“Crimini contro l’umanità e impunità istituzionale”

di Fulvio Vassallo Paleologo e Flore Murard-Yovanovitch

Comunicazione presentata al Convegno “Europa: migranti e richiedenti asilo. Per una svolta di civiltà”
Roma, 14 ottobre 2020

Premessa

L’estensione geografica dei crimini contro le persone migranti riguarda ormai tutti i confini europei esternalizzati e alcuni confini interni. In un “arco della barbarie” che va dai Balcani al Niger, dall’Egeo ai campi di internamento in Grecia e in Libia, passando per le Alpi e le rotte di transito nei deserti sub-sahariani. Le violazioni dei diritti delle persone in transito hanno quindi sfaccettature diverse, che sollevano, ovviamente, questioni di responsabilità specifiche, a secondo delle aree geografiche e del livello di delega da parte dell’Unione Europea ai singoli Stati. Eppure, questi crimini contro i migranti hanno una caratteristica unitaria, quella di respingere e detenere, sacrificare la vita delle persone e dei loro diritti fondamentali in nome della “difesa dei confini”.  Le caratteristiche omogenee di violazione dei diritti fondamentali di queste persone in ogni tentativo di attraversamento della frontiera permette di ricostruire una intera categoria di popolo migrante, schiacciato dalle politiche di contrasto dell’immigrazione “illegale”. Come si verifica su tutte le rotte del Mediterraneo. Nelle persone costrette a varcare una frontiera in assenza di canali legali di ingresso, che vengono respinte con mezzi che non rispettano i diritti fondamentali sanciti dalle Convenzioni internazionali, si può dunque configurare una particolare categoria di “popolo migrante” titolare di diritti che vengono sistematicamente lesi, incluso il diritto alla vita, dalle autorità di paesi che cercano soltanto di impedire l’attraversamento della frontiera.

Per continuità con la Sessione di Palermo del Tribunale Permanente dei Popoli del 2017, concentreremo qui l’analisi sui “crimini di sistema” commessi dagli Stati europei e dai loro rappresentanti sull’asse geografico e politico che dalla Libia porta verso l’Italia e Malta. E non si potrà parlare dei fatti senza ricordare innanzitutto le vittime di quelle che sono state le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera, spacciate come unica modalità di contrasto delle migrazioni definite “illegali”, e delle organizzazioni criminali che le controllano confondendosi spesso con le autorità ufficiali, a causa dei diffusi sistemi corruttivi che arrivano fino ai livelli più elevati della politica.

Le cifre sono note: dal 2013 al 2020, si stima che oltre 20.000 bambini, donne e uomini siano annegati nel Mediterraneo. Mentre un bilancio a cui si dà in generale poca importanza ma che è costituito da circa 55.000 civili, tra cui donne e bambini, forzatamente respinti in Libia, dopo la firma del Memorandum tra l’Italia e la Libia nel 2017 (Oim). Questi numeri ci dicono quanto la macchina del crimine di sistema, come lo definiva la sentenza di Palermo, che assume ormai le caratteristiche di un “crimine istituzionale”, sia sempre più oliata ed efficiente. 

Oggi, si può quindi parlare del Mediterraneo come di “uno spazio di eliminazione fisica” dei migranti che non si vuole fare arrivare in Europa”, e che si vorrebbe sottrarre a qualsiasi giurisdizione effettiva. E’ noto che i pull-backs delegati alle milizie libiche, sono in realtà effettuati sotto il diretto coordinamento europeo, che però si vuole nascondere ad ogni costo. Il Mediterraneo è infatti, in questi ultimi anni diventato un vero e proprio buco nero – frutto di una censura istituzionale che mira sistematicamente a nascondere le prove. Per realizzare queste politiche occorreva colpire tutte le organizzazioni non governative che continuano a prestare assistenza alle persone che tentano di attraversare il Mediterraneo. Quando non bastano i decreti amministrativi si ricorre alle denunce ed agli arresti, per eliminare testimoni scomodi che potrebbero denunciare le responsabilità istituzionali. Sono ormai solo i corpi arenati sulle coste libiche e tunisine, e le rare voci delle vittime raccolte dall’incessante e cruciale monitoraggio civile, che ci permettono di venire a conoscenza dei fatti e dell’entità del crimine istituzionale, sistematico e reiterato di cui ci occupiamo oggi. Nel dossier sul Mediterraneo, pazientemente assembrato dal Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos, si scopre come non passi una sola settimana senza notizie di un naufragio o di vittime sulle rotte terrestri che portano al bacino Mediterraneo.

Lo spunto di partenza della nostra analisi è la sentenza di Palermo del Tribunale Permanente dei Popoli del dicembre 2017. L’atto di accusa anticipava già le tendenze necropolitiche di cui siamo testimoni oggi, che seppure qualificate dalla sentenza come “crimini si sistema” andrebbero oggi aggiornate. Non si tratta però di aggiungere un’elencazione dei  singoli casi nei quali le persone sono state vittime delle politiche europee e nazionali di esternalizzazione delle frontiere, ma di ricondurrei fatti a responsabilità politiche e personali ben individuate. Non si può accettare la tesi che la natura “politica” delle scelte di singoli membri dell’esecutivo, come i ministri dell’interno, cancellino ogni profilo di responsabilità. Responsabilità che, anche se non ritenute rilevanti nei giudizi di taglio penalistico a livello nazionale, possono tuttavia incardinare valutazioni di condanna davanti alle giurisdizioni internazionali, o nell’ambito dei lavori di un tribunale di opinione come il Tribunale Permanente dei Popoli (TPP). Come  si vedrà, nonostante la sentenza di Palermo del TPP avesse qualificato  i fatti emersi già allora  nell’atto di accusa come “crimini di sistema”, ci sono stati ampi accertamenti successivi a quella condanna, che possono comportare un ulteriore qualificazione delle singole decisioni politiche che hanno violato in modo sistematico diritti fondamentali delle persone migranti come “crimini contro l’umanità”.

Per molti anni, si è pensato che la giustizia internazionale potesse sanzionare le violazione dei diritti umani commessi dagli Stati  o da singoli agenti statali alle frontiere (come si è verificato ad esempio nel 2012,  davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Hirsi). Oggi vediamo che la giustizia internazionale non riesce più, per mancanza di indipendenza se non per volontà politica, o per una diversa cultura giuridica, a  condannare gli autori dei crimini commessi alle frontiere contro i migranti. Gli Stati hanno anche nominato giudici che non sempre garantiscono valutazioni obiettive rispetto alla linea dei governi e alcune sentenze, come ad esempio quelle relative ai respingimenti dalla Grecia n Turchia, segnano un autentico crollo della civiltà giuridica occidentale. Anche i sistemi di sanzione penale o amministrativa presenti nelle legislazioni nazionali hanno mostrato tutta la loro inefficacia. Si ha l’impressione che prevalga l’obiettivo della difesa dei confini sull’applicazione del diritto penale interno e persino sulla effettività dei principi costituzionali. A fronte del silenzio della giustizia internazionale e della relative impasse giuridica delle giurisdizioni nazionali nel tutelare le persone in movimento che si ritrovano, spesso costrette, ad attraversare una frontiera, sembra quindi qualificare questo nuova tipologia di crimini contro il popolo migrante, evidenziando la loro strutturalità, la loro sistematicità, e infine il nodo cruciale della loro intenzionalità; nonché la diffusa accettazione da parte dell’opinione pubblica. Consenso che viene utilizzato anche per legittimare violazioni he sarebbero già rilevanti sotto il profilo della responsabilità penale individuale.

Quello che ci preme sottolineare della nostra analisi è la progressiva accelerazione del crimine istituzionalizzato contro l’umanità, a cui assistiamo proprio per effetto del concatenarsi e del connubio letale di politiche e prassi di abbandono a mare, di omissioni di soccorso, di respingimenti e detenzione di massa. Politiche e prassi, peraltro, proseguite e “legittimate” da vari “Piani” europei adottati dal Consiglio e dalla Commissione nel corso degli anni, soprattutto a partire dal 2015, e da ultimo nella proposta di un “Patto europeo su migrazioni e asilo” che ci è stata appena presentata dalla Commissione a Bruxelles il 23 settembre scorso. Anche se il “Patto” ha già ricevuto la bocciatura dei leader delle destre sovraniste europee, le prassi in materia di respingimento e di allontanamento forzato, come le politiche di abbandono in mare e di militarizzazione dei confini sono già largamente diffuse e procedono con una crescente autonomia, alla quale corrisponde una cospicua dotazione economica, riconosciuta all’Agenzia europea per le frontiere esterne FRONTEX.

