di Fulvio Vassallo Paleologo
1. L’invasione dell’Ucraina e la copertura mediatica che ne è derivata, hanno diffuso ill termine “guerra ibrida” dopo anni nei quali si sono date varie qualificazioni alle tante guerre che si stavano combattendo nel mondo, dalla guerra “asimmetrica” successiva all’11 settembre 2001, fino alle guerre “permanenti” che insanguinano l’Africa ed il vicino Oriente, senza soluzione di continuità. Si tratta quasi sempre di guerre che non vengono dichiarate formalmente, che si sottraggono all’applicazione del diritto internazionale, e che hanno come principale obiettivo le popolazioni civili che vengono massacrate per costringere i contendenti alla resa, per ragioni strettamente politiche o per mere finalità di appropriazione delle risorse.
Per guerra ibrida, in particolare, intendiamo una “strategia militare, caratterizzata da grande flessibilità, che unisce la guerra convenzionale, la guerra irregolare e la guerra fatta di azioni di attacco e sabotaggio cibernetico (cfr. Enc. Treccani). La guerra irregolare riporta al sostegno esterno di attività belliche di intensità medio-bassa ed all’utilizzazione di milizie private come, nel caso della Libia e di altri paesi africani, dove è operativo da anni il gruppo russo denominato Wagner. Il sabotaggio cibernetico può estendersi fino alla diffusione sistematica di fake news ed all’utilizzo delle reti social per disinformare ed orientare l’opinione pubblica, anche al di fuori dei paesi direttamente interessati dal conflitto. I confini tra le guerre combattute con le armi e i conflitti basati sull’appropriazione ed il commercio globale delle risorse naturali sono divetati sempre più labili, fino a confondersi del tutto nel marasma quotidiano dell’informazione e dei pregiudizi contro “gli stranieri”.
Dalle “guerre di polizia internazionale” si è rapidamente passati alla guerra contro il “nemico interno” ed allo straniero che comunque chiede di fare ingresso nel territorio dello Stato. Una situazione in cui si moltiplicano gli allarmi rilanciati dai media, dall’emergenza criminalità, all’emergenza terrorismo, mentre la politica della paura risulta vincente ad ogni scadenza elettorale. Gli Stati di origine o di transito hanno cosi’ la possibilità di sfruttare le paure diffuse per anni tra le popolazioni dell’Occidente ricco per attuare veri e propri ricatti nei confronti dei paesi confinanti, o con i quali si trovano in un rapporto di competizione economica, alimentando la minaccia dell’invasione. Le politiche di contrasto della libertà di emigrazione, e del diritto di chiedere asilo in un paese sicuro, in tempi in cui le guerre permanenti e le devastazioni ambientali privano i popoli di qualsiasi speranza di futuro, sono il terreno sul quale governi di segno diverso hanno progessivamente eroso il prncipio di eguaglianza e la portata effettiva dei diritti umani. Le frontiere sbarrate non hanno solo precluso l’ingresso ai migranti in fuga, ma hanno anticipato, o riprodotto, nuovi muri su scala internazionale riportando in auge la corsa agli armamenti e la divisione del mondo in blocchi contrapposti. Ed anche all’interno dei confini non sono mancati nuovi fronti mobili, come si sta verificando negli ultimi anni in Libia, con una stretta connessione tra il controllo delle persone migranti e la gestione delle risorse derivanti da idrocarburi, fonte di un conflitto ormai endemico in un paese ancora lacerato da scontri tra milizie sostenute dall’esterno.
Anche la gestione dei controlli di frontiera, e più in generale le politiche migratorie possono diventare quindi strumento di guerra, come si è visto nel caso dei profughi spinti dalla Bielorussia in Polonia poco prima dell’invasione della Ucraina, e già in precedenza, nei paesi confinanti con la Siria, in Turchia in particolare, con conseguenze che hanno interessato tutti gli Stati dell’Unione Europea. Che poi hanno stipulato un accordo con Erdogan per ottenere il blocco delle partenze verso le coste europee spingendo al massimo il potenziamento dell’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne (FRONTEX), ed ulteriori accordi con paesi terzi ritenuti “sicuri”, al fine di facilitare respingimenti ed espulsioni. Da ultimo, si segnala anche un accordo tra Frontex e la Moldavia. Malgrado il parziale congelamento dei fondi europei destinati a questa agenzia da tempo al centro di critiche assai gravi per le reiterate violazioni dei diritti umani.
