di Fulvio Vassallo Paleologo
Con la sentenza Richmond Yaw e altri c. Italia, pubblicata il 6 ottobre 2016, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 5 par. 1, lett. f e par. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per il prolungamento arbitrario del trattenimento amministrativo all’interno del Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria (Roma), e per il mancato riconoscimento del diritto alla riparazione del danno derivante dalla ingiustificata privazione della libertà personale.
I giudici di Strasburgo hanno fornito una interessante interpretazione dell’art. 5 della CEDU, ribadendo i limiti delle misure restrittive della libertà personale applicate su iniziativa delle autorità di polizia a carico degli immigrati irregolari e le garanzie correlate, anche nei casi di trattenimento amministrativo, in cui, in vista dell’allontanamento forzato del cittadino straniero, si proceda alla sua identificazione e quindi alla preparazione del rimpatrio. I precedenti giurisprudenziali sono purtroppo assai rari, anche se i trattenimenti arbitrari applicati nei confronti di immigrati irregolari sono sempre più frequenti.
La portata della sentenza, nella parte in cui afferma il principio di legalità (“detenzione regolare”) in materia di misure limitative della libertà personale, principio riaffermato, oltre che dall’art. 5 della CEDU, dall’art. 13 della Costituzione italiana, potrebbe estendersi anche oltre i casi di proroga del trattenimento nei centri di identificazione ed
espulsione, oggetto del giudizio davanti alla Corte di Strasburgo, fino a ricomprendere tutte le ipotesi nelle quali si verifichi una privazione della libertà personale da parte delle autorità di polizia, dunque una trattenimento amministrativo, di persona contro la quale è in corso una procedura di identificazione, ai fini di una possibile successiva
espulsione. Un recente Rapporto della Commissione Diritti Umani del Senato segnala la diffusione di prassi illegittime nei CIE ed in diversi centri di detenzione amministrativa nei quali si pratica il cd. Approccio Hotspot.
Si sono dunque diffuse le limitazioni della libertà personale dei migranti irregolari al di fuori di una specifica previsione di legge, per un tempo di durata indeterminata, sostanzialmente rimessa alla determinazione discrezionale delle autorità di polizia. Il numero di persone a rischio di essere espulse o trattenute nei centri è in continuo aumento, per il proliferare di dinieghi adottati dalle Commissioni territoriali competenti a riconoscere gli status di protezione e per i blocchi alle frontiere, seguiti da operazioni di polizia in territorio italiano. A partire dall’estate del 2016 si sono moltiplicati i fermi di migranti irregolari, nell’ambito del cd. Piano Gabrielli contro l’immigrazione irregolare, nel corso di operazioni di sgombero di migranti che si trovavano in città prossime al confine che cercavano di passare verso la Francia o altri paesi europei, e venivano bloccati a seguito della sospensione temporanea della libera circolazione Schengen per effetto del ripristino dei controlli alle frontiere interne.
Un piano che adesso è stato ulteriormente inasprito e che dovrebbe comportare anche l’apertura di numerosi centri di detenzione amministrativa, ridefiniti adesso come Centri di permanenza e rimpatrio.
Nulla di nuovo, perché già lo scorso anno si erano utilizzati come centri di detenzione amministrativa, in vista dei rimpatri forzati, anche i centri nei quali si praticava il cd. Hotspot Approach. Adesso si cerca di fornire una base legale a prassi di polizia che rimangono tanto arbitrarie quanto illegittime.
Il centro adibito ad Hotspot attivato a Taranto nel mese di marzo del 2106 è stato lo snodo più utilizzato per operazioni di delocalizzazione e di espulsione con accompagnamento forzato di categorie assai eterogenee di migranti, alcuni appena sbarcati, altri rastrellati sul territorio in condizioni di irregolarità, ma in diversi casi con un permesso di soggiorno come richiedenti asilo, dunque persone già identificate ed immesse in una procedura amministrativa che ne legittimava il soggiorno e la libertà di circolazione in Italia.
Nel corso dell’estate dello scorso anno la situazione alle frontiere interne dell’area Schengen, di Ventimiglia, Como/Chiasso e Brennero diventava esplosiva, con migliaia di migranti costretti a bivaccare di fronte alle frontiere sbarrate, al punto che il ministero dell’interno decideva un piano (il cd. Piano Gabrielli) per il trasferimento forhttp://dirittiefrontiere.blogspot.it/2016/08/espulsioni-dirette-illecito.htmlzato di
quanti insistevano a rimanere in prossimità dei valichi di confine, trasferimenti
che di fatto avvenivano in un primo momento verso gli Hotspot situati nelle regioni meridionali, come Taranto, in Puglia e Trapani, a in Sicilia. Poi, dopo la stipula di Memorandum d’Intesa (MoU) con paesi terzi ritenuti “sicuri”, come il Sudan, partivano alcuni voli di rimpatrio forzato verso gli stati di origine.
