regolamento Dublino III n.604 del 2013. Adesso, paradossalmente, l’Italia, che dovrebbe battersi per una maggiore solidarietà europea, si ritrova nel gruppo dei paesi di Visegrad, che alzano muri non solo alle frontiere esterne, ma anche all’interno dell’Unione Europea. Tutti gli sforzi della Commissione e del Consiglio dell’Unione Europea sembrano concentrarsi invece sulla implementazione di un “sistema comune per i rimpatri”, caratterizzato dal rafforzamento del ruolo di Frontex e da un maggior supporto agli accordi bilaterali conclusi con i paesi terzi. Anche se in questi paesi non sono garantiti i diritti umani, a partire dal divieto di trattamenti inumani e degradanti, fino al diritto alla vita, da salvaguardare anche con attività di ricerca e salvataggio in mare. Non si vuole prendere atto che ci troviamo comunque di fronte a migrazioni forzate, anche per cause ambientali o per la desertificazione economica del territorio. In Italia si continua a parlare di gestione dei flussi migratori, anche quando si tratta di adottare misure per contrastare le attività di ricerca e salvataggio delle Organizzazioni non governative come il Decreto legge n.1 del 2023. Misure che sono causa indiretta delle stragi per abbandono nelle acqie internazionali, sebbene la Guardia costiera italiana moltiplichi gli sforzi per intervenire nelle acque territoriali e nella zona contigua, fino a 24 miglia dalla costa. Ma la intensità di questo impegno risulta regolarmente frustrato dalla ripartizione delle sone di ricerca e salvataggio (zone SAR) nel Mediterraneo centrale, e dalla pervicace politica di dissuasione adottata dal governo italiano, come dai precedenti governi, di non intervenire nella zona SAR ( di ricerca e salvataggio !) “libica”, che è stata istituita da Tripoli dopo il Memorandum d’intesa del 2 febbraio del 2017 sottoscritto da Gentiloni. Mentre nella vastissima zona SAR maltese il rimpallo di competenze, e la politica delle autorità di La Valletta che si potrebbe definire di “abbandono in mare”, specialmente dopo gli accordi con i libici dopo il 2019, rimangono cause dirette che continuano a produrre naufragi. Per nascondere tutte queste responsabilità istituzionali non si trova altra soluzione che attribuire le colpe di questi naufragi agli scafisti, e si prevedono pene sempre più alte a loro carico, senza che questo inasprimento delle sanzioni riduca significativamente il numero dei barconi, o dei barchini, che vengono fatti partire verso le coste italiane. E si continuano a contare, ormai tutti i giorni, morti e dispersi.
Le risposte fornite dall’attuale governo italiano a grandi questioni che riguardano il futuro del mondo, e del nostro paese, sono deludenti, e sembrano risentire soltanto delle campagne di strumentalizzazione mediatica e di caccia ai consensi elettorali.. Si parlava da tempo di un Piano Marshall per l’Africa, oggi il governo Meloni propone un Piano Mattei, ma in realtà si vuole soltanto che i paesi africani si dimostrino più collaborativi nelle politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera, di intercettazione in mare, di detenzione amministrativa sui loro territori e di riammissione con accompagnamento forzato. Gli accordi bilaterali sui quali si basano queste stesse procedure, definiti “Memorandum d’intesa (MOU)”, non posono però prevalere su norme cogenti aventi forza di legge, o sui diritti fondamentali riconosciuti dalle Convenzioni internazionali. Ed anche le norme interne che vengono periodicamente inasprite per creare nuovi irregolari e dissuadere così nuovi arrivi, non possono violare diritti coperti da garanzie della Costituzione o derivanti dagli obblighi internazionali a cui lo Stato si impegna con la sottoscrizione e la ratifica delle Convenzioni internazionali.
3, Il 2 agosto 2016 Italia e Sudan firmavano un Memorandum d’intesa (MoU) sul tema della migrazione, che prevedeva la collaborazione tra i due Paesi nella lotta al crimine, nella gestione degli flussi migratori e delle frontiere. Stando a quanto si precisava nel comunicato diffuso dall’Ambasciata italiana a Khartoum, l’accordo si iscriveva nel piu’ ampio quadro di cooperazione tra Sudan e Unione Europea sui temi migratori, in particolare il Processo di Khartoum e il Fondo fiduciario d’emergenza dell’Unione europea per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa, lanciato nel novembre 2015 al Summit de La Valletta.