Rientra in questa nuova dimensione di guerra anche la persecuzione giudiziaria e la criminalizzazione degli attori non statali che cercavano di operare attività di salvataggio ed assistenza umanitaria nei passaggi terrestri di frontiera e nelle acque del Mediterraneo, ed una diffusa censura nei confronti di tutti coloro che con la loro attività di informazione potevano documentare i crimini commessi dalle autorità statali, spesso complici degli abusi commessi nei paesi di origine e transito. Come nel caso delle guerre ibride, anche nella guerra condotta contro i migranti la realtà narrata dai social controllati da politici nazioalisti o populisti, veri e propri “imprenditori della paura”, ha spesso prevalso sulla concreta dimensione dei fatti. Ed è riuscita persino a condizionare l’avvio di importanti indagini penali, come nel caso Iuventa, ancora alla fase dell’udienza preliminare dopo cinque anni dal sequestro della nave, di fronte al Tribunale di Trapani. Un caso che ha suscitato tanto clamore mediatico, anche per via delle intercettazioni disposte su giornalisti ed avvocati e che oggi sembra caduto nel dimenticatoio, salvo ad essere utilizzato ad evidenti scopi strumentali dalla difesa del senatore Salvini nel processo Open Arms.
Lo squilibrio tra percezione e sostanza dei fatti implica l’adozione di politiche di non-accoglienza che negano ogni diritto alle persone, che criminalizzano i soccorsi delle ONG in mare ed i tentativi di integrazione operati a livello di enti locali, come nel caso della vicenda politica, giudiziaria e personale di Mimmo Lucano, con una spinta crescente verso la precarietà ed ogni tipo di sfruttamento.
La pandemia da Covid 19 ha ulteriormente accresciuto la vulnerabilità delle persone esposte ai conflitti ed alle migrazioni forzate, spesso conseguenza di disastri ambientali seguiti alle guerre ed al furto delle risorse. Le risposte che sono state fornite dai principali paesi europei ed in particolare dall’Italia, sono state condizionate dalle politiche dell’emergenza e da una diffusa discriminazione, che si riscontra anche nella carente assistenza sanitaria e nellla riduzione delle misure di sostegno all’economia dei paesi più poveri. Si sono cosi’ riprodotte le condizioni ideali per lo scatenamento di altri conflitti, soprattutto in Africa, e per il ricorso a forme sempre più feroci di guerra, con un crescente coinvolgimento delle popolazioni civili e con la diffusione di truppe mercenarie. Le violazioni dei diritti umani nei paesi partner dell’Occidente nelle politiche di contrasto della cd. immigrazione illegale sono rimaste impunite, come nel caso esemplare dell’Egitto di Al Sisi.
Dalla esternalizzazione dei controlli di frontiera si sta ora passando alla esternalizzazione delle procedure di asilo, arrivando a rendere evidente lo strappo rispetto a quanto imposto agli Stati dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Persino il contenimento degli arrivi di persone con evidenti bisogni di protezione è diventato argomento di propaganda elettorale, ed in Italia ( rispetto alla Libia ed alla Tunisia) come in Gran Bretagna (con i recenti accordi con il Rwanda), seppure con modalità diverse, si insiste sugli accordi con i paesi terzi ritenuti “sicuri” che stanno consentendo respingimenti collettivi immediati e divieti di accesso al territorio nazionale, anche per presentare soltanto una istanza di protezione internazionale. In contrasto con quanto finora garantito dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Una questione che riguarda anche l’Unione Europea perchè l’Olanda è stata il primo paese che ha intravisto la possibilità di deportare richiedenti asilo,giunti irregolarmente sul territorio nazionale, verso il Rwanda ritenuto “paese terzo sicuro”. Come è previsto ida una legge approvata dal parlamento olandese lo scorso anno sotto la spinta dei partiti di destra.
2. Le “guerre inbide” sono tutte diverse una dall’altra, a seconda dei territori e delle forze militari e degli Stati coinvolti, ma anche i profughi che da queste guerre fuggono ricevono un trattamento differenziato, a seconda dei rapporti politici tra paesi di origine e paesi di arrivo, e talvolta a seconda del colore della pelle o del credo religioso. Una evidenza che la guerra in Ucraina sta dimostrando una volta di più, anche in Italia. I sistemi di accoglienza in Italia e l’intera normativa in materia di controllo delle frontiere e di immigrazione presentano da sempre profili fortemente discriminatori e in molti casi in aperto contrasto con il diritto internazionale. Un contrasto che non si può risolvere accordando prevalenza alla “difesa dei confini” o a una generica istanza di “sicurezza pubblica” per legittimare prassi amministrative, e decisioni politiche a monte, gravemente lesive dei diritti fondamentali delle persone migranti. La lesione dei diritti fondamentali dei migranti corrisponde poi a processi di accrescimento del divario sociale che oggi coinvolgono autoctoni e nuovi arrivati, con l’erosione delle garanzie offerte nei paesi europei dal cd. stato sociale.
