ONG a giudizio, il caso IUVENTA non è chiuso

di Fulvio Vassallo Paleologo

1. Da una recente intervista dell’ex comandante della nave umanitaria Iuventa si apprende dell’avvio del processo davanti al Tribunale di Trapani a carico di numerosi operatori e responsabili di alcune delle navi delle ONG coinvolte nelle indagini avviate nel 2016 su informazioni provenienti dai servizi e da ambienti della destra identitaria europea e poi culminate il 2 agosto del 2017 con il sequestro della nave a Lampedusa. Una indagine che era inizialmente partita, nelle fasi del sequestro della nave e della sua convalida, nei confronti della associazione Jugend Rettet responsabile della nave e di alcuni indagati, come don Mussie Zerai dell’Agenzia Habeshia, che poi sono stati estromessi per la totale assenza di prove a loro carico. Ma che prosegue a carico del comandante della IUVENTA, di altri membri dell’equipaggio, e con un allargamento dei soggetti indagati, soprattutto sulla base di una quantità enorme di intercettazioni ( oltre 30.000 pagine!) anche nei confronti di comandanti e responsabili di due grosse ONG, Save The Children e Medici senza frontiere, che all’epoca dei fatti contestati ( 2016 e 2017) operavano al largo delle coste libiche con due navi, in sinergia con la IUVENTA, sotto lo stretto coordinamento della Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC). Come in altri casi di processi a forte rilievo politico, basti pensare al processo Xenia contro Mimmo Lucano ed altri, alle argomentazioni accusatorie originariamente contestate, via via che queste perdevano consistenza, si ampliava il numero degli indagati e se ne aggiungevano altre che comunque dovevano portare al processo, e nelle intenzioni della pubblica accusa, alla condanna degli imputati. Esattamente l’opposto di quanto avvenuto nei procedimenti penali nei confronti dell’ex ministro dell’interno Matteo Salvini, che hanno visto progressivamente erodere il quadro accusatorio, senza che rilevassero più gli stessi fatti che avevano portato alla formulazione delle accuse da parte del Tribunale dei ministri, come si è notato nel processo Gregoretti a Catania, quando il Parlamento non è riuscito a bloccare del tutto lo svolgimento del processo, come nel caso Diciotti.

Questo processo a carico degli operatori umanitari della IUVENTA, e del più nutrito gruppo di imputati appartenenti a MSF ed a Save the Children, giunge dopo che è stata archiviata la maggior parte dei procedimenti penali intentati contro le ONG che dal 2016, sono impegnate nelle attività  di ricerca e salvataggio (SAR) della acque territoriali del Mediterraneo centrale, e sostituiscono le navi statali che si sono ritirate, per la scelta politica di abbandonare le persone in mare, piuttosto che procedere ai soccorsi, imposti dal Diritto internazionale del mare, ma considerati come un fattore di attrazione (pull factor), rispetto alle partenze dalla Libia e più recentemente dalla Tunisia. Una scelta politica disumana che neppure i giudici nazionali riescono a sanzionare, considerati gli esiti dei casi Diciotti e Gregoretti. e l’andamento del processo Open Arms/Salvini a Palermo.

Prima di inoltrarci sul tema della criminalizzazione dei soccorsi in mare e della correlativa deresponsabilizzazione delle autorità di governo, complici dei respingimenti collettivi in mare e delle conseguenti detenzioni arbitrarie in Libia, conviene ricordare che il caso IUVENTA, sul quale si concentrerà l’attenzione dei media non appena la difesa del senatore Salvini tenterà di avvalersene nel processo Open Arms a Palermo, si verificava prima della creazione a tavolino della cosiddetta zona SAR libica (giugno 2018) e dei decreti sicurezza emanati durante il governo giallo/verde. Erano i giorni in cui l’allora ministro dell’interno Marco Minniti tentava di imporre alle ONG un Codice di condotta che nella parte relativa alla collaborazione con la sedicente Guardia costiera libica, sulla base del Memorandum d’intesa stipulato con il governo di Tripoli il 2 febbraio 2017, anticipava i contenuti del Decreto sicurezza bis n.53 del 2019, pur rimanendo privo di copertura legislativa. A sua volta il Codice di condotta Minniti si basava sul Memorandum d’intesa tra Italia e governo provvisorio di Tripoli, firmato il 2 febbraio 2017 e quindi rinnovato sino a quest’anno.

