Una condanna in appello malgrado l’errore di persona: esiste ancora il diritto di asilo ?

di Fulvio Vassallo Paleologo

1. Introduzione.

La Corte di Assise di Appello di Palermo ha confermato integralmente la sentenza di  primo grado che, tra altri coimputati per diversi reati ,ha condannato  per il solo capo relativo al reato di agevolazione dell’immigrazione clandestina, Medhanie Tesfamariam Behrearrestato nel maggio del 2016 a Khartoum in Sudan con una operazione congiunta dei servizi di sicurezza sudanesi (NISS) in collaborazione con i servizi italiani e inglesi. Il falegname eritreo è rimasto per tre anni in carcere a Palermo, ritenuto erroneamente un importante trafficante di esseri umani. perchè scambiato per Medhanie Yedhego Mered, alias Il Generale, uno dei più pericolosi trafficanti operanti in Libia tra il 2013 e il 2016.

Sul caso, subito dopo la sua traduzione in Italia, era esploso uno scontro fra procure proprio sull’identità dell’arrestato e, come gli atti processuali riferiscono, tutti  i testimoni eritrei ascoltati dagli inquirenti avevano confermato il gravissimo errore di persona. Fino alla sentenza di condanna in primo grado, e poi nel corso del giudizio di appello la Procura di Palermo ha insistito sulla erronea identità attribuita a Tesfamriam Berhe dal momento del suo arresto da parte dei servizi sudanesi.

Tra il 2013 e il 2015 circa Mered “il Generale” avrebbe fatto parte della presunta cupola di trafficanti di esseri umani a cui apparteneva anche Ermias Ghermay, dal 2015 indicato dagli inquirenti italiani come il responsabile delle stragi di Lampedusa dell’ottobre 2013, ancora oggi latitante. L’arresto del presunto Mered, avvenuto a Khartoum il 24 maggio 2016, era stato presentato dall’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano come uno straordinario risultato di cooperazione tra forze di intelligence internazionali. E invece i vero trafficante Mered rimane ancora oggi libero, dopo che per anni gli inquirenti palermitani hanno pensato di tenerlo sotto chiave nel carcere di Pagliarelli. Il giornalista Lorenzo Tondo che in un libro ne ha raccontato la storia ed i risvolti del processo di Palermo, mettendo bene in evidenza lo scambio di persona al centro del processo, dopo anni in cui è stato intercettato, è stato poi denunciato per quanto scritto nel suo libro nei confronti della Procura di Palermo e dovrà affrontare un giudizio davanti al Tribunale di Caltanissetta. Sul caso è adesso intervenuto il Consiglio d’Europa.

2.  Il procedimento penale contro Tesfamariam Merhe nel quadro delle inchieste Glauco ( e degli accordi con i paesi terzi).