Se non ci sarà una svolta autentica, sul piano politico, ma anche sul piano sociale, giudiziario e culturale, implicante una presa di coscienza collettiva, se questo sistema di crimini istituzionali rimarrà impunito, è probabile che si arriverà ad un annientamento totale della persona in movimento e della sua vita. Una china pericolosa verso la quale ci stiamo orientando a passo accelerato come “crisi di civiltà” che già si profila chiaramente. Dal tempo del rispetto dei diritti fondamentali e dello Stato di diritto, al tempo della negazione del diritto alla vita e del principio di uguaglianza tra tutti gli esseri umani.

Il Tribunale Permanente dei Popoli  aveva già avvertito, a marzo 2020: «La politica dell’Ue esprime e determina inevitabilmente anche i comportamenti e la cultura di fondo della società civile europea, al di là dei governi degli Stati membri. L’attuale acuta attenzione, più che giustificata anche se con tutte le sue contraddizioni, all’emergenza Covid-19 sta concorrendo, insieme alle logiche delle politiche economiche neoliberiste, a fare del “problema della migrazione” non già l’indicatore imprescindibile della capacità della nostra civiltà di essere umani, ma l’espressione manifesta di un’Europa che condanna allo ‘scarto’ e cancella tutti gli umani che non rientrano nelle logiche dei propri modelli di sviluppo. L’impunità di questa cancellazione attribuisce al crimine di sistema l’eco di un “ongoing genocide” di cui l’umanità futura ci chiederà conto».

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Tre i punti nodali della nostra analisi.

A) Esternalizzazione delle frontiere, Unione europea e ruolo delle politiche intergovernative in materia di immigrazione ed asiloLe conseguenze degli accordi con il governo di Tripoli, che non rappresenta l’intera Libia. La delega dei poteri di intervento in acque internazionali alla sedicente “Guardia costiera “libica”, con la creazione, nel 2018, di una zona di ricerca e salvataggio (SAR) affidata alla competenza esclusiva di questa autorità. Su questo punto l’Unione Europea ha delegato agli stati membri più esposti Italia e Malta ampi poteri di negoziazione ai quali vanno ricollegate precise responsabilità.

B) Le politiche nazionali di criminalizzazione delle Organizzazioni non governative che si sono snodate prima con decisioni amministrative del ministro dell’interno, rivolte “ad navem”, caso per caso, poi con il decreto sicurezza bis del 2019 e quindi con il rinnovo degli accordi con la sedicente Guardia costiera libica alla quale si sono forniti mezzi, addestramento ed assistenza operativa. Il processo penale come strumento di politica delle migrazioni anche se non si è mai arrivati ad una sentenza di condanna degli operatori umanitari. Il processo penale che quando coinvolge esponenti della politica che hanno praticato lo sbarramento delle frontiere diventa strumento di disinformazione e di propaganda. Ma dai processi penali emergono fatti precisi che possono fondare responsabilità degli Stati e configurare un principio di prova di crimini contro l’umanità.

C) Gli effetti della normativa emergenziale conseguente alla pandemia da COVID ed in particolare del decreto interministeriale del 7 aprile 2020 e dell’Ordinanza di Protezione civile del 12 aprile 2020 (navi quarantena),con il rafforzamento del principio di sovranità nazionale, la chiusura dei porti dichiarati “non sicuri”, ma solo per le navi delle ONG che battono bandiera straniera. La discriminazione istituzionale che non garantisce maggiore sicurezza ai naufraghi, ma “difende i confini” per una “emergenza sanitaria nazionale” che non deriva però dall’arrivo di migranti.

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A) Esternalizzazione delle frontiere, Unione europea e ruolo delle politiche intergovernative in materia di immigrazione ed asiloLe conseguenze degli accordi con il governo di Tripoli, che neppure rappresenta l’intera Libia, e in particolare la delega dei poteri di intervento in acque internazionali alla sedicente Guardia costiera “libica”, con la creazione di una zona di ricerca e salvataggio (SAR) affidata alla competenza esclusiva di questa autorità. Su questo punto l’Unione Europea ha delegato agli stati membri più esposti Italia e Malta ampi poteri di negoziazione ai quali vanno ricollegate precise responsabilità.

 1.  Esternalizzazione delle frontiere, Unione europea e ricorso alle politiche intergovernative in materia di immigrazione ed asilo

Le politiche europee di esternalizzazione delle frontiere caratterizzano tutto il sistema di difesa dei confini esterni dell’UE e condizionano l’accesso effettivo al diritto alla protezione internazionale, pure affermato dall’art. 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.  L’Unione Europea ha rinnovato negli anni le sue politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera, per svuotare completamente il diritto di asilo riconosciuto dalle Costituzioni nazionali, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, e dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Da queste politiche sono derivate migliaia di morti e dispersi, con la legittimazione di governi che non rispettano i principi democratici e che hanno diffuso nell’intero Mediterraneo un clima di guerra permanente a bassa intensità. 

Per quanto riguarda il Mediterraneo centrale, la Commissione Europea insiste, anche nei suoi atti più recenti, sulle politiche di esternalizzazione e cerca di dare una copertura alle violazioni sempre più gravi commesse dalle autorità italiane e maltesi quando collaborano con i libici, riconoscono una zona SAR libica che non garantisce la salvaguardia della vita umana in mare, e negano alle persone che si trovano in difficoltà in acque internazionali qualunque possibilità di effettivo coordinamento dei soccorsi e di sbarco tempestivo in un porto sicuro. Tuttavia anche l’Unione europea ricorda il dovere di colaborazione tra gli Stati che sono comunque a conoscenza di un evento di soccorso e che condividono la responsabilità di zone SAR di ricerca e salvataggio contigue ubicate nelle acque internazionali. Come del resto impongono le Convenzioni internazionali, ed in particolare la Convenzione di Amburgo (SAR) del 1979 sulla ricerca ed i soccorsi in mare, putualmente richiamata in tutti i documenti europei, come ad esempio il Regolamento Frontex n. 656 del 2014.

Avevano avvertito da anni come l’accordo tra gli Stati europei e la Turchia avrebbe prodotto effetti disastrosi, soprattutto sulla pelle dei migranti intrappolati nelle isole greche di fronte alla Turchia. Il campo “hotspot” di Moria a Lesvos ha rappresentato l’emblema di diffuse violazioni dei diritti umani. I roghi e gli attacchi da parte delle bande fasciste presenti sull’isola sono stati sempre più frequenti Come hanno ricordato gli interventi precedenti, andrebbe sottolineata l’estensione geografica dei crimini contro l’umanità su tutti confini europei esternalizzati e reali: morte per ipotermia sui confini balcanici o sulle Alpi, di sete nei deserti subsahariani dal Niger all’Eritrea, o dissanguanti sui recinti di Ceuta e Melilla, o suicidi nei nostri campi di permanenza e sulle isole greche, o ancora respinti sulla rotta balcanica e nelle acque dell’Egeo .

Gli ultimi  documenti dell’Unione Europea in materia di sbarchi nel Mediterraneo centrale, peraltro privi di valore vincolante, come l’Accordo preliminare di Malta dello scorso anno, e da ultimo il Piano europeo sulle migrazioni esitato dalla commissione Europea il 23 settembre scorso, non prevedono iniziative ed obblighi di soccorso in mare, né modifiche sostanziali e vincolanti del Regolamento Dublino. Si allontanano così le prospettive di redistribuzione dei richiedenti asilo e di vera solidarietà, mentre fanno propria nella sostanza la linea di attacco contro le ONG che dovrebbero operare soltanto con requisiti tecnici stabiliti discrezionalmente dalle autorità amministrative nazionali. Una linea che viene ripresa ancora dall’attuale governo italiano con il più recente “Decreto legge immigrazione”, “disperso” per settimane in attesa della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, che contiene solo una parziale modifica del precedente Decreto sicurezza bis imposto da Salvini nel 2019. Ma le responsabilità dell’Unione Europea non sono da meno, trovando una linea di “solidarietà” soltanto nella predisposizione delle misure repressive e delle operazioni di rimpatrio forzato, senza riuscire ad avere più una vera governance nelle altre materie riguardanti l’asilo e l’immigrazione.

2. Vedere per non salvare: il ruolo di Frontex nel Mediterraneo centrale

Non sorprende neppure troppo, a questo punto, il voto del Parlamento europeo che ha respinto una Risoluzione, già abbastanza moderata, presentata dalla Commissione LIBE (Libertà civile) sugli obblighi di soccorso in mare. Il testo di compromesso proposto dalla Commissione LIBE conteneva 18 raccomandazioni agli Stati membri per una maggiore cooperazione nelle attività di ricerca e salvataggio in mare. In particolare il punto 9 del testo richiedeva agli Stati membri di «mantenere i porti aperti alle imbarcazioni delle Ong», mentre il punto 16 chiedeva alla Commissione un impegno a lavorare su un meccanismo di distribuzione dei migranti «equo e sostenibile».