Stiamo verificando oggi quanto le guerre incidano sui rapporti sociali all’interno degli Stati, e dunque anche sul rapporto con i migranti forzati e quindi sui sistemi di accoglienza, anche in base alla loro prossimità con la nostra vita quotidiana, e soprattutto in base alle possibile ripercussioni che i cittadini sono indotti a temere in ordine al mantenimento dei propri livelli di vita. Una scoperta relativamente recente, perchè in crisi precedenti, basti pensare all’arrivo dei profughi siriani nel 2015, ed in precedenza negli anni ’90 all’arrivo dei profughi dalle guerre nei Balcani, la considerazione dell’altro come minaccia al proprio benessere era molto meno avvertita e restava relegata alla manipolazione elettorale delle forze nazionaliste o populiste.
Non sorprende quindi che si proponga la distinzione tra veri profughi e finti rifugiati, anche per difendere una politica di negazione del diritto alla protezione internazionale ed alla accoglienza che ha caratterizzato le ultime stagioni politiche in Italia, anche più che in altri paesi europei. Del resto dai sostenitori dei teoremi dei “taxi del mare” e della “pacchia dell’accoglienza” non è difficile attendersi altri contenuti propositivi per fare fronte alle situazioni reali piuttosto che alle paure inventate per lucrare consenso elettorale. Sembra comunque un dato irreversibile quello costituito dagli effetti delle politiche basate sul primato della sicurezza che ha implicato uno smottamento del sistema di accoglienza verso strutture detentive o para-detentive, come le navi Hotspot, con una crescente precarizzazione delle persone poi filtrate ed ammesse alle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. In ogni caso con la continua riproduzione di vaste aree di marginalità e di irregolarità. Che sono pi servite a legittimare l’inasprimento di quelle stesse politiche.
3. Già dagli anni 90′ in Italia ogni arrivo di persone che provenivano da situazioni di conflitto è stato affrontato con strumenti parziali ed emergenziali, come se si trattasse di fenomeni che con il passare del tempo sarebbero scomparsi da soli. I sistemi di accoglienza sono stati sempre strutturati in base alla logica dell’emergenza, permettendo rapporti distorti tra le isttuzioni Si inseriva in questa ottica la Legge Puglia del 1995, che dopo l’arrivo massiccio di albanesi negli anni precedenti, seguito da massicce misure di respingimento collettivo, istituiva un sistema di prima accoglienza, (i CPA) poi esteso ad altre regioni italiane.Una legge che si inquadrava tra le misure di contrasto dell’immugrazione “clandestina”, in quanto sulla carta le persone temporaneamente accolte nei centri avrebbero dovuto fare rientro nel loro paese, salvo il numero estremamente ridotto di casi per i quali si poteva accedere alla procedura per il riconoscimento del diritto di asilo , allora limitato alle previsioni della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e sostanzialmente precluso non solatnto a chi fuggiva dall’Albania ma anche alla maggior parte delle persone che in quegli anni provenivano dalle aree dei Balcani già interessate da sanguinosi conflitti etnici. Mancava in Italia una qualsiasi disciplina organica del diritto di asilo, che pure sarebbe stata imposta dal dettato costituzionale.
La successiva legge Turco Napolitano del 1998, discussa dal Parlamento proprio a ridosso della strage del Venerdi’ santo del 28 marzo 1997, effetto delle politiche di blocco navale nei confronti dell’Albania, introdotte dal primo governo Prodi, veniva approvata solo con il cedimento alle destre che ottenevano il risultato di espungere dal testo della normativa tutta la parte dedicata al diritto di asilo, che doveva dare attuazione all’art. 10 della Costituzione, che riconosce il diritto di asilo con una portata molto più ampia di quella consentita dalla Convenzione di Ginevra del 1951, Neppure la crisi migratoria innescata nel 1999 dal conflitto in Kosovo determinava l’adozione di misure di accoglienza che superassero i modelli dell’emergenza e della straordinarietà. L’esperrienza del campo di accoglienza di Comiso rimane ancora ben viva nella mente di chi operava in quel periodo nel settore. L’obiettivo restava, alla fine dell’emergenza, il rientro dei profughi nei propri paesi di origine. Come si verificò nel caso dei profughi kosovari rientrati in massa nel loro paese alla fine delle ostilità anche quando avrebbero potuto godere delle misure di integrazione loro accordate dal nostro paese. Un esperienza che non occorre certo replicare oggi.