Nel Memorandum d’intesa firmato a Roma il 2 febbraio  2017 da Serraj e Gentiloni, si individuava come obiettivo principale “attuare gli accordi sottoscritti tra le Parti in merito, tra cui il Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione firmato a Bengasi il 30/08/2008ed in particolare l’articolo 19 dello stesso Trattato, la Dichiarazione di Tripoli del 21 gennaio 2012 e altri accordi e memorandum sottoscritti in materia”.

Nello stesso Memorandum d’intesa, si ribadiva “la ferma determinazione di cooperare per individuare soluzioni urgenti alla questione dei migranti clandestini che attraversano la Libia per recarsi in Europa via mare, attraverso la predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei Paesi di origine, lavorando al tempo stesso affinché i Paesi di origine accettino i propri cittadini ovvero sottoscrivendo con questi Paesi accordi in merito”. 

2. Come ha ricordato il Giudice delle indagini preliminari di Trapani, nella sentenza sul caso della legittima difesa riconosciuta ai naufraghi che si opponevano alla riconduzione in Libia dopo essere stati raccolti da un rimorchiatore di servizio alle piattaforme petrolifere offshore, adesso confermata dalla Corte di cassazione ( caso Vos Thalassa), che ha annullato la sentenza di riforma adottata dalla Corte di Appello di Palermo, “il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-refoulement aveva già acquisito rango di jus cogens, è privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’art. 10 co. 1 Cost., secondo cui ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement’. Secondo il giudice di Trapani, il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia stipulato il 2 febbraio 2017, mai approvato dal Parlamento secondo la procedura fissata dall’art. 80 della Costituzione, costituisce “un’intesa giuridicamente non vincolante e non avente natura legislativa”. A tale riguardo Amnesty International aveva chiesto la sospensione del Codice di condotta Minniti, basato sul Memorandum d’intesa tra Italia e Libia.

Un rapporto  sulla Lbia,  redatto da un gruppo di esperti delle Nazioni Unite, documentava già nel 2017 come ” gruppi armati, alcuni dei quali hanno ricevuto un mandato o almeno un riconoscimento dalla Camera dei rappresentanti o dal Consiglio di presidenza, non sono stati sottoposti a un controllo giudiziario significativo. Ciò ha ulteriormente aumentato il loro coinvolgimento nelle violazioni dei diritti umani, inclusi rapimenti, detenzioni arbitrarie ed esecuzioni sommarie. I casi indagati dal gruppo comprendono abusi”. Secondo lo stesso rapporto, “Abd al-Rahman Milad (alias Bija), e altri membri della guardia costiera, sono direttamente coinvolti nell’affondamento delle barche dei migranti usando armi da fuoco. A Zawiyah, Mohammad Koshlaf ha aperto un rudimentale centro di detenzione per i migranti nella raffineria di Zawiyah. Il gruppo di esperti scientifici ha raccolto informazioni su abusi contro i migranti da parte di diverse persone (cfr. Allegato 30). Inoltre, il gruppo di esperti scientifici ha raccolto notizie di cattive condizioni nei centri di detenzione dei migranti a Khums, Misratah e Tripoli. Secondo lo stesso rapporto “il capo della guardia delle strutture petrolifere di Zawiyah, Mohamed Koshlaf, noto anche come Kasib o Gsab (v. punti 105 e 258), è coinvolto nell’approvvigionamento di carburante per i trafficanti. Comanda anche la cosiddetta milizia Nasr.81 Suo fratello, Walid Koshlaf, noto anche come Walid al-Hadi al-Arbi Koshlaf, gestisce la parte finanziaria dell’azienda. Il capo della guardia costiera di Zawiyah, Abd al-Rahman Milad (alias Bija) (vedi anche punti 59, 105 e 258), è un importante collaboratore di Koshlaf nel settore dei carburanti.”