Il voto va inquadrato all’interno della profonda crisi che sta vivendo la nuova Commissione europea prima ancora di insediarsi, dopo che alcuni suoi componenti di spicco sono stati bocciati dall’aula, che ha così evidenziato la debolezza congenita di Ursula Van der Leyen, che non è stata ancora capace di proporre una vera politica alternativa ai partiti sovranisti e populisti in Europa. Il voto negativo sulla mozione proposta dalla Commissione LIBE allontana, comunque lo si interpreti, le prospettive di una modifica del Regolamento Dublino III danneggia l’Italia perché cancella le prospettive di ricollocazione verso altri paesi UE dei naufraghi soccorsi in mare, tracciate dalla Conferenza di Malta dello scorso anno. 

L’ Unione Europea, attraverso il COREPER, quindi a livello di comitato, sta trattando in sede riservata con l’IMO (Organizzazione marittima internazionale con sede a Londra) norme ancora più restrittive sui soccorsi in mare, sulla base del riconoscimento di una zona SAR libica.  Da questa Europa che ha ritirato gli assetti navali che prima operavano soccorsi nel Mediterraneo centrale nell’ambito delle missioni Triton di Frontex e Sophia (Eunavfor Med), non ci si poteva attendere altro. E’ la stessa Europa che al vertice di Parigi del 28 agosto 2017 ha valutato positivamente il Memorandum di intesa tra Italia e governo di Tripoli (che neppure rappresenta l’intera Libia) siglato nel febbraio del 2017 (Conferenza di Malta), è la stessa Europa che chiude ogni possibilità di ingresso legale, sia per i richiedenti asilo che per i cosiddetti “migranti economici”, è la stessa Europa che sta rinforzando la nuova agenzia Frontex, adesso ridenominata Guardia di frontiera e costiera europea, puntando soltanto sull’abbattimento delle garanzie di difesa delle persone dopo l’arrivo (con le procedure accelerate di asilo negli Hotspot) e sull’intensificazione delle operazioni di rimpatrio forzato. . E’ la stessa Europa che assiste senza intervenire alle stragi in mare nel Mediterraneo, che ha creato ai confini dell’area Schengen nuovi campi di concentramento, come a Lesvos in Grecia, che vorrebbe in Africa le piattaforme di sbarco delle persone bloccate in mare e riportate nei paesi di transito, se non in uno stato in preda alla guerra civile, come la Libia. Con queste politiche l’Unione Europea si sta avviando verso il suicidio, a beneficio dei grandi blocchi (Stati Uniti, Russia, Cina) mondiali, che bloccano le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in difesa dei diritti umani, ed utilizzano ogni mezzo per  estendere il loro dominio sugli Stati più piccoli attraverso il sostegno politico ed economico fornito ai ai partiti sovranisti e populisti.

La rimodulazione della missione di Frontex Themis nel Mediterraneo centrale, con il mantenimento dei soli assetti aerei, a partire dal 2018 e la “guerra” mediatica, giudiziaria e amministrativa innescata in Italia contro i soccorsi umanitari operati dalle ONG, scaricavano una crescente pressione migratoria su Malta, e sulle coste più esposte della penisola italiana, su Lampedusa soprattutto, e quindi più recentemente sulle coste meridionali della Sicilia e della Calabria, con un incremento dei cd. sbarchi autonomi. La Commissione europea intanto non perde occasioe per ribadire l’autonomia operativa dell’agenzia Frontex, che pure dota di cospicue risorse econmiche e di organico, quasi a nascondere il maglio che si abatte su persone in fuga, private di ogni possibilità di ingresso legale in Europa.

3. I rapporti tra Malta, il governo di Tripoli, e le autorità italiane.

Gravi dichiarazioni del primo ministro maltese Abela hanno respinto le critiche rivolte al suo governo che ha organizzato operazioni di push-back verso la Libia avvalendosi di imbarcazioni private per intercettare i migranti in acque internazionali, e riportarli direttamente a Tripoli, oppure quando questo risulta impossibile per le denunce delle ONG, per detenerli in navi hotspot al largo de La Valletta, dopo che i porti di Malta sono stati dichiarati non sicuri (unsafe), per la crisi del sistema sanitario derivante dalla pandemia del Covid-19. Secondo quanto dichiarato a The Malta Independent da Abela con riferimento al gommone intercettato dal paschereccio Dar al Salam nella notte tra il 13 ed il 14 aprile 2020, sarebbe “categorically denied that there was any pushback of any migrants. “A rescue was carried out; had it not been for the Maltese government which coordinated that rescue then a lot of lives at sea would have been lost, because the EU passed by with a Frontex plane and kept on going”.  Un’ accusa gravissima che va chiarita nelle sedi opportune, a Malta ed a Bruxelles. E forse anche a Roma. Secondo il primo ministro maltese, “Malta coordinated the rescue and saw that the migrants were taken to a port which was open; so, there was no pushback; in fact we saved a lot of lives”, he added. “Gafa’s only involvement, he repeated, was not to coordinate the operation but to contact Libyan authorities to facilitate the rescue.  “Nothing was paid, nothing was promised”. Una giustificazione che non regge perchè il porto di Tripoli che risultava formalmente “aperto” era stato oggetto di bombardamenti fino a qualche giorno prima, al punto che una nave della missione italiana Nauras, la Gorgona aveva dovuto mollare gli ormeggi nel giorno di Pasquetta, e non poteva certo definitsi come un “porto sicuro di sbarco”, a fronte delle notorie violenze, se non sevizie, inflitte ai naufraghi riportati a terra.

Nelle sue dichiarazioni il premier maltese Abela richiama il ruolo di monitoraggio che Frontex con la missione Themis svolge nel Mediterraneo centrale dal 2018, utilizzando però solo con aerei, dopo che, alla fine della precedente operazione Triton (2015-2018) la maggior parte degli assetti navali offerti dai singoli stati membri erano stati ritirati o dislocati lontano dalle rotte battute dai migranti che ancora riuscivano a partire dalla Tripolitania. Si riteneva infatti che la presenza delle navi europee costituisse un fattore di attrazione (pull factor) e rendesse più facili le attività dei trafficanti.

4.  Il deterioramento della situazione a mare. Il buco nero Mediterraneo

La negazione dei diritti umani dei migranti nelle acque del Mediterraneo centrale, imposta in Italia ed a Malta dai partiti di governo per fare fronte alla ventata populista e sovranista che sta spazzando le democrazie europee, ha moltiplicato in questi ultimi anni i casi di abbadono in mare e di respingimento collettivo Dopo la breve pausa « umanitaria » dell’Operazione Mare Nostrum nel 2014, si sono rinforzati gli accordi tra gli Stati al fine di impedire l’arrivo di migranti e richiedenti asilo in Europa. Ma non si è riusciti in alcun modo a ridurre il numero delle partenze. Ovunque la corruzione costituisce un legame inconfessabile tra organizzazioni criminali e apparati di polizia. E’ stato addirittura possibile che uno dei più noti trafficanti libici, certo Bija di Zawia, riuscisse a fare una missione in Italia nel corso del 2017, per una missione istituzionale che lo ha portato a visitare il Viminale ed il Commando della guardia costiera italiana, quando era già notoria la sua condizione di appartenente alla Guardia costiera libica ed al contempo, ad uno dei più pericolosi gruppi di trafficanti che in Libia si rendono colpevoli di crimini atroci ai danni dei migranti.

L’Italia, Malta e gli stati membri dell’UE stanno sistematicamente ignorando il loro dovere legale e morale di salvare vite umane, scegliendo invece di imporre strumentalmente misure burocratiche e amministrative per fermare le navi umanitarie. Questa decisione di compromettere ulteriormente la già limitata capacità di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale avrà conseguenze devastanti per chi in mare ha bisogno di assistenza e porterà inevitabilmente a un maggior numero di vittime, come si è verificato tutte le volte che si sono ritirati i mezzi navali statali perché potevano soccorrere troppe persone ed incidere sulle politiche di sbarramento delle frontiere,come già comprovato dallo studio di Heller e Pezzani, Death by Rescue, pubblicato nell’ottobre 2015.