L’inchiesta sul falegname eritreo, avviata nel 2016,  dopo l’arresto di Tesfamariam Berhe in Sudan e la sua traduzione in Italia, veniva inserita dalla Procura di Palermo nel quadro più ampio di indagini e quindi procedimenti penali denominati Glauco, avviati dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 ed aventi come principali indagati numerosi cittadini eritrei ritenuti responsabili di avere creato uno o più sodalizi volti alla organizzazione della “rotta terrestre dei migranti” per raggiungere dal Corno d’Africa  il Mediterraneo. Si contestava ai componenti di queste organizzazioni la creazione di  contatti con gli organizzatori delle “traversate” del Mediterraneo, ed ancora, dopo lo sbarco in Italia, per raggiungere diversi paesi del Nord Europa. Le indagini denominate Glauco, avviate dalla Procura di Palermo dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 , sono state sostenute dalle dichiarazioni di un “trafficante” pentito di nazionalità eritrea, individuato già dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, e poi fermato nel luglio del 2014.  Ma alla base delle contestazioni rivolte agli imputati si pone una mole immensa di intercettazioni, disposte dalle autorità inquirenti, in molti casi tra utenze collocate nei paesi terzi, come il Sudan e la Libia, nei quali si trovavano i trafficanti e i migranti forzati in fuga dai paesi del Corno d’Africa e dell’Africa sub-sahariana. Una parte di queste intercettazioni riguarda anche imputati residenti in paesi europei, ritenuti colpevoli di avere agevolato il passaggio di decine di migliaia di migranti verso ill nord-europa, in una fase particolare (2015-2016) nella quale le autorità di polizia italiane procedevano alla identificazione tramite prelievo delle impronte digitali di una parte soltanto dei migranti sbarcati in Italia a seguito delle operazioni di salvataggio  effettuate nel Mediterraneo centrale, prima dai mezzi dell’Operazione Mare Nostrum, e poi, a partire dal 2015, da unità appartenenti a Frontex e quindi da imbarcazioni delle ONG (2016).  Nello stesso periodo alcuni paesi europei ( in particolare la Germania) sospendevano di fatto l’applicazione del Regolamento Dublino III seppure per i soli cittadini siriani, ma con un generale allentamento dei controlli, e davano libero accesso ai richiedenti asilo, anche se sbarcati in un paese di primo ingresso nel quale le loro domande di protezione avrebbero dovuto essere prese in carico. In questo quadro che mutava radicalmente nel 2016, con le decisioni del Consiglio dell’Unione Europea e della Commissione maturate alla fine del 2015, con la creazione dell’approccio Hotspot ed il rafforzamento del sistema repressivo europeo dell’immigrazione “illegale”. Si decideva in quello stesso periodo, dopo la conclusione delle intese con la Turchia (2016), la proliferazione degli accordi bilaterali con i paesi terzi, anche se non erano garantiti i diritti umani, e proprio nel 2016 veniva concluso anche un accordo bilaterale (Memorandum d’intesa) tra Italia e Sudan, firmato da Franco Gabrielli (allora capo della polizia italiana e direttore generale del dipartimento di pubblica sicurezza) e Hashim Osman el Hussein (direttore generale della polizia sudanese) a Roma il 3 agosto 2016, che interveniva dopo mesi nei quali si erano sperimentate con diverse modalità pratiche di cooperazione giudiziaria e di polizia.

3. Tecniche di indagine e rispetto dei diritti umani nei paesi di origine e transito

Le tecniche di indagine seguite, poi sviluppate, dopo la condanna del trafficante “pentito” Atta nel procedimento Glauco I, con i procedimenti Glauco II , Glauco III, e Glauco IV, modellati sulla base della legislazione italiana antimafia, si sono rivelate inadeguate rispetto ai problemi di difesa dei diritti umani nei paesi di transito e alla reale dimensione criminale delle organizzazioni, non solo a carattere nazionale, che aiutavano gli eritrei in fuga dalla dittatura nel loro paese a cercare rifugio in Europa, in assenza di qualsiasi canale legale, di ingresso. Le condanne inflitte nei diversi processi Glauco, malgrado l’entità enorme degli anni di detenzione inflitti, hanno colpito in gran parte personaggi minori, responsabili soprattutto di agevolazione dei successivi passaggi dall’Italia verso altri paesi, mentre sono rimasti impuniti, anche quando sono stati individuati, tutti i capi delle organizzazioni criminali basati in Libia, in Sudan ed in altri paesi dell’Africa sub sahariana.  Non si è riusciti in sostanza ad intaccare il cartello di criminali che operavano (ed operano ancora oggi) in Africa, riuscendo a contare su rapporti privilegiati con le autorità di governo fortemente caratterizzati da conflitti interni e da forme diffuse di corruzione. Gli accordi bilaterali conclusi con molti paesi terzi, i casi del Sudan e della Libia sono emblematici, ma si potrebbe ricordare l’Egitto di Al Sisi, hanno avuto soprattutto lo scopo, peraltro non raggiunto, del contenimento delle partenze verso l’Europa, e di una maggiore “effettività” delle espulsioni e dei respingimenti alle frontiere esterne dell’Unione Europea, senza un particolare riguardo al contrasto effettivo delle organizzazioni criminali che gestivano (e gestiscono ancora oggi) il traffico di esseri umani. Solo in tempi più recenti il coinvolgimento delle organizzazioni non governative e degli stessi migranti vittime dei trafficanti si sono ottenuti i primi risultati processuali ,ma sempre con la condanna in Italia di personaggi marginali rispetto alla ramificazione delle bande di trafficanti che continuano ad avere campo libero nei paesi di origine e di transito. Questi più recenti risultati processuali sono stati ben diversamente fondati rispetto alle indagini dei procedimenti Glauco che si sono basate prevalentemente su intercettazioni ambientali e sulla legislazione relativa ai cd. “pentiti di mafia”.