Si può dire cosi’ che fino alla introduzione delle norme imposte in sede di recepimento dalle Direttive europee in materia di protezione internazionale (2004-2015) la posizione dei migranti forzati che continuavano ad arrivare in Italia restava regolata esclusivamente dalla legge “Martelli” del 1990. Ma soprattutto, trattandosi di persone costrette ad arrivare attraverso canali irregolari, la maggior parte dei potenziali richiedenti asilo veniva internata nei Centri di permanenza temporanea (CPT) introdotti i nel 1998 dalla legge Turco Napolitano, e poi dopo la legge Bossi-Fini del 2002, nei famigerati Centri di identificazione. In ogni caso non venivano garantiti alcun diritto all’informazione sulla procedura, una equità del procedimento, un effettivo diritto di difesa, una adeguata tutela dei soggetti più vulnerabili e dei minori.Le denunce di quegli anni, soprattutto dopo la strage nel Centro di permanenza temporanea Serraino Vulpitta di Trapani, avvenuta nel dicembre del 1999, portavano ad una fondamentale decisione della Corte Costituzionale del 2001 (n.105) secondo cui, pur dichiarandosi infondata la questione di costituzionalità relativa alla norma che precedeva la detenzione amministrativa nei CPT, si affermava che:
Il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea e assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. Si può forse dubitare se esso sia o meno da includere nelle misure restrittive tipiche espressamente menzionate dall’articolo 13; e tale dubbio può essere in parte alimentato dalla considerazione che il legislatore ha avuto cura di evitare, anche sul piano terminologico, l’identificazione con istituti familiari al diritto penale, assegnando al trattenimento anche finalità di assistenza e prevedendo per esso un regime diverso da quello penitenziario. Tuttavia, se si ha riguardo al suo contenuto, il trattenimento è quantomeno da ricondurre alle “altre restrizioni della libertà personale”, di cui pure si fa menzione nell’articolo 13 della Costituzione. Lo si evince dal comma 7 dell’articolo 14, secondo il quale il questore, avvalendosi della forza pubblica, adotta efficaci misure di vigilanza affinché lo straniero non si allontani indebitamente dal centro e provvede a ripristinare senza ritardo la misura ove questa venga violata.
Si determina dunque nel caso del trattenimento, anche quando questo non sia disgiunto da una finalità di assistenza, quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale.
Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani. Che un tale ordine di idee abbia ispirato la disciplina dell’istituto emerge del resto dallo stesso articolo 14 censurato, là dove, con evidente riecheggiamento della disciplina dell’articolo 13, terzo comma, della Costituzione, e della riserva di giurisdizione in esso contenuta, si prevede che il provvedimento di trattenimento dell’autorità di pubblica sicurezza deve essere comunicato entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e che, se questa non lo convalida nelle successive quarantotto ore, esso cessa di avere ogni effetto.
Questi principi, che sono rilevanti ancora oggi nei casi di divieto di sbarco nei porti italiani e di navi quarantena, imponevano al legislatore l’introduzione di interventi di controllo giurisdizionale sui provvedimenti di polizia restrittivi della libertà personale dei migranti, con la previsione di mezzi effettivi di ricorso contro tali misure. Venivano quindi adottate Direttive europee che imponevano agli Stati membri l’introduzione di un sistema di accoglienza strutturato ( Direttiva CE/2003/9, attuata con Decreto legislativo 140/2005) e garanzie precise nei casi di trattenimento, respingimento ed espulsione ( con la Direttiva CE/2008/115, tardivamente attuata con la legge n.129 del 2011), dopo un importante pronunciamento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sul caso El Dridi)
4. Soltanto nel breve periodo tra il 2006 ed il 2008 sembrava che il sistema nazionale previsto per i richidenti asilo potesse avere una evoluzione favorevole, con il Progetto Praesidium ed il cd. modello Lampedusa, che permetteva un rapido trasferimento dei migranti giunti nell’isola a seguito di sbarchi e la costruzione di un primo vero sistema di accoglienza nazionale. Appena insediato il nuovo governo di centro destra nel 2008 e anche per effetto delle intese operative tra l’Italia e la Libia alle quali attribuiva effettività il Trattato di amicizia tra Italia e Libia stipulato nel 2008, si pensava di chiudere con i respingimenti collettivi in mare verso la Libia tutte le vie di ingresso via mare, e si cominciava a smantellare un sistema di prima accoglienza che aveva cominciato a funzionare. Il centro di soccorso e prima accoglienza (CSPA) di Lampedusa ritornava a funzionare come un centro di trattenimento amministrativo, anche se il frequente sovraffollamento ne impediva un effettivo controllo. Si arrivava cosi’ al drastico calo di arrivi nel 2010, ma anche ad una condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo,nel 2012, per i respingimenti effettuati nel maggio del 2009 da una motovedetta della Guardia di finanza, la Bovienzo, che riconsegnava a Tripoli, nelle mani delle autorità libiche, decine di migranti soccorsi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale (caso Hirsi Jamaa e altri).