Un Rapporto piu recente dell’OIM chiama in causa i governi degli stati che hanno tentato da tempo di chiudere i loro porti, fino ai più recenti provvedimenti giustificati sull’onda dell’emergenza per la pandemia da COVID-19.  Dai rapporti e dai comunicati stampa delle diverse agenzie ONU non emergono invece responsabilità direttamente attribuibili a Frontex nel Mediterraneo Centrale perché l’Agenzia ha da tempo ritirato tutte le sue imbarcazioni (che erano oltre 10 nel 2015), per limitarsi al tracciamento aereo ed alle attività di intelligence, nella lotta contro quella che si definisce come “immigrazione illegale” ( law enforcement). Una attività che facilita le attività di intercettazione dei barconi partiti dalle coste libiche e tunisine, e dunque la riconduzione dei naufraghi verso la Libia, ma non ne accelera i soccorsi, come è dimostrato dai tragici eventi legati alla strage di Pasqua nella notte tra il 13 ed il 14 aprile scorsi, a sud di Lampedusa, oltre che dai ritardi nelle operazioni di soccorso operate nello stesso periodo dalla Alan Kurdi e dalla Aita Mari.

Il comunicato in italiano delle diverse organizzazioni delle Nazioni Unite (UNHCR-OCHA-UNICEF-UNFPA-WFP-OMS-OIM) pubblicato il 14 maggio 2020, rende solo parzialmente la portata della denuncia contenuta in un coevo[f1]  rapporto redatto dall’OIM in lingua inglese, trascurando la situazione di grave abbandono che soffrono i naufraghi nelle acque del Mediterraneo centrale. Una situazione che non è certamente imputabile soltanto alle autorità libiche, ma che chiama in causa direttamente i governi italiano e maltese, e l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne FRONTEX. Viene comunque confermata la mancanza di trasparenza, oltre che di interventi tempestivi, da parte di tutte le autorità statali e dell’agenzia FRONTEX, coinvolte a vario titolo nelle attività di ricerca e salvataggio sulla cd. “rotta libica” (e più recentemente tunisina).

Il 15 aprile 2020, l’UNSMIL ha verificato che 51 migranti e richiedenti asilo, tra cui 8 donne e 3 bambini, sono state oggetto di un respingimento collettivo in Libia su una barca privata maltese dopo essere stati intercettati nella zona SAR maltese. I migranti sono stati inviati al centro di detenzione di Takiq al-Sikka. Durante i sei giorni che hanno tarscorso in mare prima di essere soccorsi, cinque persone erano morte e altre sette sono scomparse e si presume che siano annegate. Nel rapporto dell’ONU si aggiunge che “Siamo anche consapevoli delle affermazioni secondo cui le chiamate di soccorso ai pertinenti centri di coordinamento per il salvataggio marittimo sono rimaste senza risposta o sono state ignorate, il che, se vero, mette seriamente in discussione gli impegni degli Stati interessati a salvare vite umane e rispettare i diritti umani. Nel frattempo, la Guardia costiera libica continua a riportare le navi sulle sue coste e collocare i migranti intercettati in strutture di detenzione arbitrarie dove si trovano ad affrontare condizioni orribili tra cui torture e maltrattamenti, violenza sessuale, mancanza di assistenza sanitaria e altre violazioni dei diritti umani. Queste strutture sovraffollate sono ovviamente ad alto rischio di essere attaccate dal COVID-19”.

Il Rapporto dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite Colville si conclude con la richiesta di una moratoria su tutte le intercettazioni e i respingimenti in Libia. Quindi l’accorato appello :“In conformità con le nostre linee guida recentemente pubblicate su COVID-19 e sui migranti, ribadiamo che gli Stati devono sempre rispettare i loro obblighi ai sensi dei diritti umani riconosciuti dal diritto internazionale e del diritto dei rifugiati”. Secondo Rupert Colville, nonostante il COVID-19, le operazioni SAR (ricerca e salvataggio) dovrebbero essere mantenute e lo sbarco rapido assicurato in un porto sicuro (place of safety), garantendo al contempo la compatibilità con le misure di sanità pubblica. Come si conciliano queste posizioni con il mantenimento di una zona SAR riservata alle autorità di Tripoli, che non controllano per intero neppure il loro territorio nazionale ? Non è ormai assodato che la Libia, nelle sue diverse articolazioni territoriali e politiche, non può garantire alcun luogo di sbarco sicuro (place of safety) ?

Non si comprende a questo punto cosa si attenda, da parte delle Nazioni Unite per sospendere la registrazione della cd. SAR libica effettuata nel giugno del 2018 dall’IMO (Organizzazione internazionale del mare), che pure è un organo delle stesse Nazioni Unite, zona SAR “libica” che da tempo costituisce la base per la collaborazione con la sedicente guardia costiera “libica” sulla quale Malta, Italia ed Unione Europea hanno basato le loro politiche di guerra ai soccorsi umanitari e di esternalizzazione dei respingimenti, delegati alle motovedette donate al governo di Tripoli e coordinate da assetti aerei e navali italiani ed europei. sarebbe anche tempo che qualcuno indaghi sull’utilizzo da parte di Malta di imbarcazioni private camuffate da pescherecci per operazioni di push back verso la Libia.

36Di certo dopo questi rapporti delle Nazioni Unite, che confermano altri rapporti dell’UNHCR già pubblicati nel 2018. Nessuno potrà dire: io non sapevo.

Secondo le agenzie delle Nazioni Unite, la prassi di impedire lo sbarco dei migranti tenendo le navi soccorritrici al largo «si sta aggravando». Particolarmente nel caso di soccorsi operati da navi private.. Quello della Maersk Etienne è il terzo caso in cui, quest’anno, una nave mercantile è rimasta bloccata al largo dopo aver soccorso migranti. A maggio, il viaggio del Marina, che batteva bandiera Antigua Barbuda, era stato ritardato di sei giorni prima di far sbarcare a Porto Empedocle le 80 persone soccorse. A luglio il cargo Talia aveva ritardato di quattro giorni il proprio itinerario per assicurare assistenza a 50 persone, prima che fosse loro consentito di sbarcare a Malta. Nel caso della Open Arms, in cui si è arrivati al punto di spingere i sopravvissuti  a gettarsi in mare davanti alle coste di Lampedusa nel 2019 è stato persino necessario dichiarare lo stato di emergenza. La stessa situazione si è verificata di recente a bordo della Open Arms, quando nel mese di settembre 76+48 si sono gettate a mare nel porto di Palermo e sulla Maersk Etienne, quando tre persone si sono gettate a mare.

Il paradigma di questi ultimi tre anni, imbarcazioni lasciate alle deriva, non soccorse o respinte (e non si tratta di casi isolati) è l’inumano weekend di Pasqua di quest’anno, quando varie imbarcazioni in pericolo sono state lasciate alla deriva nella zona di Ricerca e Soccorso (SAR) maltese, mentre tutti gli Stati  hanno continuato a sorvegliare la situazione con assetti aerei, anche Frontex, senza intervenire per soccorrere una barca in difficoltà con 51 persone a bordo. Diversi profughi fuggiti dalla Libia sono stati lasciati morire di sete e stenti o annegare in diretta e poi il resto dei sopravvissuti sono stati respinti a Tripoli dopo essere rimasti per ore in mezzo ai cadaveri dei loro compagni. Per tutta l’estate abbiamo asisitito ad  uno stillicidio di notizie di corpi ritrovati morti a bordo di gommoni alla deriva.

Con il recente fermo amministrativo imposto dalle autorità marittime italiane alle navi tedesche Sea-Watch 4, e Alan Kurdi, dopo 5 altre navi umanitarie, e la messa a terra del l’aereo di sorveglianza civile Moonbird di SeaWatch, impedendo l’avvistamento e la segnalazione delle barche in difficoltà a altri navi di ONG, si chiude in realtà il soccorso civile che operava per colmare il vuoto lasciato dagli Stati. Il Mediterraneo è diventato sempre più un allarmante « buco nero » per via dell’assenza di testimoni in mare, per la mancanza di comunicazione pubblica sulle operazioni di salvataggio e sulle intercettazioni, qualificate in prevalenza come “soccorsi”, e sui naufragi.

B) Le politiche nazionali di criminalizzazione delle Organizzazioni non governative che si sono snodate prima con decisioni amministrative del ministro dell’interno, rivolte “ad navem”, caso per caso, poi con il decreto sicurezza bis del 2019 e quindi con il rinnovo degli accordi con la sedicente Guardia costiera libica alla quale si sono forniti mezzi, addestramento ed assistenza operativa. Il processo penale come strumento di politica delle migrazioni anche se non si è mai arrivati ad una sentenza di condanna degli operatori umanitari. Il processo penale che quando coinvolge esponenti della politica che hnnoa praticato lo sbarramento delle frontiere diventa strumento di disinformazione e di propaganda. . Ma dai processi penali emergono fatti precisi che possono fondare responsabilità degli Stati e configurare un principio di prova di crimini contro l’umanità.

