Le vittorie di Pirro della Meloni e la memoria corta di Delrio. Intanto un altro naufragio

di Fulvio Vassallo Paleologo

La recente missione lampo di Giorgia Meloni a Tripoli, lungamente preparata da incontri al massimo livello dei responsabili dei servizi di sicurezza italiani e libici, e preceduta da un importante acordo dell’Eni con l’ente petrolifero libico (NOC), è stata spacciata come un successo ed ha avuto come immediata conseguenza il regalo di altre cinque motovedette italiane alla sedicente Guardia costiera “libica”. Non si racconta però che le forze politiche e le milizie contrarie al governo provvisorio di Dbeibah hanno prontamente lanciato un segnale di rifiuto degli accordi conclusi con l’Italia, sia a livello politico, con le dichiarazioni di Bashaga, che sul piano militare, con la immediata chiusura del terminale che dalla Libia porta il gas in Sicilia.

Neppure le sentenze della Corte di Cassazione sul caso Rackete e sul caso Vos Thalassa hanno impedito che la strategia di contrasto delle migrazioni irregolari, imperniata sulla stretta collaborazione con la sedicente Guardia costiera libica, rimanesse al centro della politica italiana di law enforcement e di “difesa dei confini”. Sulla quale si sta adesso appoggiando anche un Unione Europea incapace di trovare accordi su politiche rispettose dei diritti umani delle persone migranti.

Come avvenuto in passato, si continua a nascondere all’opinione pubblica che la Libia è un paese fallito, spaccato in tre spezzoni controllati da milizie che cercano ancora di prevalere sul piano militare, per affermare quindi una supremazia politica, con il sostegno delle grandi potenze che anche in territorio libico giocano la loro partita globale. Un gioco al massacro tra le diverse tribù che ancora oggi marcano i confini interni al territorio libico, verso le quali si orientano, oltre alle forniture militari europee, camuffate da risorse tecniche per la lotta all’immigrazione irregolare, in un paese che sarebbe sotto embargo, ingenti rimesse di danaro provenienti dai Paesi del Golfo. Rimane ancora determinante, in Cirenaica, il ruolo dell’Egitto di Al Sisi, con il quale si sta trattando per rafforzare le prassi di respingimento ed espulsione collettiva, senza alcun riguardo per il mancato rispetto dei diritti umani in quel paese.

Se l’interlocuzione dell’ENI prosegue da anni con tutti gli attori presenti su questa scena, magari a costo di entrare in contatto con miilizie pesantemente coinvolte nel traffico di esseri umani e nel contrabbando di petrolio, come a Zawia, si rafforza il supporto italiano in favore della sedicente Guardia costiera libica, una volta coordinata direttamente dalle autorità militari italiane, con la presenza di una unità militare della Missione NAURAS nel porto di Abu Sittah (Tripoli. Anche se il ruolo di coordinamento, prima gestito dalle autorità italiane, appare oggi molto più incerto, dopo che i militari turchi, a partire dal 2020, hanno preso il controllo di buona parte del teritorio e dei porti della Tripolitania, con una loro base nel porto di Khoms.

Il nuovo Memorandum d’intesa che sarebbe stato stipulato tra la Meloni e Dbeibah non aggiunge dunque nulla allo scenario che abiamo già visto ( e che le persone migranti hanno subito) da anni, semmai conferma una pervicace volontà di collaborare con le autorità libiche per favorire le intercettazioni in acque internazionali, con la riconduzione a terra di quanti tentano la fuga attraverso il Mediterraneo, verso quei centri lager nei quali le persone migranti sono, e saranno ancora in futuro, esposte ad orribili abusi. Abusi denunziati da anni e sui quali sta indagando anche il Tribunale penale internazionale, con pesanti ipotesi di complicità delle autorità italiane ed europee.

Sorprende la scarsa memoria di chi, come l’ex ministro Delrio, del partito democratico, critica oggi gli accordi conclusi dalla Meloni in Libia, cercando di distinguere invece, forse come esempio positivo, il Memorandum d’intesa concluso nel 2017 da Gentiloni e Minniti con l’ex premier Al Serraj. Da cui derivava il riconoscimento fittizio di una zona SAR (ricerca e salvataggio) riservata ai libici, fino a 120 chilometri dalle loro coste, e l’attacco mediatico e giudiziario contro le Organizzazioni non governative, scomode testimoni di intercettazioni violente e di respingimenti collettivi su delega italiana ed europea. Respingimenti che in diverse occasioni venivano perpetrati sotto il diretto coordinamento dei vertici della Marina Militare della Guardia costiera italiana e del Viminale, attraverso la centrale operativa installata fino all’estate del 2020 a bordo delle navi militari dela classe Caprera inserite nella missione NAURAS, con base stabile nel porto di Abu Sittah , a (Tripoli).