Ma di nuovo, a partire dalle cd. primavere arabe e dalla guerra in Siria, dal 2011, l’Europa e l’Italia sono costrette ad affrontare più direttamente gli effetti delle migrazioni forzate indotte da guerre o rivoluzioni che sconvolgono l’assetto sociale, politico e militare di numerosi paesi dell’Africa e del vicino Oriente, con una intensificazione degli arrivi via mare e con una ulteriore dimostrazione della inefficacia delle politiche di contemimento delle partenze delle persone migranti verso l’Europa e quindi del loro arrivo, attraverso la rotta balcanica o le traversate del Mediterraneo. La risposta politica era ancora una volta di netta chiusura, con l’inasprimento delle misure di contrasto dell’immigrazione “irregolare”, attraverso la maggiore operatività degli accordi bilaterali di riammissione con i paesi di origine, e la apertura di strutture di accoglienza, come i cd. Hotspot, nelle quali di fatto si verificavano diverse modalità di limitazione della libertà personale.
Già nel 2011 il sistema di accoglienza italiano si era trasformato di fatto in un sistema di detenzione, con l’apertura di diversi Centri di prima identificazione e quindi con l’utilizzo di Lampedusa come centro di detenzione “aperto”, con il primo ricorso a navi traghetto per detenere migranti in via di espulsione, per i quali non si riusciva a trovare posto nei centri di detenzione allora esistenti in Italia. Soltanto nel 2016 la decisione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo sul caso Khlaifia costituirà un parziale riconoscimento delle violazioni commesse dal governo italiano nei centri di prima accoglienza. Ma il numero degli arrivi in Italia non calava certo per l’inasprimento delle politiche e delle prassi di accoglienza/detenzione. Aumentava invece il numero dei migranti irregolari, destinatari di provevdimenti di respingimento differito o di espulsione, che privi di documenti e mezzi adeguati non potevano ottemperare all’intimazione di lasciare il territorio dello Stato.
Solo gli accordi con la Turchia permettevano un forte ridimensionamento degli arrivi dalla Siria e da altri paesi orientali, a fronte del ruolo riconosciuto alla Turchia come bastione rispetto al perdurante conflitto siriano. Con innumerevoli vittime, ridotte al confinamento, alla miseria od alla morte in mare, nella indifferenza più totale della comunità internazionale che oggi, dopo avere assistito indifferente alle stragi in Siria ( ed in precedenza in Afghanistan, in Iraq, ed in Palestina, come in vari paesi africani, dal Rwanda,nel 1994 all’Eritrea, ancora ai giorni nostri) ,sembra oggi risvegliarsi perchè il conflitto ucraino può incidere direttamente sulle vite di tutti gli abitanti del paesi occidentali.
Dopo la breve parentesi dell’operazione Mare Nostrum nel 2014, con una politica di facilitazione dei passaggi verso altri paesi europei, incentivata in Germania con la sospensione parziale ( nei confronti dei siriani) dell Regolamento Dublino III (Regolamento UE n° 604/2013) che imponeva la presentazione di una richiesta di asilo nel primo paese di ingresso, con le scelte del Consiglio europeo nel settembre del 2015, e quidi con le misure adottate a livello nazionale, prima con il Decreto Minniti del 2017 e poi con i Decreti sicurezza imposti da Salvin nel 2018 e nel 2019i, si ritornava ad una politica ed a prassi che criminalizzavano qualunque forma di ingresso irregolare e destrutturavano quanto si era potuto costruire, in anni di collaborazione tra Stato, enti locali e organizzazioni non governative, nel campo dell’accoglienza decentrata. Si riusciva persino ad ignorare l’imponente materiale di documentazione raccolto nel 2017 dalla Commissione parlamentare di indagine sui centri per stranieri, che aveva accertato le disfunzioni del sistema dei Centri di accoglienza straordinari (CAS) gestiti dalle prefetture e del CARA ( centro di accoglienza per richiedenti asilo) di Mineo. Che le indagini penali hanno solo lambito, accanendosi invece contro l’accoglienza diffusa praticata da alcuni comuni. Un’accoglienza diffusa che oggi si torna ad evocare con l’arrivo dei profughi ucraini, ma di cui si sono irrimediabilmente distrutte le basi, a colpi di processi penali e di direttive ministeriali.