Nel procedimento penale che ha riguardato come principale imputato  il presunto trafficante eritreo Mehred definito “il Generale”, mentre in realtà si trattava di un semplice falegname eritreo di nome simile a quello del trafficante, è assodato negli atti processuali, come  dal profluvio di intercettazioni raccolte, ne siano state utilizzate soltanto una manciata e con contenuti assolutamente incerti. Al punto che, nella parte che riguarda Tesfamariam Berhe, si è verificata la duplicazione dei nomi e dunque la superfetazione di possibili concorrenti nel reato, se non il totale travisamento della portata di quanto rilevato dalla polizia giudiziaria e riferito in dibattimento. Si deve inoltre osservare come il “pentito” Atta, ritenuto di fondamentale importanza nei vari processi Glauco, si sia contraddetto in numerose occasioni e non abbia  asseverato l’errore di persona in cui sono incorsi gli inquirenti, salvo poi, sotto la pressione della procura, rendere dubbie alcune sue dichiarazioni in ordine all’identità dell’imputato Tesfamariam Behre. Di certo il clamore mediatico che ha caratterizzato l’arrivo in Italia sotto scorta di polizia del falegname arrestato a Khartoum nel maggio del 2016 si è dissolto dopo la sentenza di primo grado che riconosceva tre anni dopo l’errore di persona commesso dagli inquirenti, ed ancora meno spazio ha trovato sui media la notizia della recente conferma della sentenza di appello che rende definitivo l’accertamento dello scambio di persona.

4. L’errore sullo scambio di persona e le modalità dell’arresto di Tesfamariam Berhe a Khartoum

 Il caso del presunto capo dei trafficanti eritrei, arrestato dalle autorità sudanesi a Khartoum nel maggio del 2016 e consegnato dopo sommarie attività di indagine svolte dal NISS (il servizio segreto sudanese), in assenza di difensore, e di controllo giurisdizionale, alla magistratura italiana, che autorevoli fonti (inclusa la Procura di Roma) sostenevano da subito essere oggetto di uno scambio di persona, dovrebbe fare riflettere sulla effettiva  capacità dei paesi coinvolti nel Processo di Khartoum, e interessati ai Migration compact proposti dall’Italia (governo Renzi) e dall’Unione Europea, di collaborare positivamente nella lotta a trafficanti e terroristi. e quindi sulla residua valenza del diritto di asilo, che si dovrebbe riconoscere a quanti tentano di fuggire da questi paesi, non come libera scelta, ma perchè esposti al rischio della vita e delle più aberranti violazioni dei diritti umani. La parte più lacunosa delle sentenze di primo grado, ed adesso di appello, che hanno riguardato Tesfamariam Behre si ricava proprio dalla valutazione delle fasi dell’arresto a Khartoum in una operazione congiunta dei servizi sudanesi, inglesi ed italiani. Affermare, come si evince dalle sentenze appena citate, che anche nel caso del Sudan  il nostro ordinamento giuridico ammette la valenza di normative processuali penali di paesi stranieri nei quali si compiono attività di polizia giudiziaria, quando in questi paesi “siano rispettati i principi fondamentali ed inderogabili dell’ordinamento giuridico italiano” “tra i quali l’inviolabile diritto di difesa”, ma non si possono trascurare i diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione, equivale a negare l’evidenza. Nel 2016 nel Sudan del dittatore Bashir, già sottoposto ad indagini da parte della Corte penale internazionale, non era certo sostenibile che le attività di arresto e di detenzione “in incommunicado”, senza garanzie di difesa e senza convalida giurisdizionale fossero compatibili con il rispetto dei diritti fondamentali, e segnatamente del diritto di difesa, sanciti dalla nostra Costituzione. I rapporti internazionali sulle violazioni dei diritti umani da parte di agenti del NISS, i servizi di sicurezza sudanesi sono accessibili a tutti, ma evidentemente non hanno influenzato il giudizio della Corte di Assise e poi della Corte di assise di Appello di Palermo.