Le dichiarazioni di numerosi naufraghi soccorsi dalle ONG e recenti interviste in Italia condotte dall’UNHCR confermano che persone sbarcate a terra da mezzi della sedicente guardia costiera “libica”, dopo essere state intercettate in acque internazionali, sono state immediatamente vendute ai trafficanti, e queste testimonianze si ripetono nel corso degli anni, sempre più circostanziate, rese da naufraghi provenienti da Tripoli, da Zawia, e da Bani Walid.

Certo la invenzione di una zona SAR “libica” comunicata al’IMO nel giugno del 2018 segna uno spartiacque. In ogni caso non risultano ad oggi agli atti dell’IMO a Londra comunicazioni riguardo ad accordi conclusi tra la Libia e gli Stati limitrofi (con l’eccezione di Malta) per il coordinamento nella ricerca e nel soccorso a seguito dell’istituzione della relativa zona SAR, come richiesto dalla Convenzione SAR, né riguardo al completamento, da parte della Libia, di tutte le procedure necessarie a garantire i servizi di ricerca e soccorso che si è impegnata a fornire. Ammesso e non concesso che di una “Libia” come stato unitario si possa parlare ancora oggi, durante uno stato di sospensione delle ostilità che non si è ancora tradotto in libere elezioni e nel passaggio dei poteri dalle milizie ad un esercito unitario, ad una Guardia costiera e ad una marina militare nazionale generalmente riconosciuti come “libici”. Dietro la finzione della zona SAR “libica” si nascondono intercettazioni in mare che consistono in respingimenti collettivi su delega italiana ed europea, e trattenimenti arbitrari nei centri di detenzione nei quali le organizzazioni criminali hanno libero accesso, se non li gestiscono direttamente, come avveniva a Zawia già ai tempi del sequestro della IUVENTA. Le “consegne concordate” non erano certo configurabili nei soccorsi operati dalla nave IUVENTA, oltre 10.000 vite sottratte ai lager libci ed al naufragio in mare, semmai di “consegne concordate” si dovrebbe parlare con riferimento ai respingimenti delegati alla Guardia costiera libica, sotto il coordinamento italiano e degli assetti di Frontex, almeno fino a quando le autorità italiane hanno potuto godere di una posizione di privilegio con i vertici politici e militari di Tripoli. L’arrivo dei turchi e il ruolo dei russi in territorio libico,soprattutto dall’estate del 2020, hanno modificato la situazione ed oggi appare sempre più incerto il reale assetto dei poteri in Libia. Di certo le milizie colluse con i trafficanti, che già nel 2017 muovevano le fila dello smuggling sono sempre più forti, soprattutto da quando alcuni esponenti come Mlad Bija sono stati messi al vertice della Accademia navale libica. Ma nessun magistrato sembra indagare su questi rapporti intrattenuti dalle autorità italiane con milizie libiche e con comandanti di guardia costiera pesantemente accusati anche nei Rapporti delle Nazioni Unite e sotto inchiesta da parte della Corte penale internazionale.

Anche i rapporti dei vertici dell’Operazione militare Eunavfor Med nel mar libico confermano questa situazione che esisteva nel 2017 e che oggi è ancora più grave. Come si può parlare in questo contesto, ben noto alle autorità italiane, di “consegne concordate” avvenute nel 2017 tra scafisti-trafficanti libici e operatori umanitari delle ONG, che operavano sotto il controllo della Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC) ? Si può ritenere, per allora ed ancora oggi, che la Libia nella sua scomposizione territoriale e politico-militare, possa garantire un porto di sbarco sicuro per i naufraghi soccorsi in acque internazionali, ancora prima che nel 2018 fosse istituita, peraltro, una zona SAR attribuita sulla carta alle autorità di Tripoli ? Se non regge la qualificazione dei porti libici come place of safety, quale residua legittimazione possono conservare i protocolli operativi ed i Memorandum d’intesa che prevedono il supporto e l’assistenza alEla sedicente Guardia costiera libica? E ancora, se nel 2017 trafficanti e guardia costiera libica operavano sinergicamente in spazi che erano controllati dalle autorità italiane ed europee, dove e come si possono ipotizzare “consegne concordate” nei confronti di operatori delle Ong allora impegnate al largo delle coste libiche?