Eppure già nel 2016, se non dalla Relazione Mori del 2005 e poi dai Report delle Nazioni Unite dopo la stagione delle cd. “rivoluzioni arabe” nel 2011, e quindi dalla guerra che poneva fine al regime di Gheddafi, erano noti gli abusi ai quali venivano sottoposte le persone migranti allora attirate in Libia con la prospettiva di un lavoro, e poi vendute dalle milizie ai “padroni”, che li sfruttavano sul lavoro e li riducevano in condizioni servili. Mentre i più sfortunati finivano nei centri di detenzione, dai quali potevano sperare di salvarsi soltanto se le famiglie, nei paesi di origine, riuscivano a soddisfare le richieste estorsive dei carcerieri.

Da anni l’OIM (Organizzazione internazionale delle migrazioni) denuncia che solo una minima parte delle persone intercettate in mare dai guardiacoste libici finisce nei centri di detenzione “ufficiali”, mentre la maggior parte di queste persone, subito dopo lo sbarco viene riconsegnata ai trafficanti o a padroni senza scrupoli che li sfruttano fino allo sfinimento, o ne abusano fisicamente. Come aviene per tantissime donne e per i più giovani. Sono questi i “passeggeri” o i “clandestini” che, se riscono a fuggire, sono soccorsi dalle ONG. Sono questi i testimoni degli effetti perversi delle politiche italiane ed europee di esternalizzazione dei respingimenti e della detenzione.

Una situazione che si è protratta nel corso degli anni, aggravandosi periodicamente a seconda delle tensioni politiche e militari che si scaricavano sulla Libia, ma che nessun membro del PD, e tanto meno Delrio, potevano ignorare quando anno dopo anno votavano il finanziamento della missione militare NAURAS in Libia, o quando restavano inerti mentre erano al governo al momento del rinnovo triennale tacito del Memorandum tra Italia e governo di Tripoli. Senza neppure inserire quelle clausole di salvaguardia dei diritti umani per i quali si impegnavano periodicamente con dichiarazioni immediatamente smentite dalla cooperazione operativa garantita, anche attraverso gli assetti aerei dell’Agenzia europea Frontex, ai mezzi giardiacoste libici, donati dall’Italia ma finiti sotto il controllo di milizie direttamente coinvolte, in diverse località, con i trafficanti di esseri umani. Non possono esserci dubbi o reticenze su questo “grado di coesione”, ci sono sentenze di Tribunale che lo confermano.

Sembra dunque che la situazione nel Mediterraneo centrale possa ulteriormente aggravarsi e la questione “prioritaria” dei rifornimenti energetici potrebbe anche risentire delle scelte del governo italiano in materia di politiche di “gestione dei flussi migratori”, in appoggio alla sedicente Guardia costiera “libica” ed al governo provvisorio Dbeibah. “Flussi migratori” da chiudere, perché questo si intende con il termine “gestione”, così si continuano a definire in modo offensivo le uniche vie di fuga ancora aperte per chi si trova intrappolato nell’inferno libico. Segnale evidente di questa spirale di morte che le politiche europee, e quella italiana in particolare, stanno determinando in mare ed a terra, in Libia, è oggi l’ennesima strage nascosta sulla rotta dalla Tunisia. Una rotta che ormai è strettamente collegata alle rotte libiche, perchè la maggior parte dei naufraghi in partenza dalla regiine di Sfax non è più costituita da tunisini, trattandosi di persone migranti di diversa nazionalità che passano in Tunisia per avere possibilità di fuga via mare che in Tripolitania stanno diventando sempre più ristrette, a differenza di quando sta avvenendo in Cirenaica e nella stessa Tunisia meridionale.