Per quanto riguardo la valutazione dei diritti umani nei paesi nei quali si trovavano i protagonisti e gli imputati della vicenda processuale, si allude solo genericamente alla situazione in Libia, ma nulla si dice sulla situazione dei diritti umani, anche con specifico riferimento ai cittadini eritrei,  in Sudan nel 2016.

Rapporti delle Nazioni Unite confermano anno dopo anno  le analisi sui migranti in fuga dai paesi africani attraverso il Sudan e la Libia. Troppe volte ritenuti “clandestini” o trafficanti, a seconda dei ruoli che si voleva attribuire loro, mentre erano soltanto profughi in fuga. I dossier relativi alla situazione dei profughi eritrei in Sudan, soprattutto nel 2016, ma anche negli anni successivi, non danno adito a dubbi, come le testimonianze concordi di giornalisti e di quanti in quello stesso anno sono riusciti a fuggire da quel paese raggiungendo l’Europa.

5. L’accertamento dell’errore sulla persona e l’assoluzione per i reati associativi

Anche in grado di appello la Procura ha insistito sullo scambio di persona accertato dalla Corte di Assise di Palermo in primo grado, tentando ancora una volta di rifare in pratica un altro processo, con il rinnovmento di atti istruttori ormai ampiamente destituiti di fondamento o addirittura riesumando i brogliacci di indagine della polizia giudiziaria, già smentiti dalla sentenza di primo grado.

Tesfamariam Behre è stato cosi’ assolto ancora una volta dalle accuse più gravi, tra cui quella di associazione per delinquere finalizzata al traffico dei migranti, che gli erano state rivolte nel giudizio di primo grado per l’evidente errore di persona nel quale erano incappati gli inquirenti, ma è stato condannato anche dalla Corte di Assise di Appello, per avere favorito l’ingresso in Italia di quattro suoi familiari e amici in fuga dall’Eritrea. Senza che assumesse alcun rilievo quanto poi accertato dalla Commissione territoriale di Siracusa che nel mese di agosto del 2019 gli riconosceva lo status di rifugiato, e dunque la sua condizione di persona esposta a gravi rischi di persecuzione individuale, tanto nel suo paese, quanto in Sudan. Circostanza che non assumeva neppure rilievo per escludere, in ordine al contestato reato di agevolazione, la sua punibilità, in base alla clausola esimente di stato di necessità, per avere aiutato alcuni parenti a sottrarsi alle stesse violenze dalle quali era riuscito a fuggire. Come non avevano assunto alcun rilievo le violenze subite dalla polizia sudanese a Khartoum, subito dopo il suo arresto avvenuto nel mese di maggio del 2016,, prima della consegna agli agenti di polizia italiani che lo trasferivano con grande rilievo mediatico in Italia. Al culmine di una stagione di collaborazione con le autorità sudanesi che nello stesso periodo si macchiavano di gravissimi crimini contro l’umanità, che determinavano poi la caduta del capo del governo a seguito di sollevazioni popolari e di un colpo di Stato militare. Era anche il periodo nel quale il governo sudanese guidato dal dittatore Bashir, indagato dal Tribunale Penale internazionale, dopo un accordo con l’Eritrea, riconsegnava al regime di Afewerky decine di rifugiati che si trovavano legalmente a Khartoum e che venivano nel giro di poche settimane privati dei documenti di soggiorno e rispediti nelle galere eritree, nelle quali molti trovavano la morte a seguito delle torture subite. 