Appariva subito evidente come gli accordi con un dittatore sanguinario come Bashir inquisito dalla Corte penale internazionale, non avessero alcuna legittimità a livello internazionale ed interno. Non mancavano i ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, ma questo non impediva che una prima serie di espulsioni colletive fosse comunque eseguita. Ed ancora più gravi erano le conseguenze politiche, di cui oggi nessuno può perdere memoria.
Il Memorandum Italia-Sudan veniva sottoscritto a Roma dal capo della polizia italiana, Franco Gabrielli, e dal suo omologo sudanese, generale Hashim Osman Al Hussein, alla presenza di funzionari del ministero dell’Interno e del ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Già allora si instauravano rapporti privilegiati con i paramilitari del RSF, i “janjaweed”, le Forze di supporto rapido, che fino alla caduta di Bashir spalleggiavano il dittatore sudanese, rendendosi responsabili di crimini orrendi in Darfur ed in altre regioni del Sudan, proseguono fino ad oggi, come documenta da anni l’agenzia Africa ExPress, una delle pochissime voci giornalistiche che si avvale ancora di fonti dirette . Ed oggi, dall’Agenzia DIRE, si apprende che Ahmad Harun, l’ex capo delle milizie dei “janjaweed” accusato dalla Corte penale internazionale (Cpi) di crimini contro l’umanità nella regione sudanese del Darfur, ha comunicato di essere uscito dalla prigione di Khartoum dove era detenuto dal 2019. Sembra prossima anche la liberazione del vecchio dittatore Bashir. Ma l’impunità dei criminali che massacrano le popolazioni civili, o che sfruttano le immigrazioni irregolari, è un dato che accomuna molti paesi africani con i quali l’Italia e l’Unione Europea cercano di concludere accordi per chiudere tutte le vie di fuga. Alla fine, più che le vite delle persone, contano i rapporti economici e gli immensi guadagni che si possono ricavare dalla gestione delle materie prime di cui sono ricchi i paesi più poveri del mondo. Guadagni enormi che incidono, ancora oggi, come allora, anche in Sudan, sulla ragnatela dei rapporti politici e sugli equilibri militari.
I frutti della collaborazione tra Italia e Sudan sono stati molto modesti in termini di migranti ritenuti non meritevoli di protezione ed effettivamente espulsi, anche se in patente violazione delle più elementari garanzie riconsociute a tutte le persone dalle Convenzioni internazionali. Le conseguenze degli accordi bilaterali conclusi con il governo Renzi si avvertivano anche a Khartoum. Nel 2016 il Sudan espelleva centinaia di Eritrei che per anni vi avevano trovato rifugio, concluendo accordi con la dittatura eritrea. Si è visto come nel maggio del 2016 l’arresto di un famoso trafficante avvenuto a Khartoum, definito addirittura” Il Generale”, si sia rivelato una gigantesca bufala, rilanciata per anni dai media, quando si trattava di uno scambio di persona. Che comunque alla fine si doveva condannare per forza, per non perdere la faccia. Nell’estate del 2016, gruppi di migranti sudanesi rastrellati alla frontiera di Ventimiglia, e trasferiti nell’Hotspot di Taranto, venivano espulsi, imbarcati su un aereo e riportati a Khartoum. Un’operazione “esemplare”. Occorreva sgomberare la frontiera, da Ventimiglia a Chiasso, come si sarebbe tentato inutilmente di fare negli anni successivi, e poi dare effettività alle misure di espulsione con accompagnamento forzato, secondo quanto previsto dal “piano Gabrielli”, predisposto dall’allora capo della polizia italiana. Di fatto verso il Sudan si sono realizzate soltanto alcune decine di espulsioni collettive con la negazione di un diritto effettivo di difesa. Poi le denunce della società civile ed i ricorsi presentati dagli avvocati hanno interrotto questa catena di illegalità. Esattamente le stesse procedure di allontanamento forrzato, che adesso ripropone il governo Meloni,, dopo la cancellazione sostanziale della protezione speciale, che pure sarebbe stata coperta dal disposto costituzionale del’art. 1. A questo scopo si è deciso l’ ennesimo ampliamento della lista dei paesi terzi sicuri, frutto di un Decreto del Ministero degli Affari esteri del 17 marzo scorso, fino a ricomprendervi Nigeria, Gambia, Costa d’Avorio. In questo modo le richieste di asilo, e di rinnovo dei permessi di soggiorno per protezione speciale di persone provenienti da questi paesi, potranno essere respinte. E pensare che si stava cercando di includere anche il Sudan tra i “paesi terzi sicuri”. Perchè i rapporti tra le autorità di Roma e le milizie paramilitari erano consolidati da tempo. Adesso i janjaweed” delle RSF sono arrivati ad attribuirsi il merito della evacuazione degli italiani ( che se ne sono voluti andare) da Khartoum.