Dietro le stragi appena fuori dalla ridottissima zona SAR tunisina ( che corrisponde a non più di 20-25 chilometri dalla costa) sta l’invenzione di una zona SAR “libica” che di fatto nessuno presidia per attività di soccorso, prevalendo in tutte le autorità statali l’intento di dissuadere le partenze, e favorire le intercettazioni, rendendo più pericolose le traversate. Un intento politico criminale, che non diminuisce affatto i tentativi di traversata ma produce soltanto un incremento delle persone abbandonate in mare per la mancanza di mezzi statali di soccorso, e dunque esposte al rischio di naufragio, in misura ancora maggiore da quando si sono perfezionati gli espedienti (anche in forma di decreto legge) per allontanare dal Mediterraneo centrale, quanto più possibile, le navi della società civile. Sono queste le uniche navi rimaste ad operare soccorsi in acque internazionali tra il nordafrica e la Sicilia, ed a testimoniare gli abusi e le scelte di abbandono in mare commessi da quegli Stati che cercano di dissuadere le partenze e di chiudere, anche per potenziali richiedenti asilo e minori, o vittime di totura, le ultime vie di fuga atraverso il mare verso l’Europa. Se non si farà giustizia in Italia, si cercherà giustizia davanti le corti internazionali. In nessun caso si potranno dimenticare gli abusi impressi sulla pelle delle persone migranti, questi accordi vergognosi con bande criminali, questa omissione sistematica di soccorso in mare. Oggi, dietro la retorica dei successi italiani nella politica estera ed energetica con la Libia, si cerca di nascondere quello che succede veramente in Tripolitania, in Cirenaica, nel Fezzan. Soprattutto si cerca di censurare o di travisare quello che succede davvero nelle acque internazionali a nord delle coste libiche e tunisine. Per questo stesso motivo si cerca di allontanare da queste acque, con ogni mezzo, le navi delle Ong. Prima con decreti dei ministri e decisioni amministrative, adesso con le sanzioni inflitte dai prefetti e lo spauracchio di altre denunce penali. Nessuno deve vedere e testimoniare. Ma non saranno i prefetti a bloccare i soccorsi umanitari in acque internazionali.

No non dimenticheremo davvero gli attacchi, politici, mediatici e giudiziari, contro le azioni di ricerca e salvataggio delle navi inviate dalla società civile. I responsabili ne siano certi.


Delrio, accordi con Tripoli sono un patto col diavolo.

Sull”Africa un finto piano Mattei, c”e” gia” un piano Ue

(ANSA) – ROMA, 30 GEN – Per il senatore Pd Graziano Delrio, intervistato dalla Stampa, la nuova intesa sottoscritta dal governo con le autorita” libiche in tema di immigrazione e” “un accordo con il diavolo, con chi i migranti li fa morire, e ormai ci sono le prove che sia cosi””, Rispetto al memorandum tra Italia e Libia, sottoscritto 6 anni fa dal governo Gentiloni, con Marco Minniti ministro dell”Interno, “c”e” una differenza fondamentale rispetto a oggi – precisa l”ex ministro – all”epoca le azioni criminali della guardia costiera libica non erano ancora state documentate dalle agenzie Onu e dalle organizzazioni internazionali”.

Pero” “alla fine di quell”esperienza – ricorda l”esponente dem – sono cominciati i sospetti e le accuse alle Ong. Un”analisi sbagliata, che negli anni successivi e” divenuta criminalizzazione da parte del Conte I e della destra”. In merito alle politiche adottate oggi, “non e” con queste vetrine mediatiche, in Libia o in Egitto, che si risolve il problema in modo strutturale. Ed e” ridicolo pensare a una sovranita” italiana sull”immigrazione, e” l”Europa che ci da” piu” sovranita”. Discorso che vale anche per il finto piano Mattei per l”Africa”. Delrio spiega: “Ho molti dubbi sul fatto che un”iniziativa solo italiana, a 60 anni di distanza, possa stimolare un processo cosi” forte. Esiste gia” un piano europeo per l”Africa, che vale 150 miliardi, l”Italia si impegni a diventare leader di quel progetto, solo cosi” potremo davvero incidere. Altrimenti, sono solo slogan”, ha ribadito Delrio. (ANSA).

30-GEN-23 09:26


Delrio dimentica che i crimini contro i migranti in Libia erano già noti e denunciati anche dall’ONU gia’ nel 2016 prima del Memorandum d’intesa Gentiloni-Minniti-Tripoli e dell’attacco politico giudiziario contro le Ong avviato proprio nel 2017.

War crimes committed in Libya since 2016, says new UN report

Date: Tuesday, October 5, 2021


Noi non dimentichiamo.MAI.

Anche prima del mese di marzo del 2018 tutti sapevano, o dovevano sapere, come il ministro dell’interno pro-tempore, che fine facevano e dove venivano portati i migranti fermati in acque internazionali dalla cd. guardia costiera “libica”.