6.  La conferma della condanna per agevolazione dell’immigrazione clandestina

I giudici della Corte di Assise di Appello di Palermo hanno confermato la condanna a carico di Tesfamariam Behre per agevolazione dell’immigrazione clandestina (art. 12 del T.U. sull’immigrazione n.286/98), in ordine a fatti avvenuti tra gennaio e luglio del 2016, quindi in due casi addirittura dopo l’arresto del falegname eritreo, avvenuto il 24 maggio dello stesso anno, avvalendosi delle stesse argomentazioni adottate dai giudici di primo grado, argomentazioni che nella sentenza vengono riportate per esteso senza alcun ulteriore approfondimento. Le responsabilità penali ascritte al falegname eritreo, già vittima di uno scambio di persona, si ricavano esclusivamente da alcune intercettazioni su una utenza telefonica che sarebbe stata nella disponibilità dell’imputato, ed altre più dubbie, dalle quali risulterebbe come lo stesso avesse contattato alcuni trafficanti allo scopo di fare arrivare in Europa quattro suoi amici o congiunti. Non viene neppure chiarito se il telefono intercettato, peraltro in assenza di rogatoria internazionale, fosse in suo uso esclusivo, o fosse piuttosto nella disponibilità anche di altri soggetti, cosi’ come fortemente dubbie rimangono le perizie foniche sulle stesse intercettazioni, che per tutto il processo hanno dato luogo a notevoli inesattezze, fino allo scambio di un avverbio con il nome di una persona. Ma di questo, come della legittimità delle intercettazioni “estero su estero”, in assenza di una specifica rogatoria, ne tratteranno meglio i ricorsi degli avvocati difensori, che pure affronteranno in Cassazione altre delicate questioni di diritto processuale penale.

Anche i giudici della Corte di Assise di Appello di Palermo ritengono che per escludere l’ignoranza della norma penale sia sufficiente la ricezione in Sudan, paese nel quale il falegname Mered si trovava da anni, di una televisione rritrea che avrebbe dovuto escludere “ la sua inevitabile ignoranza sulle cose italiane”. Come se i giudici di merito avessero provato che quella stessa televisione fosse ricevibile in Sudan e che Tesmafariam Behre ne fosse uno spettatore, tanto da diventare consapevole della normativa penale italiana che sanzionava l’agevolazione dell’ingresso irregolare. Non si vede sulla base di quali accertamenti di fatto relativi alla persona dell’imputato, al di là di mere congetture, si potesse affermare che “ è poco ipotizzabile, pertanto, che nei luoghi di origine di Tesfamariam Berhe potesse aversi la percezione della liceità ,in Europa, dei flussi migratori gestiti dalle consorterie criminali africane”(pag.104 della sentenza). Il carattere meramente presuntivo dell’argomentazione si traduce in un evidente difetto di motivazione. E Tesfamariam Berhe aveva lasciato il suo paese di origine due anni prima dell’arresto poi avvenuto nel maggio del 2016 a Khartoum.

Né sembra avere la consistenza di motivazione, rivelandosi una motivazione apparente, la considerazione secondo la quale la buona fede dell’imputato relativa all’ignoranza di norma penale andava esclusa perché lo stesso “per evitare un qualsiasi rimprovero di leggerezza” avrebbe dovuto informarsi “presso gli uffici competenti, documentandosi sui dubbi eventualmente sortigli”. Come si può parlare di “uffici competenti” in Libia o in Sudan, paesi nei quali i rifugiati eritrei sono sottoposti ancora oggi, come lo erano nel 2016, al tempo dell’arresto di  Behre, ad una sistematica caccia all’uomo ed a una gravissima violazione dei propri diritti fondamentali, come nel caso del falegname eritreo è provato dal riconoscimento dello status di rifugiato da parte della Commissione territoriale di Siracusa? I giudici di appello hanno considerato che l’imputato Tesfamariam Behre era stato costretto a lasciare il proprio paese già nel mese di ottobre del 2014 e che versava in una condizione di forte rischio personale anche in Sudan?

Si ha qui una dimostrazione esemplare di come il ricorso alle massime della Corte di Cassazione, frequente in tutte le parti della decisione della Corte di Assise di appello di Palermo, applicata al caso concreto di una persona fortemente a rischio, arrestato in un paese (il Sudan) che ha concluso accordi con il governo (eritreo) dal quale si è fuggiti per il timore di subire persecuzioni, poi riconosciute in Italia dalla decisione della Commissione territoriale di Siracusa che concedeva lo status di rifugiato, possa portare a conseguenze applicative della norma penale in palese contrasto con gli obblighi di motivazione, ma anche con i più elementari principi della logica e della dimensione positiva dei diritti umani e del diritto di asilo sanciti dalle Convenzioni internazionali.