In questi casi le autorità amministrative responsabili delle operazione di rimpatrio affermavano che i migranti, con poche eccezioni, non avevano fatto richiesta di asilo, e dunque potevano essere considerati alla stregua di “migranti economici”, ormai sinonimo di irregolari, da rimpatriare con accompagnamento forzato. Queste espulsioni, eseguite con forme diverse di limitazione della libertà personale, seppure in un numero relativamente basso di casi, una volta denunciate dalle organizzazioni non governative, venivano difese accanitamente dal governo, come prova di rigore e di attuazione del Processo di Khartoum e del cd. Migration Compact, proposti all’Unione Europea. Si sarebbe trattato finalmente di una soluzione rispetto alla minaccia, periodicamente reiterata, della Commissione europea di aprire una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia, per gli scarsi controlli alle proprie frontiere esterne.
Il governo italiano ha richiamato gli accordi bilaterali stipulati il 4 agosto 2016 per giustificare le espulsioni eseguite verso il Sudan appena pochi giorni dopo la firma degli accordi con le autorità sudanesi. Cinquanta migranti sudanesi venivano fermati a Ventimiglia il 19 agosto dello stesso anno, identificati e foto segnalati, per poi essere trasferiti, il giorno seguente, con dei pullman presso l’hotspot di Taranto. Dove veniva loro notificato un decreto prefettizio di espulsione; gli stesi immigrati di origine sudanese, il 24 agosto, venivano trasferiti verso Torino (per essere rimpatriati). Per essere consegnati ad un regime che, a causa delle continue violazioni dei diritti umani in quel paese, è oggetto di accuse molto gravi da parte delle organizzazioni umanitarie.
Il 10 novembre del 2016 una delegazione della Commissione Diritti Umani del Senato si recava nella struttura di Taranto, di fatto un agglomerato di tensostrutture nel mezzo della zona industriale, dunque in un area fortemente degradata, nella quale venivano incontrate persone che in media venivano trattenute da più di due settimane senza alcun provvedimento formale. Tra loro, in una condizione di promiscuità, anche diversi minori stranieri non accompagnati. L’informativa legale che gli “ospiti” avevano ricevuto risultava assolutamente lacunosa. Il dato più rilevante era costituito dallo snaturamento della funzione Hotspot, come prefigurata nella Roadmap europea e nelle S.O.P., perché
a quella data risultava che la maggior parte delle persone transitate dall’Hotspot di Taranto provenisse da operazioni di rintraccio di immigrati irregolari sul territorio nazionale (9.528 persone) e solo una parte minore (5048 persone) proveniva da sbarchi. In nessuno degli altri Hotspot italiani si erano mai verificate circostanze simili. Un dato estremamente preoccupante che conferma lo snaturamento di una struttura
pensata per garantire la rilocazione verso altri paesi europei o l’accesso al sistema di accoglienza, e di fatto diventata un centro informale di detenzione amministrativa al di fuori di qualsiasi previsione di legge. Oltre alle violazioni dei diritti fondamentali delle migranti ne esce massacrata anche la nostra Carta Costituzionale, per effetto di circolari amministrative che di fatto svuotano di contenuto principi base in materia di protezione dei diritti umani in materia di libertà personale ( art.13) e diritti di difesa (art.24).
Nella maggior parte dei casi riguardanti l’Hotspot di Taranto, non si erano verificate in precedenza altre deportazioni, in quanto gli immigrati irregolari comunque rastrellati a Ventimiglia, ad Imperia, ma anche a Como o a Milano, una volta rinchiusi nell’Hotspot dii quella città, vi restavano soltanto il tempo necessario per una ulteriore foto segnalazione con prelievo delle impronte digitali, per ricevere poi un decreto di espulsione ed essere messi alla porta della struttura, con l’ordine di lasciare entro sette giorni il territorio italiano. Di fatto, si proseguiva nel solco delle prassi che si erano verificate prima della Circolare Morcone dell’8 gennaio 2016, in particolare con riferimento a Lampedusa ed alla provincia di Agrigento, una fabbrica di clandestinità, dal momento che nessuno degli intimati aveva i mezzi ed i documenti necessari per fare ritorno nel proprio paese. Per la Commissione di inchiesta della Camera sui centri per stranieri, in visita anche nell’Hotspot di Taranto nel maggio del 2016, risultavano soltanto “poche criticità”.