Da una ricostruzione del caso Open Arms (marzo 2018) di Francesca De Vittor:

Sin dalla ricostruzione dei fatti appare infatti evidente come l’intervento della Guardia costiera libica sia stato l’effetto della comunicazione fornita agli stessi Libici da parte dell’MRCC di Roma, e del coinvolgimento della nave della Marina militare italiana Capri di stanza a Tripoli. In primo luogo, quando alle 4.35 l’MRCC di Roma contattò la Open Arms chiedendo il suo intervento per l’evento SAR 165, esso «provvedeva anche ad inviare un messaggio alla Guardia costiera libica, per informarla del detto evento e per chiedere quali fossero le sue intenzioni» (Decreto del g.i.p. di Catania, cit., p. 3). Alle 5.37 fu la nave Capri della Marina militare italiana, di stanza a Tripoli, a comunicare a Roma che una motovedetta libica avrebbe mollato gli ormeggi per dirigersi verso l’obiettivo e che la Guardia costiera libica «avrebbe assunto la responsabilità del soccorso» (ivi, p. 4), ed è in ragione dell’assunzione di tale responsabilità che la Guardia costiera libica chiese all’MRCC di Roma di comunicare alla Open Arms di tenersi lontano dai luoghi del soccorso. A conferma della costante cooperazione tra le autorità italiane e quelle libiche, va rilevato che fu proprio l’addetto per la Difesa italiana a Tripoli a contattare l’MRCC «lamentando il comportamento della Open Arms, in quanto lo riteneva contrario al Codice di condotta sottoscritto con il Ministero italiano» (ivi, p. 5). In generale, da tutta la descrizione dei fatti traspare chiaramente il continuo dialogo tra i Libici e le autorità italiane (MRCC e Marina militare italiana a Tripoli) volto a privilegiare l’intervento libico rispetto a quello della Open Arms o di altri soccorritori, e ciò nonostante i gommoni fossero già in acque internazionali al momento dell’avvistamento. Ciò trova esplicita conferma nell’affermazione conclusiva del giudice di Catania secondo cui «la circostanza che la Libia non abbia definitivamente dichiarato la sua zona SAR non implica automaticamente che le loro navi non possano partecipare ai soccorsi, soprattutto nel momento attuale, in cui il coordinamento è sostanzialmente affidato alle forze della Marina militare italiana, con i propri mezzi navali e con quelli forniti ai Libici»).


La sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli del 18-20 dicembre 2017 a Palermo

ATTO DI ACCUSA

Tribunale Permanente dei Popoli
Sessione sulla violazione dei diritti delle persone migranti e rifugiate (2017-2018)
Udienza di Palermo, 18-20 dicembre 2017