1. L’accelerazione delle macchina dei respingimenti “delegati”e dei pull-backs

Con la delega dei soccorsi e delle operazioni di pull-backs alla Guardia costiera libica, si assiste a una accelerazione dei respingimenti collettivi, perché di questi si tratta quando si assiste e si coordina la sedicente Guardia costiera libica nelle attività di intercettazione.  Dall’inizio dell’anno a ottobre 2020, secondo OIM, più di 10.000 persone inclusi bambini e donne, sono state forzatamente riportate in Libia, nell’inferno libico (a fronte di 9.925 nel 2019).

La cooperazione tra Italia e Libia è ancora regolata da un Memorandum of Understanding, un trattato bilaterale firmato nel febbraio del 2017, il cui obiettivo dichiarato è quello di “arginare la migrazione illegale” attraverso la fornitura di risorse italiane alle “istituzioni libiche responsabili della lotta contro l’immigrazione clandestina” come la “guardia costiera” (articolo 1). Senza le risorse fornite dall’Italia la Guardia costiera libica non sarebbe in grado o disposta a intercettare le imbarcazioni dei migranti, né a localizzarle nella propria zona SAR. Lo ha scritto in una importante decisione persino il Giudice delle indagini preliminari di Catania.

La sorveglianza navale e aerea in tempo reale nel Mediterraneo centrale è anche fornita direttamente dall’Italia e attraverso i programmi dell’Ue (soprattutto gestiti dall’Agenzia per il controllo delle frontiere esterne – FRONTEX). Il passaggio dai “push-back” (respingimenti) che coinvolgono la stessa marina italiana e che sono stati dichiarati illegali dalla CEDU nella sentenza Hirsi Jamaa – ai “pull-back”, in cui l’Italia esternalizza la stessa attività ai libici, costituisce un semplice tentativo di evitare la responsabilità che potrebbero derivare dalle violazioni delle Convenzioni internazionali o del diritto nazionale, assai rilevanti sul piano del diritto penale.

Alla nota galleria degli orrori raccontati a più riprese dai rifugiati e dai migranti in Libia, si aggiungono oggi sviluppi inquietanti – nell’ultimo rapporto di Amnesty (“Tra la vita e la morte”, settembre 2020) come il trasferimento in strutture di detenzione non ufficiali delle persone intercettate in mare. Nemmeno OIM ha accesso a questi cosiddetti “centri di raccolta” e centri di detenzione informali dove nessun monitoraggio internazionale avviene. OIM in questi centri parla di sparizione forzate e di persone “missing or non accounted for” (fonte: Missing Migrants in Libya). Le politiche di esternalizzazione delle frontiere portano anche alla sparizione di massa. Di fronte a tutto questo, il nuovo Patto Ue su migrazione e asilo e il memorandum d’intesa Italia-Libia esemplificano esattamente tutto ciò che non andrebbe fatto in termini di cooperazione con la Libia. Non si sa quanto l’annunciato proposito del governo di Tripoli, che si dichiara intenzionato a chiudere i centri di detenzione ubicati sulle città costiere, per aprirne altri in zone più interne, corrisponda ad un rinnovato proposito di migliorare le condizioni di vita dei migranti che vi sono intrappolati, e spesso abusati, o non corrisponda invece ad una ennesima faida interna, adesso che, dopo l’annuncio di dimissioni del premier Serraj e l’arresto del noto trafficante Bija di Zawia, uomo che con le sue milizie si era distinto nel sostegno al governo di Tripoli, gli equilibri stano di nuovo cambiando.

La cooperazione dell’Italia con la Libia, basata sull’operazione NAURAS di Mare sicuro, della Marina militare italiana, e quindi il sostegno economico e la fornitura di mezzi alle milizie che sostengono il governo Serraj, ha di certo facilitato le attività di intercettazione in mare e quindi la tortura dei migranti da parte di attori libici. Sia i funzionari del governo italiano che di altri paesi europei hanno riconosciuto pubblicamente che ciò sta accadendo. Numerosi organismi internazionali tra cui l’UNHCR, l’OIM e il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa hanno chiesto di interrompere immediatamente lo sbarco in Libia dei migranti salvati in alto mare. Ma per le autorità italiane, una volta ottenuta dall’IMO il riconoscimento di una zona SAR “libica”. La competenza ad intervenire in acque internazionali, per una fascia di mare molto estesa che si spinge fono alla zona SAR maltese, rimane stabilita in capo alla sedicente Guardia costiera libica.

2. La falsa credenza del cd. “pull factor” e le violazioni  della Costituzione italiana e del diritto internazionale del mare, dal Codice di condotta “Minniti” alla Bozza di accordo di Malta del 2019

Nasceva nel 2014, durante l’operazione di soccorso Mare Nostrum, seguita alle stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, la teoria del cd. “pull factor“, come se le attività di soccorso in acque internazionali a nord della costa libica, preordinate alla ricerca ed al salvataggio di persone in alto mare, costituissero un fattore di attrazione per le partenze dalla Libia e una agevolazione delle attività delle organizzazioni criminali che da tempo controllavano il territorio, in collusione con le milizie, e gestivano l’imbarco dei profughi verso l’Europa. Alla fine di quell’anno l’operazione veniva chiusa, sotto la spinta della propaganda dei partiti di destra, e subito si registrava una impennata nel numero delle vittime, che culminava con la strage del 18 aprile del 2015, oltre 800 morti dopo un capovolgimento di un barcone a ridosso di una imbarcazione commerciale che stava operando i soccorsi, le cui cause non sono state mai chiarite.

Dopo quella strage l’Unione Europea decideva di estendere il mandato operativo delle navi dell’agenzia FRONTEX nel Mediterraneo centrale fino a 135 miglia a sud di Malta e Lampedusa, dunque a circa 24 miglia dalle coste libiche, e per qualche mese (giugno e luglio) il numero delle vittime risultava quasi azzerato. Anche nei confronti delle missioni di Frontex, che allora sbarcavano tutti i naufraghi in Italia, si scatenava la polemica con tesi rilanciate a tempesta sui canali social, secondo cui le attività di soccorso avrebbero incentivato le partenze favorendo trafficanti e scafisti. Ben presto anche Frontex cominciò a ridurre la presenza dei suoi assetti navali nel Mediterraneo centrale, restringendone il campo di azione e spostandole verso est allo scopo di controllare maggiormente le rotte percorse dalle imbarcazioni cariche di migranti provenienti dall’Egitto. Come dimostrano studi scientifici, il numero delle vittime sulla rotta del Mediterraneo centrale tornava a crescere in modo esponenziale, ed è in quel periodo, alla fine del 2015, che si nota una crescente presenza di imbarcazioni di soccorso di Organizzazioni non Governative che svolgono un ruolo di supplenza, operando quei soccorsi che le navi militari degli stati svolgevano in misura progressivamente più ridotta. Mentre nel 2014 le imbarcazioni delle poche ONG allora presenti avevano soccorso appena 1450 persone, nel 2015 i soccorsi operati dalle ONG salivano a 20.063 persone, che diventavano ben 46.796 nel 2016, per cominciare poi a decrescere nel 2017 (soprattutto nella seconda pare dell’anno) con 46.601 persone soccorse a nord delle coste libiche, in acque internazionali.

Intanto era stato concluso il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia, il 2 febbraio 2017, poi ratificato (ma non in sede legislativa) dall’Unione Europea nella Conferenza di Malta del 3 febbraio successivo, ed un ruolo crescente veniva attribuito alla sedicente “Guardia costiera libica” che si avvaleva dell’assistenza e del supporto operativo delle autorità italiane presenti a Tripoli, nel porto militare di Abu Sittah, con la missione NAURAS, parte dell’operazione MARE SICURO.

Come già rilevato nel 2017  dalla sentenza di Palermo del Tribunale Permanente dei Popoli, le ONG diventavano allora oggetto di una campagna di delegittimazione e di criminalizzazione senza precedenti frutto anche, alla fine di luglio del 2017, dell’adozione di un Codice di Condotta che pur richiamando gli obblighi di soccorso dettati dalle Convenzioni internazionali, e senza avere alcun valore legale vincolante, attribuiva vasti poteri di intervento in acque internazionali alle cd. Guardia costiera “libica”, prima ancora che fosse istituita una zona SAR “libica” e prima che fosse costituita una Centrale operativa di coordinamento (MRCC), che di fatto sarebbe stata gestita dalle autorità marittime italiane ( almeno fino al 28 giugno 2018).