Come documenta Nello Scavo dopo una inchiesta pubblicata sulle pagine de l’Avvenire, a ottobre dello scorso anno il Tribunale di Napoli ha condannato ad un anno di reclusione il comandante del rimorchiatore ASSO 28, di servizio nel luglio del 2018 alla piattaforma petrolifera offshore Sabratha in acque internazionali, per avere riconsegnato ad una motovedetta libica al largo del porto di Tripoli oltre cento persone soccorse nei pressi della piattaforma, dunque al di fuori delle acque territoriali libiche. Si tratta di una sentenza che ribadisce un importante principio di diritto, i respingimenti collettivi in Libia sono illegali perché la Libia non garantisce porti sicuri di sbarco.

3. Dopo l’udienza del 17 dicembre 2021 nel processo contro il senatore Salvini davanti al tribunale di Palermo per il caso Open Arms dell’agosto del 2019, si può dire che si è ritornati all’attacco generalizzato contro i soccorsi in mare operati dalle ONG. Il livello del depistaggio mediatico e giudiziario predisposto dalla difesa dell’imputato ha raggiunto un livello mai visto in passato, come emerge chiaramente se si raffrontano i titoli dei giornali vicini all’area politica dell’ex ministro, che ribaltano tutte le accuse su chi aveva operato il soccorso in alto mare, salvando decine di vite, e la registrazione audio dell’udienza, disponibile su Radio Radicale. Le dichiarazioni della difesa e dello stesso senatore Salvini non hanno avuto alcuna attinenza con i reati contestati, ma si sono limitate ad attaccare le ONG, continuando a definire le loro attività come “agevolazione dell’immigrazione clandestina”, o a offendere, per il tono sprezzante adottato, la dignità del Tribunale.

Il tentativo operato dalla difesa di Salvini che mira al ribaltamento delle argomentazioni addotte nella Relazione del Tribunale dei ministri di Palermo, riprese in parte dalla Procura che ne ha chiesto il rinvio a giudizio, riflette in modo speculare le contestazioni che alcune procure rivolgono contro le Organizzazioni non governative che avrebbero effettuato soccorsi “di propria iniziativa”, “operando in modo continuativo”, addirittura in qualche caso “con “consegne concordate” e comunque “con la preordinata volontà di fare entrare clandestinamente persone irregolari nel territorio dello Stato”. Un collaudato schema accusatorio che però non ha ancora trovato riscontro nelle decisioni degli organi giudicanti. Una “preordinata volontà” che viene contestata anche nel caso del soccorso operato dalla Mare Ionio di Mediterranea, dopo il trasbordo di decine di naufraghi intrappolati da settimane a bordo della nave commerciale Maersk Etienne. La procura di Ragusa ritiene che la Maersk abbia pagato 125mila euro alla Mare Jonio per prendere a bordo 25 migranti che la  Etienne aveva salvato 37 giorni prima, restando poi bloccata in prossimità delle acque territoriali maltesi.Rimangono ancora sotto indagine quattro persone, mentre la società armatrice della nave ha confermato la correttezza dell’operato degli indagati e la mancanza di qualsiasi accorso collusivo. Malgrado tutto questo, a dicembre dello scorso anno, La Cassazione ha confermato il sequestro disposto dalla Procura di Ragusa nei confronti della società armatrice della nave Mare Jonio di Mediterranea Saving Humans. I giudici della prima sezione penale hanno rigettato i ricorsi presentati dagli indagati, fra i quali figura Luca Casarini, contro il sequestro di documenti, telefoni cellulari, computer, trovati sia a bordo della ‘Mare Jonio’, che nelle abitazioni degli indagati, confermato dal Tribunale di Ragusa il 26 marzo 2021.