Atto d’accusa
Questa sessione del Tribunale Permanente dei Popoli è chiamata ad accertare, e ad elaborare le deliberazioni conseguenti, se le politiche adottate dall’Unione Europea in tema di migrazione e asilo, di cui sono espressione politiche, normative e prassi recenti degli Stati membri, configurino, nei loro effetti concreti sul popolo migrante, un crimine contro l’umanità e/o prefigurino gravi violazioni degli articoli sanciti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli firmata ad Algeri il 4 luglio del 1976.
Si ricorda che sotto la definizione di crimine contro l’umanità ricadono, secondo l’art. 7 dello Statuto di Roma, le seguenti azioni: Omicidio; b) Sterminio; c) Riduzione in schiavitù; d) Deportazione o trasferimento forzato della popolazione; e) Imprigionamento o altre gravi forme di privazione della libertà personale in violazione di norme fondamentali di diritto internazionale; f) Tortura; g) Stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità; h) Persecuzione contro un gruppo o una collettività dotati di propria identità,
inspirata da ragioni di ordine politico, razziale, nazionale, etnico, culturale, religioso o di genere sessuale (…); i) Sparizione forzata delle persone; j) Apartheid; k) Altri atti inumani di analogo carattere diretti a provocare intenzionalmente grandi sofferenze o gravi danni all’integrità fisica o alla salute fisica o mentale.
Si ricorda altresì che la Dichiarazione d’Algeri sancisce il diritto all’assistenza (sezione I) e
all’autodeterminazione politica (Sezione II) di ogni popolo; nonché i diritti economici dei popoli (Sezione III); il diritto alla cultura (Sezione IV); il diritto all’ambiente e alle risorse comuni”; e i diritti dei popoli che rappresentano delle minoranze (Sezione VI). La dichiarazione di Algeri stabilisce quindi che qualsiasi inosservanza delle disposizioni contenute in essa “costituisce una trasgressione di obblighi verso la comunità internazionale tutta intera” (art. 22); che “tutti i trattati, accordi o contratti non paritari, approvati in spregio dei diritti fondamentali dei popoli non possono produrre alcun effetto (art. 25); che “le violazioni più gravi dei diritti fondamentali dei popoli, soprattutto il loro diritto all’esistenza, costituiscono crimini internazionali che comportano la responsabilità penale individuale dei loro autori” (art. 27) e che, infine, “il ristabilimento dei diritti fondamentali di un popolo, quando essi sono gravemente misconosciuti, è un dovere che si impone a tutti i membri della comunità internazionale” (art. 30).
Il Tribunale Permanente dei Popoli non è infatti tenuto, come lo sono invece i tribunali penali nazionali e internazionali, a delimitare il proprio ambito di indagine e giudizio solo in relazione al diritto penale sancito a livello nazionale e internazionale, ma può includere nella propria competenza violazioni sistemiche dei diritti dei popoli che non integrano direttamente o esclusivamente fattispecie penali di diritto positivo.
In questo quadro, vanno prese in considerazione, in particolare, le politiche di esternalizzazione dal governo Italiano – condotte con il sostegno politico ed economico dell’Ue – realizzate attraverso accordi con i paesi di origine e di transito dei migranti, e in particolare con la Libia, valutando i loro effetti sostanziali sui diritti del popolo migrante costretto ad attraversare la rotta del Mediterraneo centrale inteso come frontiera meridionale dell’Europa.
Si ricorda infine che l’aver ricondotto alla categoria di “popolo” la complessità degli individui che con i loro percorsi differenti sono oggi in migrazione verso l’Europa attraverso le rotte più pericolose, è un diretto risultato delle politiche di chiusura dell’Unione europea che hanno massificato in un unico popolo di vittime della violenza delle frontiere, donne, uomini e bambini portatori e portatrici di storie e istanze anche molto diverse tra loro.

I – La politica Ue di esternalizzazione delle frontiere
Le conseguenze della politica di esternalizzazione delle frontiere, di recente implementata nel quadro del Processo di Khartoum, e che ha visto come tappe fondamentali i vertici di Malta del 2015 e del 2017, vanno urgentemente indagate in relazione alle loro conseguenze in termini di violazione dei diritti umani. Tali eventuali violazioni vanno valutate rispetto a ciò che avviene nei paesi di transito e di origine dei migranti, nelle acque (nazionali e internazionali) del Mediterraneo centrale, e anche sul territorio europeo nel momento in cui, in nome degli accordi coi paesi di origine e di transito, le persone vengono escluse dall’accesso ai diritti (a cominciare dal diritto di chiedere protezione), e poi respinte o espulse in massa senza riguardo alla loro condizione e alla loro storia personale.
La collaborazione con i paesi di origine e transito dei migranti, nella cosiddetta lotta contro
l’immigrazione che viene definita “illegale”, sembra alimentare proprio le filiere che quella
immigrazione favoriscono e da cui traggono risorse economiche, oltre che rischiare di legittimare governi o autorità nazionali che opprimono le proprie popolazioni.
Va inoltre valutato, rispetto ad accordi come quelli con l’Egitto e il Sudan, o quelli in via di
definizione con il Niger, con il Mali, ed in prospettiva con l’Etiopia ed altri paesi dell’Africa
subsahariana, quanto simili intese con i paesi di transito e di origine dei migranti implichino la delega alle forze di polizia di questi paesi, nei quali non esiste spesso alcuna garanzia di stato di diritto, né tanto meno la possibilità di ottenere uno status di protezione, il compito di arrestare, respingere e detenere, indistintamente, i migranti in cammino verso l’Europa.
Su questo terreno vanno verificate e valutate le responsabilità dell’Unione europea che omette di adottare efficaci misure per contrastare le derive nazionalistiche dei paesi del Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia), così alimentando le tendenze xenofobe di parte crescente della popolazione europea.
Tutto ciò va costantemente tenuto in considerazione nell’esaminare le connesse responsabilità degli Stati membri, tra cui l’Italia che, proprio prendendo a modello l’accordo promosso dagli Stati membri dell’Unione europea con la Turchia nel marzo 2016, ha innescato processi che adesso non appare più in grado di controllare pienamente e che possono avere conseguenze molto gravi, soprattutto in territorio libico e nel Mediterraneo centrale.
Le conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo implicano una precisa assunzione di responsabilità sulle politiche violatrici di diritti fondamentali che si stanno intensificando proprio con riguardo alla rotta del Mediterraneo centrale ed ai rapporti con le diverse autorità libiche.