5. Il punto più evidente di svolta è costituito dal primo Decreto legge sicurezza del 2018, l. 1 dicembre 2018, n. 132, di “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, che contemporaneamente aboliva la cd. protezione umanitaria ed escludeva i richiedenti asilo dal circuito del sistema di accoglienza, giungendo persino a privarli del diritto alla iscrizione anagrafica, un diritto che sarà successivamente riconosciuto dal legislatore e dalla Corte Costituzionale.
Il primo decreto sicurezza n.113 del 2018 restringeva le possibilità di riconoscimento di un qualsiasi stato di protezione ai migranti forzati, con procedure prioritarie o accelerate, ed estendeva il trattenimento amministrativo per i rihiedenti asilo, privandoli anche sul piano sostanziale di molte delle garanzie di difesa accordate dalla normativa previgente e dalle direttive europee. Come se l’ingresso irregolare non fosse rimasta per i potenziali richiedenti asilo l’unica modalità di accesso al territorio, dopo la chiusura di tutti i canali legali di ingresso e la negazione dei visti per motivi umanitari. Dietro la modificazione terminologica dei centri di accoglienza e l’aumento dei casi di trattenimento amministrativo, si nascondeva una pervicace volontà di escludere o di precarizzare tutte le persone che arrivavano in Italia per chiedere protezione.
Neppure le successive modifiche introdotte nel 2020 con il Decreto immigrazione n.130 modificavano sostanzialmente l’impostazione restrittiva introdotta dai decreti legge proposti da Minniti e da Salvini. malgrado la girandola di diverse definizioni atribuite ai sistemi di accoglienza (da SIPROIMI a SAI). Le modalità di accesso alla procedura restavano assai discrezionali, se non arbitrarie, e le condizioni del sistema di accoglienza nel suo complesso apparivano sempre più degradate. Con il decreto 130/2020 Veniva modificata la procedura di esame prioritario e di esame accelerato delle domande di riconoscimento della protezione internazionale, prevedendosi, tra l’altro, che le domande presentate da richiedenti per i quali era disposto il trattenimento in uno hotspot o in un centro di permanenza per i rimpatri e delle domande presentate da cittadini provenienti da un Paese di origine sicuro, fermo restando l’esame con procedura accelerata, non fossero più esaminate in via prioritaria. I minori stranieri non accompagnati e i soggetti portatori di esigenze particolari (quali minori, disabili, anziani, vittime di tratta) venivano esclusi dall’applicazione della procedura accelerata delle domande. A quest’ultimi, inoltre, non si applicava più la disciplina in materia di domande manifestamente infondate.
Si doveva fare i conti in quel periodo con la considerazione dei migranti forzati in arrivo in Italia come un potenziale pericolo per la “tenuta del sistema sanitario nazionale”, cosi’ espressamente secondo la definizione adottata nel Decreto interministeriale n.150 del 7 aprile 2020. E si sperimentava con gravi lesioni dei diritti fondamentali dei migranti, il sistema delle navi hotspot su cui trattenere le persone ai fini della quarantena obbligatoria, come previsto dall’Ordinanza di protezione civile del 12 aprile 2020, fondata sulla dichiarazione di uno stato di emergenza del febbraio dello stesso anno, scaduta il 31 marzo scorso.
“Il Consiglio dei ministri ha deciso di incrementare le misure di soccorso ed assistenza alle persone che, in maniera massiccia, stanno cercando e cercheranno rifugio nell’Unione europea” a seguito del conflitto in Ucraina. “Per questo motivo” il Consiglio dei Ministri “ha deliberato la dichiarazione dello stato di emergenza, fino al 31 dicembre 2022, rivolto ad assicurare soccorso e assistenza alla popolazione ucraina sul territorio nazionale in conseguenza della grave crisi internazionale in atto”. L’Italia ha quindi dato attuazione per la prima volta alle misure di accoglienza previste per l’afflusso massiccio di profughi dalla Direttiva CE/2001/55, mai applicata in precedenza. Ma lo ha fatto in modo altamente discriminatorio, escludendo tutti coloro che provenienti dall’Ucraina erano entrati nel nostro paese prima del 24 febbraio 2022 e quanti di diversa nazionalità, pur residenti a quella data nel paese ormai sotto attacco, non godessero di un permesso di soggiorno a tempo indeterminato.