Tra inchieste giudiziarie e fermi amministrativi delle navi, sono stati più di 20 i procedimenti a carico delle organizzazioni non governative. La maggior parte di questi procedimenti soo ad oggi archiviati o sospesi. Intanto nel Mediterraneo si continua a contare i cadaveri e, mentre sono venuti meno i soccorsi in acque internazionali gestiti dagli Stati, si può tracciare un bilancio dei risultati di attività di indagine che hanno occupato per anni centinaia di agenti e diversi magistrati con un uso spregiudicato delle intercettazioni e con un continuo rapporto con la politica e l’informazione. Solo tre indagini penali rimangono ancora aperte, la politica dei fermi amministrativi è fallita, mentre si attende la pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione Europea. Ancora nessuna condanna dunque e un solo processo aperto contro operatori umanitari, che prenderà avvio a Trapani il prossimo maggio sul caso IUVENTA (che in realtà coinvolge Save The Children e Medici senza Frontiere), dopo l’archiviazione del procedimento a carico della Jugend Rettet, la ONG tedesca responsabile della IUVENTA.  “Tutti i procedimenti che si sono chiusi – dice Leonardo Marino, avvocato di molte Ong – lo sono stati con archiviazioni o proscioglimenti”. Come riconosce anche Salvatore Vella, procuratore aggiunto ad Agrigento, secondo cui “ogni sbarco fa storia a sé ma ad oggi non abbiamo elementi dai quali emergano ruoli attivi delle Ong, di connivenza o di collaborazione con i trafficanti di uomini”.

4. Nel processo in corso a Palermo sul caso Open Arms si è nel frattempo assistito al tentativo della difesa di Salvini di confondere le responsabilità e di fare assolvere il precedente ministro dell’interno chiamando in causa presunte responsabilità o connivenze delle ONG, tentativo che riemerge chiaramente dalla richiesta di includere negli atti del procedimento anche il voluminoso fascicolo processuale del caso IUVENTA ancora aperto davanti al Tribunale di Trapani, L’ispezione ministeriale disposta dal ministro della giustizia e le udienze degli ultimi mesi hanno solo allungato il tempo trascorso per vagliare una grande quantità di intercettazioni, di avvocati, giornalisti, operatori umanitari, conservate illegittimamente nei faldoni del processo IUVENTA, quasi a costituire una schedatura di tutti coloro che hanno difeso nel tempo i soccorsi umanitari.

A questo punto la confusione tra il caso IUVENTA ed il caso Salvini/OPEN ARMS rischia di inquinare gravemente il corretto esercizio della giurisdizione penale, trattandosi di casi che si riferiscono ad epoche diverse, sotto assetti normativi diversi, e soprattutto perché nel caso IUVENTA si trattava di criminalizzare il soccorso in acque internazionali di una nave umanitaria che era stata attirata con uno stratagemma (il trasbordo di alcuni naufraghi precedentemente soccorsi da una nave militare italiana) nel porto di Lampedusa, su una precisa indicazione della Centrale di coordinamento della guardia costiera (MRCC). Mentre nel caso Open Arms, del mese di agosto del 2019, veniva in rilievo il trattenimento ingiustificato dei naufraghi ai quali dal Ministero dell’interno, per tramite della stessa Centrale operativa (IMRCC) e della Guardia di finanza, si negava lo sbarco in un porto sicuro per portare avanti trattative con l’Unione Europea in vista di un loro successivo trasferimento.

Nel processo Open Arms/Salvini ancora in corso a Palermo la difesa dell’ex ministro dell’interno ha quindi cercato in tutti i modi di fare emergere violazioni di legge o di normative internazionali a carico del comandante della nave umanitaria e dei suoi esponenti, scegliendo di difendere l’imputato al di fuori delle accuse che gli vengono contestate, puntando a screditare i soccorritori, e la Open Arms come organizzazione, come se questa fosse dedita al trasferimento di immigrati irregolari in Italia.

Le difese adottate dal senatore Salvini, centrate principalmente nell’attacco alle attività di soccorso (SAR) operate dalle ONG nel Mediterraneo centrale, sono radicalmente smentite da quanto accertato in diversi procedimenti che sono stati archiviati, come confermato anche dalla Corte di cassazione, quando si è voluto affrontare il nodo del rapporto tra Diritto internazionale e decisioni del ministro dell’interno, con la sentenza sul caso Rackete, piuttosto che limitarsi a mere questioni di legittimità procedurale, come si era verificato nel caso della convalida del sequestro della nave IUVENTA. Una decisione della Corte di cassazione che è stata impropriamente riferita dai media, ma che in realtà rinviava per l’accertamento delle responsabilità penalmente rilevanti ad un giudizio di merito che sta per essere avviato soltanto a maggio di quest’anno, dopo cinque anni dai fatti. Nel frattempo quasi tutti i procedimenti penali intentati da diverse procure contro le ONG sono stati definitivamente archiviati. Lo scorso anno sono arrivate infatti le archiviazioni dei procedimenti penali avviati contro rappresentanti delle ONG, sul caso Mare Ionio e sul caso Sea Watch 3 (maggio 2019).  