Al di là delle apparenze, Italia ed Unione europea parlano in questo, da tempo, con una sola voce: il Migration compact presentato come “non-paper” dal governo italiano, nell’aprile del 2016, prendendo a modello l’accordo con la Turchia del marzo del 2016, si pone in perfetta continuità, anche per la discrasia tra l’esiguo valore legale di questo tipo di documenti e le conseguenze estremamente concrete che hanno prodotto in termini di politiche e di prassi, con l’Agenda Europea del 2015 e con il New Partnership Framework with third countries under the European Agenda on Migration redatto dalla Commissione Ue nel giugno dello stesso anno.
In tutti questi documenti le politiche migratorie, che non comprendono canali di ingresso legali e sicuri, sono incentrate sul blocco dei migranti classificati genericamente come “migranti economici” specie quando provenienti dalla rotta centrale del Mediterraneo, ignorando il fatto che possano essere portatori di istanze di protezione o soggetti vulnerabili.
Nei confronti di tutti gli operatori umanitari che non hanno assecondato queste politiche, si rileva altresì un processo di criminalizzazione in corso che ha alimentato preoccupanti campagne di stampa e movimenti di opinione pubblica che sembrano non dare alcuna priorità alla tutela dei diritti umani delle persone.
Anche quando i migranti riescono ad attraversare il mare, infine, le politiche dell’Unione europea vanno indagate e giudicate rispetto ad una gestione delle migrazioni sbilanciata verso esigenze di controllo e allontanamento, piuttosto che di tutela dei diritti, con l’istituzione, ad esempio, dei cosiddetti Hotspot, luoghi di selezione e clandestinizzazione che appaiono snodi fondamentali per eseguire i respingimenti e le espulsioni previsti dagli accordi. In questi centri, come accade nei centri di detenzione amministrativa, le persone trattenute hanno difficoltà a fare valere i più elementari diritti di ricorso anche là dove una loro espulsione diretta possa compromettere la loro sicurezza e il loro diritto alla vita.
Per tutte queste ragioni occorre adottare una valutazione dei fatti denunciati che tenga conto delle categorie giuridiche formali, utilizzabili a livello interno o internazionale, ma che riesca anche ad andare alla sostanza delle violazioni subite dalla popolazione migrante in transito e ne individui possibili fonti di responsabilità e condanna.
Le intese e gli accordi stipulati tra gli Stati dell’Unione europea e i Paesi terzi devono essere
valutati in considerazione degli effetti che producono, al di là delle affermazioni formali di rispetto dei diritti umani e delle Convenzioni internazionali, con particolare riguardo al diritto alla vita, all’ integrità fisica e psichica ed alla libertà personale di quanti ne subiscono le conseguenze.