Il Codice di condotta Minniti, prevedeva che “conformemente al diritto internazionale pertinente, l’impegno a non entrare nelle acque territoriali libiche, salvo in situazioni di grave e imminente pericolo che richiedano assistenza immediata0, e di non ostacolare l’attività di Search and Rescue (SAR) da parte della Guardia costiera libica: al fine di non ostacolare la possibilità di intervento da parte delle Autorità nazionali competenti nelle proprie acque territoriali, nel rispetto degli obblighi internazionali”. Il Codice di condotta non imponeva quindi alcun obbligo di adempiere agli ordini di autorità libiche in acque internazionali, a maggior ragione se gli eventi SAR sono stati dichiarati e coordinati inizialmente da comandi italiani come l’MRCC [Maritime Rescue Coordination Centre] di Roma, e riconosce la superiore valenza normativa degli obblighi di ricerca e  soccorso, e degli altri doveri, come il principio di non respingimento, o il divieto di respingimenti collettivi, derivanti da Convenzioni internazionali, che nei provvedimenti della Procura di Catania sono totalmente ignorati.

Nessun Codice di condotta può permettere di violare impunemente il divieto assoluto di trattamenti inumani o degradanti affermato dall’art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, o il divieto di respingimenti collettivo, affermato oltre che dalla CEDU, anche dall’art. 18 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea. Una votazione di una istituzione politica, adottata non in sede legislativa, sul Codice di condotta Minniti, come quella richiamata dal GIP di Catania, in ordine al documento conclusivo dell’indagine conoscitiva elaborata dalla Commissione Difesa del Senato nel maggio del 2017, presieduta dal senatore La Torre, non può dotare di valenza normativa un codice di condotta che rimane vincolante come codice di comportamento soltanto le parti che lo hanno sottoscritto, e che neppure prevede le violazioni contestate oggi alla Open Arms, non conferendo particolari poteri alle autorità libiche in acque internazionali.

La bozza dell’accordo europeo sui migranti stipulata nel 2019 a Malta si manteneva sulla  linea di considerare le ONG un fattore di attrazione ( pull factore preludeva alla loro ulteriore criminalizzazione. Sembrava addirittura profilarsi l’adozione di un Codice europeo di condotta per le ONG impegnate nei soccorsi in mare, ma a causa della mancata intesa sul pre-accordo di Malta, a cui aderivano soltanto quattro governi UE, anche questa ipotesi restava nel campo delle dichiarazioni propagandistiche.

I punti principali del pre-accordo di Malta prevedono la esternalizzazione delle frontiere in Libia e le “piattaforme” in quel paese per lo sbarco delle persone soccorse nel Mediterraneo centrale, che non costituisce affatto “un primo passo verso la riforma del Regolamento di Dublino”, ma solo un tentativo di “umanizzazione del disumano” la detenzione amministrativa in territorio libico  In numerose occasioni l’UNHCR, che ha ritirato dalla Libia la maggior parte dei suoi operatori internazionali, ha ribadito che non è nelle condizioni di garantire la sicurezza delle persone internate nei centri  detenzione. Altri passaggi della bozza di Malta, che peraltro non ha avuto il riscontro del Consiglio europeo che si attendeva, ricalcano il codice di condotta per le ONG voluto dal governo Gentiloni nell’estate del 2017: al punto 6 dell’accordo per esempio si allude al pull factor, come se la presenza delle ONG incentivasse le partenze dalla Libia. La stessa accusa infamante lanciata da anni, con le peggiori calunnie, dai sovranisti europei e dalle destre italiane.

Sulla stessa linea del precedente ministro dell’interno Minniti (governo Gentiloni) si mantiene l’ultimo ministro dell’interno Lamprgese che auspica un rafforzamento della collaborazione con la sedicente guardia costiera”libica” e rilancia l’idea di un nuovo codice di condotta per le ONG, come se fosse possibile attraverso questo strumento di autoregolazione rimettere in discussione gli obblighi a carico degli stati tenuti ad un intervento immediato ed a una tempestiva indicazione di un porto sicuro di sbarco dei naufraghi (POS- Place of safety).

Persino l’ex Commissario europeo all’immigrazione Avramopoulos  doveva riconoscere tuttavia che le ONG non andavano criminalizzate e che occorreva una politica con intese di carattere permanente che stabiliscano le modalità di sbarco dei naufraghi soccorsi nel Mediterraneo.. Una dichiarazione che è stata fatta propria anche dalla portavoce della precedente Commissione Europea, senza però portare ad un blocco degli accordi dell’Italia con la sedicente guardia costiera libica. Come un minimo di coerenza e di rispetto dei diritti umani avrebbe imposto.

3. Il primo processo contro la solidarietà in mare. Caso Iuventa: obblighi di soccorso sotto copertura

A tutti gli organi inquirenti, dunque, già nell’estate del 2017, ed anche prima, per le attività di indagine in corso, doveva risultare chiara la situazione dei migranti che fuggivano dalle coste della Tripolitania in quel periodo e l’elevato grado di collusione, se non la piena identificazione, tra la cd. guardia costiera libica ed i trafficanti spesso travestiti da miliziani. In quello stesso periodo le imbarcazioni delle ONG cominciavano a ricevere minacce ed a subire anche fuoco di intimidazione da parte di unità navali di diversa natura, apparentemente appartenenti alla cd. Guardia costiera libica.

Come si evince da un Rapporto di Human Rights Watch del 2017, Il 10 maggio e il 23 maggio di quell’anno, le navi di pattuglia delle forze di guardia costiere libiche in acque internazionali erano intervenute nei soccorsi già in corso da parte di organizzazioni non governative, con comportamenti minacciosi tali da provocare il panico senza fornire giubbotti di salvataggio a persone in cerca di salvataggio da navi non idonee. Il 23 maggio 2017 , gli operatori umanitari assistevano – e filmavano – agenti della guardia costiera libica che sparavano colpi in aria. Venivano quindi raccolte testimonianze corroborate da parte dei sopravvissuti secondo cui gli ufficiali avevano sparato anche colpi in acqua dopo che i migranti erano saltati in mare. In quella data tre navi delle ONG erano coinvolte in una operazione SAR (ricerca e salvataggio) sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana (MRCC) Save the Children’s con la Vos Hestia, l’Aquarius, di Medici senza frontiere; e la Iuventa, di Jugend Rettet. Sotto il coordinamento del Centro ufficiale di coordinamento per il salvataggio marittimo in Italia (IMRCC) di Roma, i soccorritori lavoravano insieme per diverse ore per trasferire i migranti dai gommoni fatiscenti alle loro imbarcazioni. Gia’ nel 2017 dunque, durante le operazioni di soccorso, la Guardia costiera libica circondava i mezzi di soccorso e sparava colpi in mare in prossimità dei gommoni terrorizzando i migranti che si gettavano in acqua. E i trattava di circostanze ben note alla Guardia costiera ed alla Marina italiana che a quel tempo collaboravano stabilmente con le navi delle Organizzazioni non governative.

Le indagini sull’equipaggio della nave IUVENTA appartenente alla organizzazione tedesca Jugend Rettet cominciavano già nel mese di settembre del 2016 e sfociavano l’anno successivo, ad agosto, nel sequestro della nave, che operava al di fuori delle acque territoriali italiane, come mezzo di primo soccorso, che poi trasferiva i naufraghi, su altre navi più grandi, delle ONG o della Guardia costiera, sotto il coordinamento della Centrale operativa (IMRCC) della stessa guardia costiera italiana e della nave che di fatto svolgeva funzioni di SAR Coordinator on Place. Su autorizzazione del comando centrale della guardia costiera e del coordinatore SAR “on place” migliaia di naufraghi soccorsi dalla Iuventa, come da altre navi delle ONG, venivano trasbordati su navi più grandi e sicure che raggiungevano i porti italiani. Questi trasbordi venivano vietati dal codice Minniti, con una evidente finalità di deterrenza dei soccorsi, perché le navi come la Iuventa , soprattutto in condizioni di mare agitato, comunque frequenti anche nella stagione estiva, avevano difficoltà a raggiungere i porti italiani.

Il 2 agosto del 2017 la Iuventa veniva attirata nel porto di Lampedusa con un espediente, la richiesta del trasbordo, e quindi di sbarco a terra di soli due naufraghi, che si potevano sbarcare normalmente con un mezzo veloce della locale Guardia costiera. Appena ormeggiata in porto la nave umanitaria veniva bloccata con pretesti burocratici, ma in realtà il provvedimento di sequestro disposto dalla Procura di Trapani lo stesso 2 agosto 2017, praticamente poche ore prima dell’ingresso della nave in porto, era già pronto per la notifica, effettuata poi lo stesso giorno. Secondo il Messaggero, “La nave Iuventa della ong tedesca Jugend Rettet, che non ha firmato il protocollo, era stata bloccata in nottata al largo di Lampedusa dalla Guardia costiera italiana, che l’ha scortata fino al porto.
Dalla nave erano stati fatti scendere due siriani, accompagnati nel Centro di prima accoglienza dell’isola. I due migranti erano stati trasferiti in precedenza a bordo della nave della ong tedesca proprio da una delle unità militari italiane impegnate nelle operazioni di soccorso ai migranti nel Mediterraneo. Per scortare in porto la Iuventa sono intervenute diverse motovedette della Guardia costiera, con un grande spiegamento di forze dell’ordine anche sulla banchina ».