5. Già nel 2018 la Procura di Palermo chiedeva l’archiviazione, poi disposta dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Palermo, di una indagine contro alcune ONG avviata sulla base di segnalazioni analoghe a quelle che nel 2017 erano state inviate alla Procura di Trapani, con riferimento ad altre ONG, tra cui la stessa Jugend Rettet. Il 19 giugno 2018 infatti, erano stati chiusi i procedimenti penali a carico della Sea Watch e della Golfo Azzurro., con riferimenti anche alla IUVENTA, oggetto della distinta indagine di Trapani. “Alla luce delle indagini svolte, non si ravvisano elementi concreti che portano a ritenere alcuna connessione tra i soggetti intervenuti nel corso delle operazioni di salvataggio a bordo delle navi delle Ong e i trafficanti operanti sul territorio libico”, avevano scritto i pmLe indagini svolte non hanno permesso di appurare la commissione di condotte penalmente rilevanti da parte del personale Ong”.

Nel mese di maggio del 2019 il giudice per le indagini preliminari di Catania Nunzio Sarpietro ha archiviato l’inchiesta a carico del comandante della Ong spagnola Open Arms, e della capomissione, accusati di associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. L’archiviazione era stata chiesta anche dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, lo stesso, che aveva aperto il fascicolo nel mese di marzo del 2018. Resta invece aperta l’inchiesta per violenza privata davanti al Tribunale di Ragusa. “Il reato consisterebbe nell’aver costretto le autorità italiane a indicare un porto di sbarcoAnche in quel caso l’accusa, come nel caso della IUVENTA, ipotizzava “consegne concordate” tra i trafficanti e gli operatori umanitari. Ma non è stata fornita nessuna prova di contatti tra ONG e scafisti.

Oltre al caso IUVENTA, se si esclude il processo per scarico di rifiuti a carico di MSF davanti al Tribunale di Catania, sono rimasti aperti soltanto i processi OPEN ARMS (2018) e Mare Ionio (caso Maersk Etienne) davanti al Tribunale di Ragusa. Infatti, per il caso Open Arms, parzialmente archiviato a Catania, la Procura di Ragusa ha chiesto il rinvio  a giudizio degli imputati, per violenza privata. La stessa Procura infatti, aveva presentato ricorso, davanti alla Corte d’appello di Catania, contro il non luogo a procedere deciso dal Gup di Ragusa il 4 novembre 2020 nei confronti Marc Reig Creus e Ana Isabel Montes Mier, rispettivamente comandante e capo missione della Open Arms (2018), accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violenza privata. Secondo la Procura, il Giudice dell’udienza preliminare, nel rigettare la richiesta di rinvio a giudizio, non avrebbe adeguatamente valutato i fatti a fondamento dell’accusa. Ma non si vede cone si possa configurare conseguenza di violenza privata quella indicazione di un porto di sbarco sicuro che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, costituisce la fase finale di un soccorso a mare, dal momento che la nace soccorritrice non può essere qualificata come “place of safety”.

lI Tribunale civile di Ragusa, nel mese di giugno del 2021, ha intanto revocato la multa di 300.000 euro inflitta al comandante Claus Peter Reisch della ONG tedesca Lifeline dopo il salvataggio di migranti in mare e l’ingresso nel porto di Pozzallo, nel mese di settembre del 2020. Anche il sequestro della nave “Eleonore” della stessa ONG Lifeline disposto nel 2019 é stato revocato. Secondo il portavoce della ONG Lifeline,“la sentenza dimostra che il diritto internazionale è al di sopra della volontà di un singolo ministro. “Si può anche dire che il salvataggio in mare e l’umanità non sono mai un crimine”. Purtroppo però a livello mediatico e di senso comune ogni occasione sembra buona per colpire i soccorsi umanitari in mare.