II – Gli accordi bilaterali dell’Italia e il memorandum con la Libia
Nel quadro sopra evidenziato, il governo italiano ha chiesto ed ottenuto, con la Conferenza di Malta del 3 febbraio 2017, un sostanziale avallo da parte dell’Unione Europea, e un consistente supporto economico, per esternalizzare i controlli di frontiera e trasferire sui paesi di transito i poteri di arresto e respingimento che in passato sono stati esercitati dalle autorità italiane in modo non conforme ai Trattati ed alle Convenzioni internazionali.
Malgrado le condanne definitive da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che ha
riaffermato la sua giurisdizione anche nel caso di violazioni commesse in acque nternazionali, e nonostante il peggioramento documentato della situazione politica e militare nei paesi di transito, il Governo italiano persegue infatti nei processi di esternalizzazione delle frontiere.
Basti pensare agli accordi con l‘Egitto, con la Nigeria e con il Sudan per cogliere immediatamente la problematicità delle intese siglate dall’Italia, spesso allo stato di Memorandum (MoU) neppure approvate dal Parlamento nazionale, rispetto alle conseguenze sulla vita e sui corpi dei migranti che ne sono oggetto. Adesso sembra che i rimpatri in Sudan ed in Nigeria siano stati sospesi, ma andrebbero indagati e valutati gli effetti che tali rimpatri hanno prodotto sulle persone migranti che li hanno subiti.
Allo stesso modo, è imprescindibile indagare e valutare oggi le conseguenze concrete sui diritti umani del popolo migrante del Memorandum d’intesa con il Governo di Riconciliazione Nazionale dello Stato di Libia, firmato dal Presidente del Consiglio Italiano il 2 febbraio scorso, che richiama accordi e protocolli operativi stipulati con precedenti autorità libiche che, a differenza di quelle attuali, controllavano l’intero territorio nazionale.
Il Governo italiano ha trattato con le autorità di Tripoli e di altre città della Tripolitania nonostante esse non rappresentino, ad oggi, un’entità statale unica guidata da un governo stabile, come dimostrano i conflitti armati in corso. Nella caotica situazione libica, l’autorità dei sindaci delle città libiche con cui il governo italiano ha sviluppato le trattative appare strettamente dipendente dal supporto delle milizie che controllano le stesse città e che hanno gestito per anni e gestiscono ancora, in guerra tra loro, il traffico delle persone migranti.
Tali milizie, trasformate spesso in vere e proprie guardie di frontiera, rischiano quindi, ad oggi, di essere foraggiate con risorse economiche italiane ed europee.
È imprescindibile quindi indagare quali responsabilità possano essere ricondotte all’Unione europea e al Governo italiano, rispetto alle gravissime violazioni commesse ai danni dei migranti bloccati in mare dalle forze libiche e poi ricondotti nei centri di detenzione del territorio; luoghi in cui, come ha di recente denunciato anche l’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’Onu, non vige alcuno stato di diritto, efferate violenze sono all’ordine del giorno, e nei quali le persone divengono spesso vittime di compravendita, tratta, schiavitù. Rispetto a questi luoghi, vanno indagate le relazioni tra milizie, polizia e criminali, i fondi con cui sono finanziati, e il loro reale numero sul territorio libico, a partire dalla consapevolezza che ad oggi essi non appaiono nemmeno interamente censiti, con
migliaia di migranti tra quelli riportati in terra dalle autorità libiche, che spariscono nel nulla.
A questo proposito, è opportuno approfondire quali siano i centri che il Memorandum definisce genericamente “centri di accoglienza”, proponendo il loro “adeguamento e finanziamento” con fondi italiani e dell’Ue “nel rispetto delle norme pertinenti” (art. 2.2).
Nello stesso contesto, vanno indagate anche le cause e le conseguenze dell’allontanamento delle ONG che svolgevano attività di ricerca e salvataggio nelle acque del Mediterraneo centrale, nel pieno rispetto delle leggi e delle Convenzioni internazionali, dopo che gli Stati europei avevano imposto la fine dell’operazione Mare Nostrum ed avevano ritirato dalla rotta del Mediterraneo centrale la maggior parte delle navi coinvolte nell’operazione Triton di Frontex. Le navi di queste ONG, oltre che essere costrette a firmare un “codice di condotta” che restringe di molto l’indipendenza della loro azione, sono state sottoposte persino ad aggressioni e attacchi armati durante le loro operazioni di soccorso, anche perché lasciate sprovviste di ogni copertura. Appare necessario anche ricostruire la catena di comando che ha portato le Unità navali di Frontex e di Eunavfor Med ad arretrare, allontanandosi dal limite delle acque libiche dove stazionavano in precedenza.
In questo modo, senza testimoni, le motovedette libiche hanno iniziato a raggiungere e bloccare le imbarcazioni cariche di migranti spingendosi indisturbate fino alle acque internazionali anche grazie all’incerta suddivisione delle zone SAR nel Mediterraneo; procedura indagata anche dalla Corte Penale Internazionale, e rispetto alla quale appare necessario approfondire anche il ruolo rivestito dal Comando centrale della Guardia costiera italiana (IMRCC).