Non era peraltro emerso alcun tipo di profitto a favore di Tesfamariam Behre, neppure come effetto mediato o indiretto dell’attività posta in essere in favore peraltro di suoi parenti, che cercavano di fuggire in Europa. Tutte circostanze che andavano (e vanno) considerate per valutare la responsabilità penale dell’imputato. E sulle quali la Corte di Assise di Appello non si è pronunciata, confermando la sentenza di condanna,  con un rinvio totale (anche attraverso autentici “copia e incolla”), a quanto accertato in primo grado. Non si può neppure tacere come alcune sentenze citate dai giudici per respingere le censure della difesa facciano riferimento a precedenti giurisprudenziali nei quali si trattava della errata percezione individuale relativa alla antigiuridicità del comportamento penalmente rilevante, in situazioni nelle quali ricorrevano fattispecie associative. Che invece, nel caso dell’imputato Tesfamariam Behre, almeno in grado di appello, andavano escluse dopo l’accertamento ormai definitivo dello scambio di persona di cui era stato vittima.

7.  Il reato di agevolazione dell’immigrazione clandestina e le cause di giustificazione (art.54 cod.pen.)

Il procedimento penale che la Procura di Palermo aveva promosso dopo l’arreso del preteso trafficante “Il generale” in Sudan, era basato sul collegamento tra indagini e condanne desunte da altri processi Glauco, a partire dal 2014, al fine di dimostrare l’esistenza di un vincolo associativo tra l’imputato “Mered”arrestato a Khartoum ed altri eritrei arrestati in Italia dopo il loro sbarco a seguito di operazioni di soccorso in mare. L’accertamento di uno scambio (errore) di persona, confermato con nettezza anche dalla Corte di Assise di Appello di Palermo, non solo destituisce di fondamento la maggior parte delle accuse contestate al falegname eritreo (ai capi A,B,C,D), ma svuota di nessi logici l’insieme delle contestazioni contenute nei residui capi di accusa che i giudici della Corte di  assise di appello, ai capi E ed F della sentenza, fanno comunque valere nei confronti dell’imputato ( relativi al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina). Al di là della dubbia ricorrenza dell’elemento soggettivo, non risulta neppure provato un ingiusto profitto che sarebbe stato incassato da Berhe. Laddove la incertezza delle perizie foniche, le modalità del sequestro del suo telefono a Khartoum, e la circostanza che lo stesso sia stato occasionalmente prestato ad altre persone, non premettono di provare neppure un profitto indiretto ricevuto dallo stesso Tesfamariam Berhe.

Sembra invece ricorrano tutti gli estremi per il riconoscimento della esimente dello stato di necessità, che non si ricava solo da fatti notori ma da documenti ufficiali delle Nazioni Unite, dalle testimonianze dirette da chi è in contatto con le persone in fuga da quei territori, e dagli accertamenti di organi ufficiali dello Stato come le Commissioni territoriali attivare presso le Prefetture italiane (quella di Siracusa ha riconosciuto lo status di rifugiato a Tesfamariam Berhe). Come riferiva Cornelia Toelgyes nel mese di giugno del 2016, al tempo dell’arresto di Tesfamariam Berhe a Khartoum, “Le forze dell’ordine arrestano chiunque abbia anche solo lontanamente le sembianze di un eritreo. Effettuano razzie nelle loro case, li bloccano per strada o sul posto di lavoro. La polizia straccia i permessi di soggiorno a coloro che ne sono in possesso e porta tutti quanti in galera con l’accusa di immigrazione clandestina. Si salva solamente chi ha con se cinquecento dollari per pagare “la multa” (cioè il “pizzo”) e sono in pochi a potersi premere la sanzione”. Sempre secondo la stessa fonte, “Da settimane gli eritrei di Khartoum sono terrorizzati, non escono di casa, non riescono a procurasi il cibo. Quando la polizia li trova nelle loro abitazioni, li spoglia di tutto: del poco denaro, dei cellulari, dei pc. Una volta in prigione, non possono contattare nessuno, sono completamente isolati, nell’attesa della deportazione forzata”.