Dopo l’adozione del Piano Gabrielli, nella sua prima formulazione dell’agosto del 2016, nel centro Hotspot di Taranto venivano attivate procedure di trattenimento amministrativo e di accompagnamento forzato in frontiera per gruppi numericamente esigui, che però nel caso dei cittadini sudanesi avrebbero avuto diritto a restare nel nostro territorio per potere esercitare almeno i diritti di difesa ed il diritto di accesso alla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale.
Tra le persone trasferite in quello stesso periodo a Taranto risultavano anche migranti che avevano avuto già accesso alla procedura di asilo e che erano stati fermati durante controlli di polizia a Milano o in altre città dell’Italia settentrionale. Persone dunque che si trovavano già in una condizione di soggiorno legale, con un regolare permesso rilasciato da una questura, ed in attesa di una decisione della competente Commissione territoriale, con la conseguenza che il loro trasferimento forzato verso Taranto ( come verso altri Hotspot) ed il loro temporaneo internamento nell’Hotspot risultavano assolutamente illegittimi. Anche il più recente Rapporto della Commissione Diritti umani del Senato osserva a questo proposito come sia “difficile comprendere la matura della struttura di Taranto”.
Secondo le forze di polizia nessuna delle persone espulse in Sudan avrebbe fatto richiesta di asilo. Eppure nei verbali, con riferimento ad uno dei migranti sudanesi che era riuscito a presentare una richiesta di asilo, si osserva che la dichiarazione dattiloscritta che il migrante “non intendeva presentare una richiesta di asilo” appariva chiaramente preformulata. Nei pochi casi nei quali gli avvocati erano riusciti a fare verbalizzare una diversa volontà, gli stessi verbali evidenziano la cancellazione della frase e quindi la sua sostituzione con la dichiarazione dell’interessato tendente alla presentazione di una istanza di protezione in Italia. Le autorità di polizia di Taranto, in occasione della visita di una delegazione della Commissione per i diritti umani del Senato, il 10 novembre dello scorso anno, non hanno ammesso alcuna violazione delle regole procedurali ed hanno comunque continuato a sostenere che, nella generalità dei casi, le persone espulse in Sudan non avevano manifestato intenzione di chiedere asilo in Italia.
Una giustificazione consueta, che è stata utilizzata, senza successo, anche nei casi nei quali la Corte europea ha condannato l’Italia per violazione dei diritti di difesa e del divieto di espulsioni collettive (come nel caso Sharifi deciso nel 2014). Di certo nessuno dei migranti espulsi in Sudan ha potuto esercitare effettivamente il diritto di difesa, anche per la rapidità delle operazione di arresto e per la difficoltà di comunicare con i difensori, dopo essere stati trasferiti a migliaia di chilometri dal luogo nel quale erano stati fermati.
Le modalità del trattenimento amministrativo dei cittadini sudanesi poi a Khartoum, dal momento del fermo fino al momento dell’accompagnamento forzato in Sudan appaiono prive di una base legale. Risulta violato il principio di legalità (detenzione regolare) affermato dall’art. 5 della CEDU, oltre che dell’art. 13 della stessa CEDU che afferma, con riferimento ai principi affermati nella Convenzione, il diritto ad esercitare, in caso di violazione, un ricorso effettivo. Ricorso che in assenza di un provvedimento formale di trattenimento comunicato all’interessato, dopo la dovuta informazione e con la facoltà di nominare un avvocato di fiducia, non si può evidentemente proporre. In questa materia non si può sostenere che il fine giustifichi i mezzi, anche a fronte dell’esiguo numero di persone effettivamente rimpatriate, rispetto al numero molto più elevato di cittadini sudanesi irregolari comunque presenti sul territorio italiano. Ha ricordato l’on Luigi Manconi in un comunicato: “Pensiamo al Sudan, a quanto sia ancora drammatica la situazione in quel paese e al numero consistente di richiedenti asilo sudanesi che in Italia – e più in generale in Europa – ricevono forme di protezione: nel 2015 il 60% delle richieste d’asilo di persone d’origine sudanese sono state accolte. Proprio alla luce del grande sforzo fatto dal nostro paese per accogliere e tutelare i profughi che attraversano il Mediterraneo, non possiamo correre il rischio di rimpatriare nessuno senza adeguate garanzie sulla sua incolumità, anche fosse una sola persona”. Ed un ragionamento analogo vale anche per l’Egitto, paese con il quale l’Italia continua a collaborare, per l’esecuzione di voli diretti di rimpatrio dopo procedure di riconoscimento e di attribuzione della nazionalità ( e dell’età) assolutamente sommarie.