Il relativo procedimento penale veniva aperto inizialmente contro ignoti, e la IUVENTA era quindi trasferita nel porto di Trapani, dove era perquisita, e restava quindi sotto sequestro preventivo fino ad oggi. Alla base del provvedimento di sequestro, notificato per l’ipotesi di reato di agevolazione di ingresso di clandestini, prevista dall’art. 12 del Testo Unico sull’immigrazione n. 286 del 1998, come modificato dalla legge Bossi-Fini n.189 del 2002, le relazioni di alcuni agenti della società privata di sicurezza IMI Service, imbarcati da tempo come security a bordo della nave VOS HESTIA di Save The Children e le intercettazioni ambientali disposte dalla Procura di Trapani a bordo di entrambe le navi.

Un ruolo centrale nella raccolta del vasto materiale accusatorio poi utilizzato dalla Procura di Trapani era svolto da un agente “sotto copertura” del Servizio centrale operativo (SCO) del ministero dell’interno, che nel settembre del 2016, grazie alla IMI Service, era stato assunto ed imbarcato a Malta sulla VOS Hestia di Save the Children, spacciandosi per un ex pompiere. Secondo quanto affermato dalla Procura di Trapani ” “le indagini, avviate nell’ottobre del 2016 e condotte con l’utilizzo di sofisticate tecniche e tecnologie investigative, hanno consentito di raccogliere elementi indiziari in ordine all’utilizzo della motonave Iuventa per condotte di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. La nave sarebbe stata “stabilmente dedita al soccorso di migranti in prossimità delle coste libiche ed al loro trasbordo su altre navi sempre in acque internazionali, permanendo abitualmente nel mare libico, in prossimità delle acque territoriali del paese africano”.

Nel mese di marzo del 2017 le carte dell’indagine sulla IUVENTA, condotta dall’agente dello SCO e dagli ex poliziotti infiltrati a bordo di alcune navi umanitarie, reclutati come componenti della security della nave Vos Hestia di Save The Childrenvenivano “passate” a Matteo Salvini, che ne faceva uso propagandistico, ben prima di essere utilizzate dalla Procura di Trapani.

Sulla Juventa e su altre navi umanitarie, dunque, si indagava già dal mese di ottobre del 2016, proprio da quando partivano da alcuni esponenti di Frontex e da associazioni della ultradestra europea, come GEFIRApesanti accuse nei confronti delle ONG, ritenute fiancheggiatrici dei trafficanti, per le loro attività di ricerca e soccorso (SAR) in acque internazionali, che avevano consentito di salvare la vita a decine di migliaia di persone, sotto il coordinamento della Centrale operativa della Guardia costiera italiana. Gli organismi europei giocavano a lungo una partita di attacco contro le ONG, al malinteso fine di ridurre il numero degli sbarchi in Europa, già in calo per fattori ben diversi. Si costruiva così l’accusa che le ONG svolgessero il ruolo di taxi del mare, ed il caso della IUVENTA aveva un risalto mediatico enorme che serviva a criminalizzare tutte le Organizzazioni non governative. Come riferiva lo stesso Ministero dell’interno sulla scorta delle prime dichiarazioni rese dai magistrati inquirenti. “Nella maggior parte dei casi – spiegava il procuratore Ambrogio Cartosio – le operazioni servono per trasportare persone scortate dai trafficanti libici». In più occasioni, è stato possibile ricostruire le modalità operative dei soccorsi a migranti che, in almeno in tre casi, non sarebbero stati in pericolo. La motonave prendeva a bordo le persone in mano ai trafficanti nel Mar Libico e poi, non essendo molto capiente, le trasferiva su altre navi della Marina militare o di altre organizzazioni”. La stessa Procura confermava la presenza, nelle occasioni di soccorso contestate alla Iuventa, di mezzi della Guardia costiera libica, che però in quel periodo si guardavano bene dall’intervenire. Erano peraltro note da tempo le indagini internazionali, relative proprio a quel periodo, sui legami tra la cd. Guardia costiera libica e le organizzazioni criminali. Indagini che nel mese di ottobre del 2020 sono sfociate nell’arresto del noto trafficante Bija, di cui si dirà più avanti,

Il Tribunale di Trapaniprima, e poi, nel mese di aprile del 2018 , la Corte di Cassazione, convalidavano il sequestro della nave, mentre l’indagine si andava progressivamente allargando, coinvolgendo, con riferimento ai tre episodi contestati ( su decine di casi di intervento) anche la nave che spesso svolgeva funzioni di SAR Coordinator on place, la Vos Hestia di Save the Children che operava in diretto contatto con la Guardia costiera italiana e con la Centrale operativa di Roma (IMRCC). Successive attività di indagine riguardavano infatti il comandante della Vos Hestia, e veniva pure perquisita, per ragioni mai rese pubbliche e senza esiti apparenti, la casa del supertestimone dell’accusa. I computer che cercavano i magistrati a casa del teste erano comunque scomparsi. Venivano intanto acquisiti altri materiali probatori, dopo una ulteriore ispezione a bordo della nave Vos Hestia di Save The Children, eseguita nel mese di ottobre 2017 nel porto di Catania. Dopo quella perquisizione la Vos Hestia di Save the Children cessava la sua attività umanitaria, anche se era stata la prima a firmare il Codice di condotta imposto dal ministro Minniti, mentre altre ONG lo rifiutavano o ne chiedevano la modifica. Il numero delle persone indagate dalla Procura di Trapani cresceva ancora, nel mese di luglio del 2018, anche se gli avvisi di garanzia riguardavano il sequestro di telefoni e computer . Anche se i magistrati trapanesi precisavano in diverse occasioni l’assenza di un lucro diretto, da parte degli operatori umanitari indagati, e ribadivano che la loro attività era esclusivamente rivolta al salvataggio di vite umane in mare, una campagna di stampa violenta, intrisa di odio, o basata su ricostruzioni chiaramente manipolate,  tendeva a criminalizzare non solo le persone direttamente sotto indagine, ma tutti gli operatori della solidarietà che nel corso del 2016 e nei primi mesi del 2017 avevano contribuito, dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum, ed il ritiro della maggior parte degli assetti aerei e navali di Frontex (operazione Triton), a salvare decine di migliaia di vite sulla rotta del Mediterraneo centrale.

Il 24 aprile 2018 la Corte di Cassazione confermava il sequestro della nave Iuventa. rilevando che non erano state dedotte “specifiche questioni circa l’adeguatezza dell’individuato fumus commissi delicti“, dunque in ordine alla “buona fede” dell’equipaggio della nave, e che dunque si poteva confermare la valutazione del giudice delle indagini preliminari di Trapani, secondo cui la organizzazione Jugend Rettet non aveva predisposto “un organizzazione che garantisse la completa osservanza delle disposizioni impartite dalle Autorità preposte al coordinamento dei soccorsi e l’assoluta impermeabilità degli addetti alle relative operazioni ( dai responsabili apicali fino agli operatori a contatto con i migranti) alle logiche delittuose dei trafficanti, per prevenire ogni possibile emersione del pericolo dell’illecita confluenza dell’attività di tali addetti con le condotte degli organizzatori ed esecutori del traffico, confluenza invece avvenuta, secondo l’impostazione accusatoria, alla stregua delle modalità fattuali descritte nel provvedimento genetico e riprese nell’ordinanza impugnata”. La Corte di Cassazione precisava altresì (punto 5.2 della sentenza) che “E’ fuori questione che, essendo mancata devoluzione del relativo punto, anche per i limiti posti dall’art. 325 cod. proc. pen. al mezzo proposto, non sono state dedotte specifiche questioni circa l’adeguatezza dell’individuato fumus commissi delicti, punto sul quale i giudici della cautela hanno svolto la rispettiva analisi”. Secondo i giudici dunque, Costituirà, quindi, l’oggetto del giudizio di merito, a cognizione piena l’approfondita verifica di tale snodo, delicatissimo e cruciale, che impone di discernere fra l’attività, meritoria e salvifica, messa in essere da chi si muove nell’ambito segnato dall’art. 12, comma 2, d.lgs. n. 286 del 1998 (secondo cui, fermo restando quanto previsto dall’art. 54 del codice penale, non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato), nella cornice fissata 3dall’obbligo di salvataggio in mare scolpito dal diritto consuetudinario internazionale e richiamato da molteplici Convenzioni (fermando l’attenzione alla sole Convenzione di Montego Bay sopra citata per altri aspetti, l’art. 98 prescrive che ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, fra le altre attività, presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo e proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto), e l’attività di chi – consapevolmente concorrendo con i trafficanti di esseri umani – agisce nel senso di agevolarne le condotte illecite e consentire la loro concreta perpetrazione”.

