di Emilio Drudi
Oltre 500 profughi eritrei detenuti nella prigione di Al Huda, in Sudan, vivono nell’incubo di essere riconsegnati al regime di Asmara dal quale sono fuggiti, a rischio spesso della vita stessa. Per il governo di Khartoum è ormai la norma: negli ultimi mesi sono centinaia i rifugiati fermati dalla polizia e rinchiusi in carcere, in attesa della espulsione forzata. Oltre mille sono incappati nel maggio scorso nelle retate organizzate dalle forze di sicurezza a Khartoum, diventata uno dei principali hub di transito per i migranti provenienti dal Cormo d’Africa, dall’Africa sub sahariana e persino dal Medio Oriente. Operazioni analoghe – secondo quanto hanno riferito alcuni profughi – sono state poi estese al resto del territorio. Appare evidente che dietro a questa scelta ci siano un disegno e un accordo preciso. Un disegno – sospettano diverse organizzazioni umanitarie – legato probabilmente alla fitta serie di trattati attraverso i quali l’Unione Europea ha deciso di delegare il controllo dell’immigrazione, prima ancora che arrivi alle sponde del Mediterraneo, a vari Stati africani, incluse dittature come quella di Al Sisi in Egitto, di Isaias Afewerki in Eritrea e, appunto, di Al Bashir in Sudan. E’ il caso, ad esempio, del Processo di Rabat (2006), del Processo di Khartoum (2014) e degli accordi di Malta firmati nel dicembre 2015, che confermano la progressiva esternalizzazione dei confini europei, spostandoli sempre più a sud, nel cuore dell’Africa.
L’allarme per Al Huda è scattato quando all’agenzia Habeshia sono pervenute le richieste di aiuto dei familiari di profughi minacciati di rimpatrio forzato. Don Mussie Zerai, il presidente dell’agenzia, ha immediatamente interessato l’Unhcr, il Commissariato dell’Onu per i rifugiati, perché faccia tutto il possibile per impedire quella che appare una autentica, terribile deportazione di massa. Tra i prigionieri, tra l’altro, ci sono numerosi minorenni, ragazzi di appena 16 o 17 anni, donne e uomini. Ed è noto perché siano così tanti gli eritrei giovanissimi tra i fuggiaschi: scappano appena prima o subito dopo la chiamata alle armi per non finire nel meccanismo infernale del servizio nazionale, che li condanna in pratica a una leva militare a tempo indefinito, totalmente in balia della dittatura. E ciò rende la loro posizione ancora più pericolosa: a parte l’espatrio clandestino, possono essere incriminati per renitenza alla leva o addirittura per diserzione, se già erano stati reclutati.
Gran parte di questi 500 giovani (ma, secondo alcuni familiari, forse quasi 600) sono rinchiusi ad Al Huda, a nord di Khartoum, ormai da mesi o da settimane, ma tanti anche solo da pochi giorni: si tratta di rifugiati in transito nel Sudan i quali, bloccati al confine con la Libia, durante la fuga verso il Mediterraneo, sono stati poi intercettati e arrestati dalla polizia sudanese. A molti di loro sarebbe stato chiesto un riscatto (in media 300 euro a testa) per il rilascio: una prassi diffusa soprattutto in Libia ma, a quanto pare, ormai anche in Sudan. “Qualcuno – ha riferito una rifugiata eritrea in Italia, riportando quanto le ha raccontato la sorella prigioniera, di appena 16 anni – pare abbia ceduto al ricatto e, dopo aver versato la somma richiesta, sperava di essere liberato entro breve tempo. Invece era ancora lì in carcere quando si è profilato il rischio del rimpatrio forzato”.