Si tratta di fatti rispetto ai quali si possono e devono indagare responsabilità per omissione di soccorso – valutando anche le eventuali dirette conseguenze nei naufragi degli ultimi mesi – e per concorso nei reati commessi ai danni dei migranti alle autorità europee e agli organi statali che li hanno determinati, come alle autorità militari che vi hanno dato esecuzione.
Come si è fatto in territorio libico, anche nelle acque territoriali e poi nelle acque internazionali si sono create zone sottratte di fatto a qualsiasi giurisdizione, spazi nei quali le vite e i diritti delle persone possono essere impunemente violati senza che nessuno dei decisori politici o dei vertici militari siano in concreto passibili di una qualsiasi attribuzione di responsabilità.
Le autorità navali e statali che coordinano le attività di soccorso in cooperazione con la Guardia costiera libica non possono ignorare la sorte che subiscono i migranti che ancora in numero consistente vengono “soccorsi” in acque internazionali e riportati in un territorio dal quale non potranno fuggire se non dopo avere subito altri abusi ed altre violenze. Per questo motivo ,se è vero che sono la Guardia costiera libica o le milizie libiche a perpetrare in maniera diretta ogni sorta di abusi sulle persone sottoposte alla loro potestà, in assenza di qualsiasi garanzia giurisdizionale o di un qualsiasi sistema giudiziario o amministrativo che in Libia sanzioni quegli abusi, non si può che imputare alle autorità europee e italiane, che quegli accordi hanno concluso, finanziato ed eseguito, una precisa responsabilità.
Una responsabilità simile codesto Tribunale è chiamato ad indagare anche sulle conseguenze
dell’accordo bilaterale dell’Italia con il governo egiziano, il cui pieno funzionamento rispetto
all’effettività dei rimpatri è ad oggi preso a modello per perfezionare anche altri accordi bilaterali con paesi di origine e di transito dei migranti. Rimangono infatti forti dubbi sulla legittimità dei rimpatri collettivi verso l’Egitto effettuati con personale di polizia egiziano che arriva in Italia per prendere in carico negli aeroporti le persone sottoposte ad allontanamento forzato, private anche della possibilità di chiedere protezione internazionale o di impugnare per altre ragioni i respingimenti.
Date queste premesse, il Tribunale Permanente dei Popoli, nella Sessione di Palermo del 18, 19 e 20 dicembre 2017, è chiamato a valutare:
– Se le politiche dell’Unione europea sulle migrazioni e l’asilo, a partire dalle intese e gli
accordi stipulati tra gli Stati dell’Unione europea e i Paesi terzi, costituiscano una negazione
dei diritti fondamentali della persona umana, mortificandone la dignità definendola
“illegale” e ritenendo “illegali” le attività di soccorso e di assistenza in mare.
– Se l’arretramento delle unità navali di Frontex e di Eunavfor Med abbia contribuito
all’estensione degli interventi della Guardia costiera libica in acque internazionali al fine di
bloccare i migranti in viaggio verso l’Europa, ponendo in secondo piano l’obbligo di
rintraccio e soccorso, configurando anche una responsabilità omissiva.
– Se le attività svolte in territorio libico e in acque libiche e internazionali dalle forze di
polizia e militari libiche, nonché dalle molteplici milizie tribali e dalla c.d. “guardia costiera
libica” a seguito del Memorandum del 2 febbraio 2017 firmato con l’Italia configurino –
nelle loro conseguenze di morte, deportazione, sparizione delle persone, imprigionamento
arbitrario, tortura, stupro, riduzione in schiavitù, e in generale persecuzione contro il popolo
dei migranti in quanto tali – un crimine contro l’umanità.
– Se, una volta accertato tale crimine, rispetto ad esso l’Italia agisca in concorso perché le
azioni delle forze libiche ai danni dei migranti, in mare come sul territorio della Libia, sono
svolte in attuazione del suddetto memorandum firmato dal Presidente del Consiglio italiano con il Governo di Riconciliazione Nazionale dello stato libico.
– Se, a seguito degli accordi con la guardia costiera libica, gli episodi di aggressione
denunciati dalle ONG che svolgevano attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo siano
indirettamente ascrivibili anche alle responsabilità del governo italiano, eventualmente in
concorso con le agenzie europee operanti nello stesso contesto.
– Se l’allontanamento forzato delle navi delle ONG dal Mediterraneo, indotto anche dal
“codice di condotta” imposto dal governo italiano, abbia indebolito significativamente le
azioni di ricerca e soccorso dei migranti in mare e abbia contribuito ad aumentare quindi il
numero delle vittime.
– Se i rimpatri collettivi verso l’Egitto, effettuati sulla base dell’accordo bilaterale firmato
dall’Italia con quel paese, violino i diritti umani di chiedere asilo e di accedere a un ricorso
effettivo, e comportino un alto rischio di violazione di altri diritti fondamentali delle
persone, inclusi quello alla vita e quello di non subire torture e imprigionamenti arbitrari.

Questo atto di accusa è stato redatto da un gruppo di lavoro coordinato dall’avv. Fulvio Vassallo Paleeologo, Presidente di ADIF (Associazione diritti e frontiere), a nome di novantasei associazioni e ONG italiane