6. Nel corso degli anni si è passati dalla criminalizzazione delle attività di soccorso in acque internazionali, già evidente nel caso IUVENTA, alla predisposizione di divieti di ingresso nelle acque territoriali e nei porti italiani, come se l’attività di salvataggio in mare fosse equiparabile al trasporto di immigrati irregolari ed all’agevolazione dell’ingresso “clandestino”. Si è arrivati persino a considerare come comuni eventi migratori (illegali) le operazioni di ricerca e salvataggio (SAR) condotte dalle ONG in acque internazionali. Quando la Corte di cassazione si è addentrata nel fitto groviglio di norme internazionali che regolano i soccorsi in alto mare, come peraltro è imposto dal chiaro dettato degli articoli 10, 11 e 117 della Carta Costituzionale, le posizioni governative di abbandono in mare e di delega ai guardiacoste di paesi terzi sono state smentite. Il Tribunale di Agrigento, dopo la pronuncia della Corte di Cassazione del 16/20-2-2020, ha archiviato definitivamente le accuse contro Carola Rackete per il caso Sea Watch del 2019. Una conferma di quanto già deciso nel 2019 dal Giudice delle indagini preliminari di Agrigento.

Nell’ordinanza del GIP di Agrigento del 2 luglio 2019, relativa al caso Sea Watch, poi confermata anche dalla Corte di Cassazione, riguardo l’art. 11 comma 1 ter del T.U. 286/98, si afferma che: ” il divieto interministeriale da essa previsto (di ingresso, transito e sosta) può avvenire, sempre nel rispetto degli obblighi internazionali dello Stato, solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti nello Stato Costiero, fattispecie qui non ricorrente vertendosi in una ipotesi di salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio. Peraltro, l’eventuale violazione del citato art. 11 comma 1 ter – si ribadisce sanzionata in sola via amministrativa – non fa venir meno l’inderogabile disposto di cui all’art. 10 ter del Dlgs 286/98, avente ad oggetto l’obbligo di assicurare il soccorso, prima, e la conduzione presso gli appositi centri di assistenza, poi». Dopo cinque anni di indagine la nave IUVENTA, che dal 2016 aveva salvato la vita di oltre 10.000 persone, è ridotta ad un rottame che rimane a galla solo perché lo tengono ancorato in porto, e decine di indagati attendono che sia fatta giustizia, con il riconoscimento della loro innocenza, per avere adempiuto al fondamentale dovere di soccorso in mare.

A marzo del 2021 arrivava con grande clamore mediatico l’avviso di conclusione delle indagini preliminari con l’uscita dal procedimento della maggior parte degli originari imputati ed una ventina di comunicazioni di garanzia per nuovi indagati, a quattro anni dal sequestro della nave IUVENTA. La nave era stata attirata con un trabocchetto nel porto di Lampedusa, il 2 agosto del 2017, pochi giorni dopo l’adozione del Codice di condotta Minniti, e quindi sequestrata, dopo una indagine durata mesi e condotta da agenti infiltrati dal Servizio centrale del Ministero dell’interno. Che poi risulteranno a rapporto del senatore Salvini, in cerca di riconoscimenti per le attività svolte. AMNESTY INTERNATIONAL ha diffuso un dossier su un caso giudiziario e politico che non potrà essere rimosso.

7. Le prassi adottate dai governi italiani dalla fine dell’operazione Mare Nostrum fino al 2018 avevano rispettato gli obblighi di soccorso stabiliti dalle Convenzioni internazionali anche al di fuori della zona SAR italiana, soprattutto in zona SAR maltese, e e persino più a sud, quando ancora non era stata dichiarata una zona SAR “libica”, con rari casi di omissione di soccorso che sono ancora oggi al vaglio della magistratura (come nel caso del naufragio dell’11 ottobre 2013). Dal 2014 ad oggi le norme interne sui soccorsi in acque internazionali non sono mutate, come non sono mutate le corrispondenti Convenzioni internazionali (UNCLOS, SOLAS, SAR) che non possono essere derogate da provvedimenti delle autorità politiche o di polizia.