La volontà di alcuni paesi membri (Austria, Polonia, Slovacchia, Ungheria) di limitare l’applicazione della Direttiva 55 del 2001 che permette, in situazioni riconosciute come di accesso di massa, di agevolare gli accessi senza seguire le procedure delle richieste di asilo ordinarie e senza i vincoli del Regolamento di Dublino (quelli, ad esempio, che bloccano le persone nel primo paesi di ingresso in cui bisogna farsi prendere le impronte e aspettare l’esito della procedura di richiesta di asilo) non si è affermata. Ma ha contribuito a introdurre un dispositivo differenziale nella Decisione presa dal Consiglio Europeo il 4 marzo 2022, con la quale si adotta la protezione temporanea per le persone in fuga dalla guerra in Ucraina. La posizione di quanti risiededevano in quel paese senza un titolo di soggiorno a tempo indeterminato appare infatti fortemente pregiudicata. Per chi non ha potuto fare rientro nel paese di origine si prospetta un futuro di marginalità sociale, se non di vera e propria irregolarità.
Il 28 marzo 2022, il Governo italiano ha dato attuazione alla Decisione europea 2022/382 per mezzo di DPCM ( Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri), come previsto dall’art. 20 del Testo Unico Immigrazione e dall’art. 3 del Decreto legislativo n. 85 del 7 aprile 2003 che costituisce norma interna di recepimento della Direttiva 2001/55/CE. Si prevede, con riferimento ai profughi provenienti dall’Ucraina, a determinate condizioni,un incremento di 13mila posti dei centri straordinari che potranno essere attivati dai Prefetti (CAS); un potenziamento di ulteriori 3mila posti del sistema di accoglienza e integrazione (SAI); l’ospitalità dei cittadini ucraini nei CAS anche indipendentemente dal fatto che abbiano presentato domanda di protezione internazionale. Si prevede inoltre che i posti disponibili nei CAS e nella rete SAI, già incrementati, almeno sulla carta, dopo la crisi afghana, vengano dedicati anche alle esigenze di sistemazione e accoglienza dei profughi ucraini. Ma di una effettiva ristrutturazione di un sistema di accoglienza nazionale non si rinvengono ancora tracce significative.
6. Adesso non basta chiedere il cessate il fuoco tra Ucraina e Russia, o sostenere le ragioni dell’accoglienza dei (soli) profughi ucraini nei diversi paesi europei. Per alzare magari, domani, un muro contro l’arrivo dei profughi siriani, afghani o africani. O per selezionare tra bianchi e neri ai confini dell’Ucraina. Refugees in Libya, un gruppo di attivisti con sede in Libia ha affermato che la volontà dei governi dell’UE di accogliere i rifugiati ucraini, ma non persone come loro, ha rivelato il loro razzismo nascosto. E tra i tanti che denunciano le resposabilità della guerra in Ucraina, nessuno ricorda l’esigenza di una revisione sostanziale delle politiche migratorie e dei sistemi di controllo alle frontiere europee.
Di certo nel nostro paese non si può parlare di invasione. Si può calcolare che finora dall’Ucraina siano arrivati in Italia circa 95.000 persone, in gran parte donne e minori, mentre gli ingressi via mare, che nel 2021 sono arrivati a 67.040 migranti, secondo dati ufficiali del Ministero dell’interno, ammontano, al 15 aprile scorso, a circa 8.400 persone, quasi la stessa quantità dello scorso anno. Si tratta, in gran parte di persone ormai fuoriuscite dal sistema di accoglienza, con un consistente gruppo in trasferimento verso altri paesi europei ( movimenti secondari). Non si vede qundi quale fondamento abbia l’allarmismo che si continua a diffondere sui soccorsi in mare e sugli sbarchi delle persone fuggite dalla Libia e dalla Tunisia. Mentre si tace delle centinaia di vittime di naufragi derivanti dal mancato coordinamento degli Stati e dalla invenzione di una zona SAR ( di ricerca e salvataggio) esclusivamente affidata alle autorità libiche.
In questa fase storica sembrano destinate ad aumentare le diseguuaglianze tra i migranti forzati a seconda del paesi di origine, ed addirittura del colore della pelle, pure se provenienti dall’Ucraina.Ma sarebbe davvero impossibile garantire a tutti i migranti forzati in arrivo in Italia un trattamento legale ed un’accoglienza sul territorio nazionale coerenti con il riconoscimento dei loro diritti fondamentali sanciti dalle Convenzioni internazionali ? Purtroppo a livello europeo gli standard di garanzia si sono notevolmente abbassati, come emerge anche dalle più recenti attività di verifica del Consiglio d’Europa sulla attuazione da parte del governo italiano dei principi enunciati nella sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo sul caso Khlaifia. Il conflitto in corso in Ucraina, dopo la crisi derivante dalla pandemia,stanno contribuendo ad abbassare ulteriormente il livello delle tutele effettive riconosciute a livello europeo alle persone migrahti provenienti da contesti di guerra geograficamente e politicamente più lontani. E le cose non vanno meglio se si rivolge lo sguardo al nostro paese.