Non si può peraltro parlare, come fanno i giudici di appello, di un “bilanciamento” che sarebbe stato operato dalla sentenza di primo grado tra le ragioni della parte accusatrice e della difesa, dal momento che l’intero impianto accusatorio era basato su un grossolano errore su identità di persona che le accurate indagini difensive  hanno messo bene in evidenza con accertamenti probatori incontestabili che sono state ritenute inoppugnabili anche i sede di appello.  Mentre tutti i testi richiesti dalla Procura  nel giudizio di primo grado sono stati ammessi ed auditi più volte, pur confermando una identità che poi è risultata erronea, non si è ammessa l’audizione dei testi indicati dalla difesa, che avrebbero potuto provare la ricorrenza di elementi di fatto utili per il riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 54 del Codice penale (stato di necessità).

Gli elementi contenuti nel ricorso dell’imputato Tesfamariam Behre, se fossero stati portati all’esame del collegio con il compendio testimoniale richiesto e non ammesso, avrebbero potuto comportare un ribaltamento della sentenza di condanna per la parte relativa al reato di agevolazione dell’immigrazione clandestina, tenendo conto anche della cronologia dei fatti e del riconoscimento dello status di rifugiato ex Convenzione di Ginevra all’imputato, ritenuto per anni un grande trafficante e poi rivelatosi alla prova dei fatti vittima di un clamoroso errore di persona. Ci sarebbero stati dunque tutti gli elementi per una diversa motivazione “rinforzata” da parte dei giudici di appello per valutare diversamente, rispetto alla condanna inflitta in primo grado, la posizione di Tesfamariam Berhe.

Non sembra proprio possibile operare un “bilanciamento” tra la rinnovazione degli atti istruttori proposti in grado di appello dalla Procura ed i motivi di ricorso da parte della difesa di Tesfamariam Berhe, tra cui rientravano ragioni che avrebbero dovuto imporre un completamento della fase istruttoria, proprio per effetto dell’accertato scambio di persona.  Ma su questo punto la corte di Assise di Appello di Palermo ha chiuso qualunque possibilità di completamento dell’istruttoria, con argomentazioni molto erudite dal punto di vista dei precedenti giurisprudenziali richiamati, ma con scarsa attenzione al reale contributo che i testi richiesti dalla difesa dell’imputato Tesfamariam Behre avrebbero potuto apportare, al punto che in  diverse parti della sentenza, tra i “connazionali” dell’imputato, per cui si chiedeva la citazione come testimoni, si inseriscono anche i nomi di giornaliste europee che non avevano certo nazionalità eritrea. Questa circostanza non ha solo carattere di mero errore formale, ma dimostra quanta poca attenzione si sia accordata alla richiesta della difesa che, una volta accertata la diversa identità dell’imputato, chiedeva di integrare in appello il quadro probatorio che era emerso nel giudizio di primo grado. Secondo il collegio giudicante in appello, tra i temi delle deposizioni richieste dalla difesa e non concesse ci sarebbero circostanze “del resto notorie” relative alla situazione dei campi di prigionia in Libia, e sulla base di questa osservazione si reitera il diniego dell’ammissione delle testimonianze. Mentre invece si incorre in un evidente difetto di motivazione perché le testimonianze richieste erano relative anche alla situazione dei profughi eritrei in Sudan e alla situazione di quanti nel 2016 rischiavano di essere respinti di nuovo da Khartoum in Eritrea, circostanze che non costituiscono “fatto notorio” ma che possono ricavarsi solo dai contributi resi pubblici nel tempo dai testi richiesti e non ammessi. Sotto questo profilo il diniego nell’ammissione dei testi in primo grado, ed a maggior ragione in secondo grado, dopo l’accertamento dell’errore sulla persona dell’imputato Tesfamariam Behre, configura un difetto di motivazione della decisione adottata da parte della Corte di Assise di appello.