Si deve ricordare infine il Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite firmata a Palermo nel 2000 contro la Criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico illecito di migranti per via terrestre, aerea e marittima, frequentemente invocato per fornire una base legale agli accordi intercorsi con la Libia, prevede la superiorità gerarchica delle norme di diritto internazionale relativi ai diritti dell’Uomo e della Convenzione di Ginevra. Lo stesso Protocollo risulta peraltro applicabile solo quando si riscontrino gli estremi del crimine transnazionale. In base all’ articolo 19 § 1 del Protocollo adesso richiamato, «Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica gli altri diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e degli individui derivanti dal diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale relativo ai diritti dell’uomo e, in particolare, laddove applicabili, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 relativi allo status dei Rifugiati e il principio di non respingimento ivi enunciato.»

La lotta contro i trafficanti e gli scafisti non può andare dunque a pregiudizio del diritto/dovere di soccorso nelle acque internazionali, funzionalmente preposto in base alle Convenzioni internazionali, alla salvaguardia della vita umana in mare. Nel caso di possibili contatti con mezzi appartenenti alla sedicente Guardia costiera libica non si può dimenticare quanto accertato in numerosi documenti delle principali agenzie delle Nazioni Unite sull’elevato livello di collusione, che le ONG denunciavano già nel 2017 , tra agenti istituzionali libici ed esponenti delle istituzioni e delle milizie di una Libia che ancora oggi rimane priva di una guardia costiera statale e di un assetto politico generalmente riconosciuto da tutti i suoi cittadini. Che non vengono neppure tutelati dalle istituzioni che dovrebbero garantire a loro ed alle persone in transito di diversa nazionalità il rispetto dei diritti fondamentali della persona ed il diritto di asilo.

La stessa sentenza della Corte di cassazione che riconosce il diritto alla protezione umanitaria per conseguenza delle violenze subite in Libia, a cui si aggiungono le sentenze dei giudici di Messina e di Milano sui casi dei torturatori libici finiti sotto processo in Italia, escludono categoricamente qualsiasi possibilità di configurare ieri, come oggi, la Libia come un porto sicuro di sbarco, o tantomeno di fondare un diritto alla intercettazione in acque internazionali in capo ad autorità libiche. Quello che è stato riconosciuto nel corso degli anni da tutti i tribunali e dalle principali agenzie che se ne sono interessate non può essere ignorato nel processo IUVENTA, un processo che si basa su una mole enorme di intercettazioni, in parte chiaramente artate, per il pesante coinvolgimento di uomini di agenzie di sicurezza private e statali, ma in misura maggiore ammassate solo per suggestionare il lettore, e forse anche gli organi giudicanti, anche quando sono visibilmente irrilevanti, senza un filo logico che le leghi all’accertamento di fatti penalmente rilevanti. Come se il processo IUVENTA si dovesse celebrare prima dell’avvio del procedimento penale, ed in effetti -nel senso comune- una condanna delle attività di soccorso in acque internazionali c’è già stata.

Adesso si sta vivendo una fase politica in cui tutti i protagonisti delle politiche di intesa con i paesi terzi, e con le autorità di Tripoli in particolare, per contrastare quella che viene definita soltanto come “immigrazione illegale”, si trovano riuniti in un medesimo governo, che seppure con modalità diverse continua ad insistere sulle politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera anche in paesi come la Libia in cui sono provati il mancato rispetto dei livelli minimi di rispetto dei diritti umani, cos come la diffusa corruzione e la commistione degli uomini delle organizzazioni criminali con alti ufficiali che operano ai vertici delle istituzioni militari e marittime di quel paese. Si può solo sperare, che questo assetto di governo non influenzi l’andamento del processo penale, e che al di là delle ricostruzioni di comodo, gli organi dei diversi livelli della giurisdizione possano continuare a giudicare come in passato, sulla base del diritto internazionale e nel rispetto della gerarchia delle fonti imposta dalla Costituzione (art.117), sulle attività di ricerca e soccorso nelle acque internazionali del Mediterraneo.