7. I sistemi di accoglienza in Italia rimangono ancora sottodimensionati rispetto al prevedibile aumento degli arrivi nei prossimi mesi, non solo dall’Ucraina, ma forse in misura ancora più consistente dai paesi dell’Africa settentrionale, dove alla crisi alimentare indotta dal conflitto in Ucraina potrebbe seguire una serie di rivolte di massa ed una notevole quantità di persone in fuga per la sopravvivenza. Tra i dimenticati oggetto di rimozione si contano poi i profughi afghani, pakistani e iracheni che arrivano ancora attraverso la rotta balcanica. Sarebbe allora tempo che, al di là dell’arrivo dei profughi ucraini, che spesso vengono accolti in famiglia, da connazionali se non da italiani, si riportino i sistemi di accoglienza italiani verso lla capacità di posti che era garantita fino al 2017, allora oltre 130.000 persone, prima che i provvedimenti imposti dal Viminale, con Minniti e Salvini, ne determinassero la destrutturazione e poi in molti casi un drastico ridimensionamento.
Per supplire alla cronica mancanza di posti nei centri di prima accoglienza, ancora in questi giorni, a Pozzallo ( Ragusa) ed a Lampedusa si verificano gravi casi di sovraffollamento, si continua a fare ricorso alle navi Hotspot, ed a forme di trattenimento dopo lo sbarco dei naufraghi che non sono più giustificabili dopo la cessazione dello stato di emergenza COVID proclamato nel 2020. Come peraltro ha segnalato in diverse occasioni il Garante nazionale per le persone private della libertà personale.
Il sistema di accoglienza deve invertire l’attuale rapporto tra i centri Sprar nei quali è forte l’impulso degli enti locali, ed i centri di accoglienza straordinaria (CAS) gestiti dalle prefetture, che attualmente sono oltre i 2/3 di tutti i centri di accoglienza. Occorre impedire la riapertura di grandi centri di accoglienza ed incentivare le comunità locali ad accogliere richiedenti asilo e rifugiati. Vanno individuate strutture dedicate soltanto ai soggetti più vulnerabili, come i minori non accompagnati e le vittime di tratta.
Nei centri di prima accoglienza Hotspot vanno garatiti tempi di permanenza non superiori alle 48 ore e tutele come sancito dalla Corte di cassazione già nel 2001 (sentenza n.105) e dalla pronuncia della Corte europea dei diritti dell’Uomo sul caso Khlaifia
Vanno dismesse tutte le navi quarantena e le relative risorse dovranno essere impegnate per l’apertura e la gestione di Centri di prima accoglienza sul territorio, nel rispetto delle direttive dell’Unione europee e della normativa interna.
Vanno abrogate le norme che prevedono il trattenimento amministrativo dei richidenti asilo e procedure accelerate che negano i diritti di difesa anche attraverso l’utilizzazione di una “lista di paesi terzi sicuri”.
Con specifico riferimento al Mediterraneo occorre attivare immediatamente il sistema degli ingressi in base a visti umanitari da rilasciare presso gli uffici consolari dei paesi UE negli Stati di transito dove si trovano bloccate le persone migranti in fuga verso l’Europa. Che si lasciano alle spalle conflitti, abusi e devastazioni , basti pensare alla Siria o all’Afghanistan, al Congo o al Sudan, paesi già dimenticati da tutti, crisi non meno gravi di quelle, oggi al centro dell’attenzione, alle quali stiamo assistendo in diretta, in Ucraina.
Ecco il più recente utilizzo, appena due giorni fa, di una nave hotspot “quarantena”, dopo la scadenza dello stato di emergenza sulla base del quale era stato adottato il provvedimento della Protezione civile del 12 aprile 2020, che autorizzava il trasferimento di naufraghi su queste navi al fine di completare il periodo di quarantena obbligatoria. Per l’accoglienza delle persone migranti trasbordate dalle navi ddelle ONG lo “stato di emergenza” non finisce mai. La nave GNV Azzurra è adesso alla fonda nella rada del porto di Augusta.


Questa la situazione attuale alle ore 21 del 17 aprile 2022