Il ministero dell’interno ha affermato allo stesso riguardo che “quanto alla presunta illegalità dell’accordo in base al quale i migranti sono stati rimpatriati, “occorre precisare che lo stesso è stato regolarmente firmato con uno Stato che gode del pieno riconoscimento internazionale del nostro Paese. Pertanto dette interpretazioni si basano, salvo se altro, su una conoscenza lacunosa non solo della vicenda ma
anche della normativa di riferimento”. Ma non si è fornita alcuna documentazione
né si sono indicate le basi legali sulle quali si è praticata la limitazione della libertà personale dei cittadini sudanesi in vista della loro espulsione. Anche nel caso dell’allontanamento forzato degli immigrati irregolari non si può sovvertire la gerarchia delle fonti stabilita dai codici e dai principi costituzionali. Un accordo bilaterale di polizia non si può collocare mai al di sopra delle norme costituzionali, delle Direttive e dei Regolamenti europei e infine delle leggi interne che fissano procedure rigorose per i casi di allontanamento forzato (in ossequio alla Direttiva 2008/115/CE).
quindi presentata una interrogazione parlamentare. Nel caso del trattenimento e poi dell’espulsione dei cittadini sudanesi nell’agosto del 2016 non c’è stato alcun esame del caso individuale, anche per le modalità di tempo, incontestabili, nelle quali si è svolta, davanti al Giudice di pace di Taranto, l’udienza di convalida il 22 agosto, dopo 48 ore di internamento. Come se il centro Hotspot di Taranto fosse stato un vero e proprio Centro di identificazione e d espulsione. Non vi è peraltro traccia delle attività di informazione che si sarebbe dovuto svolgere obbligatoriamente in favore degli espellendi circa la possibilità di chiedere protezione internazionale in Italia.
Ai sudanesi trattenuti indebitamente nell’Hotspot di Taranto, sono stati negati, di fatto, i più elementari diritti di difesa al punto che soltanto pochissimi hanno potuto opporsi alle misure di allontanamento forzato riuscendo a presentare una richiesta di protezione internazionale. In tutto l’arco delle procedure di allontanamento forzato, e dunque all’interno dei luoghi nei quali si è temporaneamente trattenuti, il diritto di difesa deve essere effettivo, le convalide lampo in prossimità del volo di ritorno forzato consentono un esercizio soltanto formale dei diritti di difesa. Di certo nei diversi casi di trattenimento amministrativo all’interno dei centri chiusi, siano essi CIE o nelle “aree attrezzate di sbarco” nelle quali si applica l’approccio Hotspot, andrebbe garantita non soltanto la conformità della detenzione amministrativa al diritto interno, ma anche che la stessa detenzione sia effettivamente necessaria nel caso di specie dopo avere verificato che non ci siano alternative meno lesive della libertà personale, e che il rispetto del principio di legalità sia effettivo, nel senso che i suoi presupposti siano obiettivamente conoscibili e prevedibili, al di là della mutevole determinazione delle autorità amministrative. L’assenza di una base legale certa per il trattenimento all’interno degli Hotspot e delle aree ad essi assimilate comporta una irregolarità grave e manifesta che comporta la illegittimità della detenzione, che non può essere sanata da successivi provvedimenti amministrativi. Sono questi i principi generali, applicazione dell’art. 5 comma 1 lettera f della CEDU, che costituiscono il fulcro della decisione della Corte Europea dei diritti dell’uomo nel caso Richmond Law e altri contro Italia e sono questi gli stessi principi che andrebbero riconosciuti effettivamente nel trattenimento degli stranieri accolti nei centri chiusi, comunque siano denominati, nei quali si pratica l’approccio Hotspot ai fini della prima accoglienza e della identificazione, in vista di una loro possibile espulsione o di un loro respingimento
Una volta esaurite le vie di ricorso interne, sotto questi profili, la stessa Corte di Strasburgo potrebbe tornare dunque ad emettere altre sentenze di condanna a carico dell’Italia per l’esecuzione di espulsioni o respingimenti, a seguito di varie misure di trattenimento amministrativo, che potrebbero risultare illegittimi, e dunque fonte di una grave responsabilità politica e morale, e fonte di precisi obblighi risarcitori, a carico del nostro paese e delle autorità statali che hanno adottato provvedimenti di trattenimento e di allontanamento forzato senza una chiara base legale ed in violazione con precisi obblighi di diritto internazionale, a partire dal divieto di non Refoulement (art. 33 della Convenzione di Ginevra) ed interno ( a partire dagli articoli 13 e 24 della Costituzione italiana), violazioni che refluiscono direttamente, nel caso dei rimpatri forzati effettuati lo scorso anno verso il Sudan, in violazioni degli articoli 3, 5 e 13 della Convenzione Europea a salvaguardia dei Diritti dell’Uomo.