“La situazione – denuncia l’agenzia Habeshia – è precipitata negli ultimi giorni, quando, accompagnati da autorità sudanesi, si sono presentati nel carcere alcuni rappresentanti dell’ambasciata eritrea a Khartoum. Sono iniziate da allora forti pressioni su tutti i profughi detenuti per indurli a firmare un documento in cui, dichiarando la propria identità e la città di provenienza, si direbbero pronti ad accettare il rimpatrio. Molti hanno firmato quelle carte, ma subito dopo sono riusciti ad avvertire i familiari di essere stati indotti a farlo soltanto per il clima diffuso di paura e per la situazione di grave costrizione che si erano creati nel centro di detenzione di Al Huda. Questi messaggi di aiuto sono stati fatti “uscire” dal carcere grazie a telefoni cellulari sottratti ai controlli di polizia durante l’arresto e nei giorni successivi”.
Sta di fatto che i rimpatri forzati sarebbero iniziati o in procinto di iniziare. In testa alla lista sarebbero stati inseriti proprio i profughi che avevano accettato di pagare il “riscatto” per essere rilasciati dalla polizia sudanese. C’è quasi da sospettare che quella richiesta di 300 euro per ogni prigioniero sia stata in realtà un tranello o una truffa, sapendo che era in programma la deportazione in Eritrea di tutti i prigionieri. “Noi saremmo stati anche pronti a pagare – dice sempre la sorella della sedicenne prigioniera, che vive in Sicilia – ma poi è venuto fuori che bisognava versare non, diciamo, ‘quote singole’, ma una somma molto più alta, sufficiente per un folto gruppo, tutti quelli, in sostanza, che erano stati catturati insieme. La prima a opporsi è stata proprio mia sorella, tanto più che nel frattempo aveva dovuto firmare i documenti presentati dalle autorità sudanesi d’intesa con l’ambasciata eritrea di Khartoum. Ormai è tutto inutile, ci ha fatto sapere: anche pagando il riscatto credo che sarò costretta a rientrare in Eritrea”.
“Appare evidente – fa notare Habeshia all’Unhcr – che ci si trova di fronte a un caso di respingimento di massa che investe oltre 500 profughi, in contrasto con il diritto internazionale e la convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati. Un respingimento, oltre tutto, che comporta la consegna di centinaia di persone alla galera, alle torture, forse, per alcuni, alla morte stessa. In una parola: la consegna di centinaia di vite umane alle dure ‘punizioni’ previste, per i profughi e per i richiedenti asilo espatriati, da parte del regime di Asmara, più volte messo sotto accusa, in tutte le sedi internazionali, per la sistematica violazione dei diritti umani. Un’accusa confermata anche dall’ultimo rapporto della Commissione d’inchiesta dell’Onu la quale, nel giugno scorso, ha esplicitamente imputato alla dittatura una serie di crimini contro l’umanità, inclusa la riduzione in schiavitù, carcerazioni illegali e immotivate, sparizioni forzate, uccisioni mirate”.
Due mesi fa è stata quasi completamente “silenziata” la sorte degli oltre mille profughi tratti in arresto con le retate di Khartoum. Non una parola, in particolare, dall’Unione Europea o dal Governo italiano, che ha fortemente voluto il Processo di Khartoum e gli accordi di Malta, in base ai quali, tra l’altro, con il pretesto di “migliorare la sicurezza delle frontiere”, sono stati stanziati diversi milioni di euro destinati alla polizia sudanese ed eritrea. A quelle milizie di Asmara, cioè, che hanno l’ordine di sparare per uccidere contro chiunque tenti di varcare il confine. E a quelle milizie sudanesi sospettate spesso di essere in combutta con i trafficanti di uomini. “Chiediamo che questa assurda coltre di silenzio venga stracciata – dice Siid Negash, del Coordinamento Eritrea Democratica – Lo chiediamo con forza a nome delle centinaia di rifugiati detenuti in Sudan e in procinto di essere messi nelle mani della dittatura. E a nome di tutte le vittime provocate dagli accordi voluti dall’Europa per rinchiudersi come in una fortezza, anche a costo di calpestare i diritti umani fondamentali di milioni di disperati”.