4. Anche con il Gambia l’Italia ha intensificato nel corso degli anni la collaborazione per una lotta “più efficace” contro l’immigrazione “irregolare”. Si è adottata la stessa politica estera nella direzione già seguita con il Sudan del ditttatore Bashir, deposto nel 2019, ma che oggi sembra rimesso in libertà.
Dopo una visita di una delegazione del governo del Gambia in Italia nel dicembre del 2015, veniva stipulato un Memorandum d’intesa (MoU), senza l’approvazione del Parlamento italiano, e nel tempo si sviluppavano contatti diplomatici operativi per rendere effettive le misure di allontanamento forzato, come respingimenti ed espulsioni. Rimane così a rischio la sorte dei richiedenti asilo denegati, probabilmente migliaia nei prossimi mesi, visto i criteri restrittivi adottati dalle Commissioni territoriali che saranno adottati dopo l’inclusione del Gambia, lo scorso marzo, nella lista dei paesi terzi sicuri, e l’abolizione della protezione speciale. Ai ricorrenti asilo denegati si vorrebbe anche ridurre, ulteriormente,le possibilità di un ricorso giurisdizionale effettivo. Dietro l’apparenza enfatizzata dai media che diffondono soltanto le immagini ed i dati degli sbarchi di massa, con il contorno tragico delle vittime in mare e degli scafisti arrestati a terra, spesso minori utilizzati come ultimo anello della catena di trafficanti, si nasconde la realtà di sfruttamento lavorativo, di abusi esistenziali, oltre che di natura fisica e sessuale, che i migranti, giunti in Italia, senza alcuna distinzione di status, siano essi “migranti economici” o richiedenti asilo, subiscono una volta che finiscono ingabbiati in un sistema di accoglienza ormai destrutturato, respinti ai margini del mercato del lavoro. Ma è proprio questo quello che si vuole, come emerge anche dalla abolizione della protezione speciale e dalla mancata possibilità di rinnovo per motivi di studio dei permessi di soggiorno rilasciati in precedenza a questo titolo. La protezione speciale non favorisce certo i trafficanti, ma permette forme di accoglienza ed inclusione che non possono essere escluse da leggi che violano il dettato costituzionale. L’obiettivo di “chiudere le frontiere” o di allontanare un numero magiore di “stranieri” irregolari dal territorio nazionale, non passa certo dall’abrogazione degli istituti di protezione, prima la protezione umanitaria, oggi la protezione speciale, che secondo la prevalente giurisprudenza, sono coperti dal dettato costituzionale. Sono sempre gli accordi con i paesi di origine che condizionano la effettiva esecuzione delle misure di allontnamento forzato. E sotto gli accordi, perchè siano operativi, occorre trasferire risorse economiche senpre più ingenti. In tutti i paesi nordafricani hanno come esempio gli accordi tra gli Stati europei ed Erdogan, costati ben oltre sei miliardi di euro. Ma se anche questo fosse possibile, con il supporto dell’Unione Europea, rimangono situazioni estese e sistematiche di violazione dei diritti umani che rendono quegli stessi accordi una ferita non rimarginabile delle Convenzioni internazionali in materia di diritti umani e di diritto di asilo.
5. Nell’agosto del 2016 si svolgeva una missione dell’ex ministro degli esteri Gentiloni in Nigeria, con l’obiettivo di ridurre gli arrivi di quelli che già allora venivano definiti sbrigativamente come “migranti economici”. Ad Abuja Gentiloni avrebbe “spiegato il senso del ‘migration compact’, proposto da Renzi e poi condiviso dall’Unione europea. Si arrivava quindi ad un’intesa formale con la Nigeria che inaspriva gli accordi firmati in precedenza, in particolare il MoU del 12 giugno 2011 (Memorandum d’intesa), intensificando la cooperazione pratica a livello di forze di polizia.