8. Conclusioni

Leggendo le diverse parti della sentenza relative all’imputato Tesfamariam Behre, per quanto osservato fin qui, non mancano passaggi nei quali si riscontra assenza di motivazione o una motivazione apparente, se non manifestamente contraddittoria. Appare soprattutto contraddittoria la posizione dei collegi giudicanti che hanno, per un verso, riconosciuta la situazione di grave pericolo nella quale versavano (e versano ancora oggi) i profughi eritrei in Libia, quasi come fatto notorio, mentre non hanno ritenuto che in Sudan si potessero verificare abusi altrettanto gravi, fino alla deportazione subita proprio nel 2016 da numerosi cittadini eritrei, allora rifugiati a Khartoum, verso l’Eritrea, circostanze che però non sono state approfondite nel corso delle lunghissime fasi dibattimentali per la mancata ammissione delle prove testimoniali richieste dalla difesa.

La mancata audizione di numerosi testimoni indicati dalla difesa  e non ammessi dal collegio giudicante può configurare un caso di omesso esame su circostanze che avrebbero potuto risultare decisive ai fini della sentenza di appello della Corte di Assise di Palermo, che non ha neppure preso in considerazione la circostanza, e la documentazione allegata, del riconoscimento dello status di rifugiato al falegname eritreo.

Leggendo le parti della sentenza relative all’imputato Tesfamariam Behre si rileva in alcuni passaggi assenza di motivazione o una motivazione apparente, se non manifestamente contraddittoria. Sembrerebbe infatti che lo stesso si trovasse a Khartoum in una situazione di assoluta sicurezza e che i suoi amici e parenti eritrei intraprendessero il viaggio verso l’Europa senza una reale costrizione, magari solo per ragioni economiche. Mentre invece lo spietato regime di Afewerki continuava a torturare ed a uccidere i giovani che si ribellavano. Come era confermato dalle conclusioni della Commissione d’Inchiesta Onu sull’Eritrea, rese pubbliche proprio nel giugno del 2016 a Ginevra, nello stesso periodo in cui il falegname eritreo veniva arrestato a Khartoum e trasferito in Italia.

Si potrebbe anche configurare la falsa applicazione dell’art. 12 del Testo Unico n.286 del 1998 sull’immigrazione, a fronte delle condotte accertate nei confronti dell’imputato Tesfamariam Behre delle circostanze nelle quali si trovava con altri profughi eritrei in Sudan nella primavera del 2016 e del tempo nel quale tali condotte sono maturate. La ricostruzione del profilo soggettivo relativo al profitto ingiusto, diretto o indiretto, appare anche nella sentenza di appello del tutto approssimativa, e legata a movimenti di denaro di cui vi sono solo labili tracce in qualche intercettazione, in comunicazioni rivolte ad amici o parenti dell’imputato, di dubbia consistenza probatoria.

Si può  quindi ritenere che gli avvocati difensori presenteranno un ricorso in Cassazione, Anche la sentenza della Corte di Assise di Appello, proprio per non avere aggiunto nulla rispetto alla sentenza di primo grado, non va esente da diverse censure che dovranno essere esaminate dai giudici di legittimità. Il principio della doppia decisione conforme sull’accertamento dei fatti che non richiederebbe un ulteriore accertamento probatorio in grado di appello si scontra infatti con i diritti di difesa dell’imputato, dopo il riconoscimento di uno scambio di persona sul quale era stato imbastito l’intero processo di primo grado. Diritti di difesa che sono riconosciuti in tutti i gradi del giudizio dalla Carta Costituzionale e dalla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo.

Magari sarà finalmente l’occasione non solo per  riconoscere chi è  davvero innocente, dopo che nei due gradi del giudizio di merito non si è voluto dare ascolto alle indicazioni dei testi, proposti dalla difesa, sulle crudeli catene del traffico, dai paesi dell’Africa subsahariana attraverso la Libia, catene criminali che da anni sono descritte da giornalisti ed esperti indipendenti, prima che le indagini penali cominciassero ad accertare le responsabilità dei compartecipi presenti in Italia. Non si può continuare a  basare la lotta contro l’immigrazione irregolare sulla collaborazione con servizi di sicurezza stranieri che, non solo in Sudan o in Libia, risultano responsabili di documentate violazioni dei diritti umani e, in paesi nei quali non esiste lo “stato di diritto” (rule of law), rimangono ancora oggi ampiamente infiltrati e corrotti fino ai livelli più alti.