Nel caso della Nigeria l’Agenzia europea Frontex aveva già stipulato nel 2012 un accordo per rendere più efficaci le operazioni di rimpatrio forzato, assumendosi anche la responsabilità di organizzare voli charter congiunti per la riammissione dei migranti nigeriani, ritenuti “irregolari”, nel paese di origine. Inascoltate le critiche delle organizzazioni non governative. Oggi il rafforzamento di Frontex, malgrado le denunce a suo carico che hanno portato alle dimissioni del Direttore Fabrice Legeri, si sta concentrando proprio su questo versante, anche se appare evidente, di fronte al numero dei nuovi arrivi in Europa via mare, come la politica dei rimpatri forzati, della detenzione amministrativa e dei respingimenti in acque internazionali, sia assolutamente inefficace rispetto a persone che sono costrette alla fuga dai paesi di origine, ed adesso anche dai paesi di transito come la Libia e la Tunisia. Proprio per effetto di quelle politiche estere dei paesi europei, e dell’intera Unione europea, che per guadagnare consensi elettorali si preoccupano soltanto di rafforzare le misure repressive contro la cd. immigrazione illegale. Piuttosto che favorire la mobilità all’interno di canali legali di ingresso, ed un supporto economico prolungato che aiuti la ripresa economica in favore delle popolazioni civili, e non i trafficanti di armi di petrolio, di esseri umani, ed alla fine favorendo i “signori della guerra”, come si sta verificando in Libia, in Sudan ed in tante altre regioni dell’Africa dalle quali non giungono più notizie ufficiali.
Si continuano a confondere i concetti di “flussi migratori da gestire” e di “migrazioni forzate” rispetto alle quali gli Stati hanno l’obbligo di consentire comunque l’accesso in frontiera per un esame equo della richiesta di protezione. Lo impongono la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e le Direttive europee in materia di protezione internazionale, con la “copertura” dagli articoli 18 e 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che riconosce il diritto di asilo e vieta espulsioni collettive.
6. Vite spezzate in mare, “desaparecidos”nel cimitero Mediterraneo, ma anche vite spezzate a terra, sui nostri territori, sui quali migiiaia di cittadini di questi paesi, giunti spesso da minorenni, si stavano stabilizzando con un percorso di studio e che adesso per effetto del decreto legge “Cutro” n.20 del 2023, diventeranno irregolari per legge (a parte la residua possibilità di convertire il permesso di soggiorno per protezione speciale in un permesso di soggiorno per lavoro). Ripartirà quindi la macchina delle espulsioni di massa (almeno nei comunicati ufficiali) e si moltiplicheranno i centri di detenzione amministrativa. Anche se poi le misure di allontanamento forzato saranno bloccate da una valanga di ricorsi in Tribunale, gli effetti della precarizzazione, conseguente al mancato rinovo del permesso di soggiorno, sulla vita delle persone e sui rapporti di convivenza in Italia, saranno devastanti. E potranno costituire ulteriore elementi di propaganda proprio in favore di quelle parti politiche che se ne stanno rendendo direttamente responsabili.
7. Alla Strage di Cutro, che fino a prova contraria rimane una strage di Stato, malgrado le centinaia di vittime che la hanno seguita, fino ad oggi, si risponde con un decreto legge incostituzionale , ennesimo sfregio alle vittime che si continua a raccogliere in mare. Un provvedimento che solo apparentemente prevede “flussi di ingresso regolare”, ma che in realtà si inserisce in una politica che ha chiuso tutte le possibilità di ingresso legale in Italia ed in Europa, e che oggi abbatte le garanzie di difesa, moltiplica i centri di detenzione e tenta ancora una volta, dopo innumerevoli fallimenti, di promuovere operazioni di rimpatrio forzato, Con esiti disastrosi sia sotto il profilo della efficacia delle misure di allontanamento forzato, che di rispetto dei diritti umani. In realtà le politiche di “gestione dei flussi migratori”, attraverso lo spauracchio dei rimpatri forzati, e dunque attraverso accordi di polizia, hanno soltanto favorito governi autoritari, regimi militari e gruppi paramilitari che adesso condizionano la stabilità di gran parte dei paesi africani, ormai preda di regimi autocratici (come in Tunisia) o militari (come in Sudan). E in Libia non si potranno certamente “rimpatriare” persone migranti che provengono da paesi diversi, da tutto il “globo terraqueo”, per usare un termine caro alla Meloni.
Alla fine l’ossessione securitaria che si è rivolta contro le persone migranti ed ha spinto alla stipula di accordi e Memorandum d’intesa che non garantivano i diritti umani, si abbatterà sulle popolazioni di quei paesi d’arrivo, come l’Italia, che prima o poi risentiranno, quanto meno sui bilanci familiari delle persone meno abbienti, delle guerre che si stanno scatenando in tante parti del continente africano, con effeti già tangibili sulle coste del Mediterraneo. Si è investito tanto per garantirsi forniture energetiche da Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto, ma non è affatto scontato che i nuovi equilibri che si stanno determinando in Africa, in particolare nel Corno d’Africa, nel Sahel e in tutta la regione sub-sahariana, non mettano fuori gioco gli Stati come l’Italia che fanno politica estera soltanto sulla pelle delle persone migranti, senza guardare alle prospettive di tenuta delle popolazioni che abitano i paesi di transito. Per misurare gli effetti di queste politiche disumane di respingimento ed espulsione dei migranti non occorre certo attendere il previsto calo demografico che si realizzerà in pochi anni nel nostro paese.
Non sarà possibile per nessuno ignorare quanto accade in Libia, in Tunisia, in Sudan o in Nigeria, mentre è stato facile rimuovere gli effetti delle disfatte politiche europee in Somalia, in Afghanistan, in Irak, in Iran, in Siria. Per non parlare della questione palestinese, irrisolta da decenni. Adesso la “prima linea del fronte” attraversa il Mediterraneo, impressa sulla pelle di chi è costretto alla fuga, e nessuna popolazione civile che si affaccia su questo mare potrà ritenersi al sicuro.
Malgrado i tentativi di tregua, è evidente come il conflitto armato in Sudan si stia aggravando giorno dopo giorno, e presto potrebbe estendersi ad altri paesi sub-sahariani e persino alla Libia, per il supporto diretto offerto dal generale Haftar alle milizie paramilitari sudanesi delle RSF (Rapid Support Force). Rimane da chiedersi, sotto il più limitato profilo dei controlli di frontiera nel Mediterraneo, quale sarà la portata effettiva della collaborazione europea (attraverso i voli di ricognizione di Frontex e la missione Eunavfor Med IRINI) con la cd. Guardia Costiera libica. Appare invece certo il destino delle persone che dopo essere state “soccorse” dai mezzi libici, donati in misura crescente dal nostro paese, saranno riportate a terra e internate nei tanti centri di trattenimento che esistono da anni in Libia. Luogni nei quali si verificano abusi di ogni sorta, come documentato, oltre che dalle denunce delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa, dai corpi e dalle voci dei migranti che sono riusciti a fuggire, e che hanno comunque raggiunto l’Italia. A queste voci, a queste testimonianze si deve restituire ascolto.
Occorre soprattutto rompere il silenzio che, non solo in Italia, circonda i rapporti di diritto internazionale che scaturiscono dal Processo di Khartoum, dal Migration Compact, e dai più recenti Piani europei ed italiani per coinvolgere i paesi terzi nelle politiche di contrasto delle migrazioni, rimettendo in discussione controlli di frontiera, rapporti di cooperazione economica e di supporto politico sui quali si gioca la vita di migliaia di persone. Un silenzio imposto dai vertici politici e militari, che cercano in ogni modo di nascondere i propri fallimenti, anche quando si continuano a contare le vittime, non solo in mare, delle politiche di esternalizzazione e di accordi con i paesi terzi, per fermare i migranti. Anche quando questi paesi non rispettano le Convenzioni che sanciscono i diritti fondamentali che spettano a qualsiasi essere umano, già in base alla Costituzione italiana, ed il diritto internazionale universalmente riconosciuto. Chi ha concluso accordi con le peggiori dittature del mondo non appare oggi credibile, e tutti i partiti che si oppongono all’attuale governo, ma che hanno sempre votato il finanziamento degli accordi con la Libia e delle missioni militari italiane nei paesi di origine, per riconquistare una credibilità ormai perduta, dovrebbero fare una seria autocritica al loro interno, Solo da queste basi si potrebbero impostare nuove politiche estere, a livello europeo, e nei rapporti con i paesi terzi. Ma con le elezioni europee in vista, questa svolta non si vede. Ed anzi sembra che i partiti apertamente razzisti raccolgano un consenso sempre maggiore. Ancora una volta toccherà ai cittadini solidali, ai giornalisti indipendenti, ai team legali che difendono i diritti umani, alle associazioni ed a tutte le reti locali di solidarietà, fare fronte comune contro le politiche anti-immigrazione del governo, come non si è fatto abbastanza in passato.
La nuova resistenza parte dal riconoscere protagonismo alle vittime, senza arretrare sul fronte della difesa attiva delle persone migranti, che in futuro saranno bersaglio di una valanga di provvedimenti di diniego e di respingimento, difesa che comporterà il supporto di tutte le denunce che dovranno seguire, anche a livello internazionale, per sanzionare le autorità responsabili. Il distacco dell’Italia dall’Europa dei diritti, ammesso che questa continui ad esistere, diventa sempre più grande.