La decisione della Corte di Cassazione, che si limitava a confermare la legittimità del sequestro nei confronti della ONG Jugend Rettet e del proprietario della nave,, senza entrare nel merito di responsabilità individuali, una decisione tutta giocata su questioni procedurali dava comunque la stura ad un ulteriore attacco alle ONG ed a diffusi tentativi di criminalizzazione della solidarietà. Come se dal principio democratico della colpa e della responsabilità penale individuale, si fosse passati al principio della colpa e della responsabilità penale collettiva, con una inversione della presunzione di innocenza affermata dalla Carta costituzionale. Le attività di indagine proseguivano nei confronti di quasi tutti i membri dell’equipaggio della IUVENTA e anche nei confronti di operatori umanitari imbarcati su altre navi, estendendosi anche a componenti di equipaggi delle navi umanitarie di Save The Children e di Medici senza frontiere o operanti a terra, come Don Mussie Zerai, senza concentrarsi, come in altri casi di contestazione del reato di agevolazione dell’ingresso di irregolari, sul comandante della nave e sul capo-missione.

Nel Rapporto della Goldsmiths University sul caso IUVENTA le accuse originarie venivano ridimensionate sulla base di rilievi cartografici, non potendosi ritenere le acque territoriali libiche più estese delle 12 miglia (la Libia non ha mai dichiarato una zona contigua di ulteriori 12 miglia, come l’Italia), e ben prima che gli accordi tra Gentiloni, Minniti e Serraj portassero alla istituzione di, una sia pure fittizia, zona SAR libica. Una zona SAR libica, semmai se ne possa parlare con una Libia divisa tra milizie ancora oggi in conflitto tra loro,  è stata istituita soltanto il 28 giugno del 2018, non certo prima. Veniva anche smentita la tesi che il piccolo gommone della IUVENTA stesse riportando verso le coste libiche il barcone ormai vuoto, che appariva evidentemente molto più grande e pesante del mezzo che avrebbe dovuto rimorchiarlo.

Il rapporto, molto dettagliato, ricco di ricostruzioni cartografiche che smentivano la complicità con i trafficanti e la ricorrenza di una fattispecie di agevolazione dell’ingresso irregolare, veniva pubblicato ed aveva vasta diffusione a livello internazionale, ma non attutiva la ventata di odio che si riversava intanto sulle ONG. Associazioni private che, in assenza di un intervento degli stati o dell’Unione Europea, avevano salvato migliaia di persone da morte certa, o dal destino di una deportazione in Libia, equivalente in molti casi alla morte o alla tortura delle persone intercettate in acque internazionali. Dalle testimonianze raccolte nel rapporto, come da numerose testimonianze successive rese dai migranti provenienti dalla Libia e soccorsi in acque internazionali, si ricavava che la situazione di pericolo, esclusa dalla Procura di Trapani, si poteva configurare non solo in mare, per il rischio comunque di naufragio a causa del sovraccarico di mezzi privi dei più elementari mezzi di salvataggio, ma anche a terra, una volta ricondotti sulla costa da mezzi appartenenti alla sedicente guardia costiera “libica”. Era infatti nota già allora la situazione terribile dei centri di detenzione nei quali sarebbero stati rigettati i naufraghi “soccorsi” dalle motovedette libiche.

Riprese video contenute nel Rapporto della Goldsmith University smentivano i primi fotomontaggi prodotti dagli agenti infiltrati a bordo della Vos Hestia. Che le imbarcazioni sovraccariche fossero poi in stato di pericolo e richiedessero interventi non dilazionabili, trovandosi in alto mare, oppure che non fosse possibile attendere l’arrivo delle motovedette libiche prima di procedere ai soccorsi, veniva ribadito a livello di organismi internazionali, e nel corso di altri procedimenti penali in Italia. Gli stessi procuratori di Trapani negavano inoltre che fosse configurabile una associazione a delinquere tra i trafficanti e singoli appartenenti alle Organizzazioni non governative. Nel 2018 la Procura di Palemo chiedeva l’archiviazione, poi disposta dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Palermo, di una indagine avviata anche sulle attività della nave IUVENTA ulla base di segnalazioni simili a quelle che nel 2017  erano state inviate alla Procura di Trapani, con riferimento a diverse ONG, tra cui la stessa Jugend Rettet.

Il fulcro del processo di Trapani si basa sulla circostanza che l’equipaggio della Juventa avrebbe agevolato l’”immigrazione clandestina”, ubicandosi al limite delle acque territoriali libiche, in qualche caso, secondo l’accusa ( che però non ha fornito prove di tale circostanza) spingendosi all’interno delle acque territoriali (dodici miglia dalla costa) per realizzare quelle che negli atti dei giudici trapanesi vengono definite “consegne concordate”. Tutto l’impianto accusatorio si regge su una ricostruzione dei fatti fornita dagli agenti della security presenti a bordo della Vos Hestia di Save The Children, e dall’agente infiltrato dallo SCO che era salito sulla nave a Malta presentandosi come un vigile del fuoco. L’accusa si basa quindi sulle dichiarazioni di agenti sotto copertura con un corredo di alcune foto e numerose intercettazioni relative a telefonate intercorse prevalentemente tra gli stessi, spesso commenti agli eventi di soccorso ai quali assistevano dalla Vos Hestia di Save the Children. Si è giunti così a evidenziare profili di responsabilità penale sulla base di circostanze anche banali, come l’innalzamento di una bandiera di cortesia, fatto normale in prossimità delle acque territoriali di un paese e in presenza di unità della guardia costiera di quel paese, o segni di saluto, non si comprende bene se rivolti ai trafficanti o dai “trafficanti”, all’indirizzo dell’equipaggio della Iuventa, o piuttosto verso le persone ancora a bordo del gommone in fase di soccorso.

Il processo di Trapani a carico degli operatori umanitari non è ancora giunto neppure alla udienza preliminare che dovrebbe precisare i profili di responsabilità, o permettere di archiviare il caso. I materiali raccolti nel corso del procedimento, e soprattutto nella prima fase delle indagini , al di là dell’accertamento o della esclusione della responsabilità penale personale degli imputati, possono costituire un importante prova dell’elevato livello di collusione tra la sedicente Guardia costiera libica e le autorità italiane ed europee che già allora erano coinvolte nel controllo delle frontiere marittime e nel contrasto di quella che si definisce come « immigrazione illegale ».

Dopo le inchieste che hanno messo in evidenza la visita in Italia di uno dei più noti trafficanti libici, adesso reintegrato nella Guardia costiera di Zawia, si dovrà verificare con quali milizie sono stati stretti gli accordi che hanno portato ad un forte rallentamento delle partenze nei mesi di luglio ed agosto del 2017. A quali costi umani e con quali conseguenze sui processi di riconciliazione in Libia, che appare ancora oggi dilaniata dalla guerra civile, anche se le armi hanno ceduto il passo alle trattative diplomatiche ?

Quando le autorità italiane cedono alle autorità libiche la responsabilità Sar, inizialmente assunta dopo il primo avvistamento dei natanti da soccorrere, come accadeva già nel 2017,anche con riferimento alle persone che, trovandosi a bordo di gommoni in acque internazionali, ricadono già sotto la giurisdizione esclusiva del paese che per primo è stato avvertito dell’evento di soccorso, indipendentemente dallo stato di bandiera dei mezzi civili o militari che vengono coinvolti, si realizzano tutti gli estremi di un trasferimento di giurisdizione che equivale ad una consegna (rendition) di quelle stesse persone alle autorità di un Paese che non garantisce un luogo di sbarco sicuro, che non aderisce alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, nel quale sono note le collusioni tra autorità statali e trafficanti, e che da ultimo si trova, e si trovava già nel 2017, in una fase di conflitto civile e di gravi violazione dei diritti umani anche ai danni della popolazione libica, al punto che a tale riguardo già dal mese di maggio del 2017 sono in corso indagini da parte della Corte Penale internazionale. Ed è lo stesso Giudice delle indagini preliminari di Trapani che, nei due casi contestati agli operatori umanitari, riferisce la collusione tra la guardia costiera “libica” presente nella zona dei soccorsi ed i trafficanti libici.

La conclusione delle indagini sulla Iuventa potrebbe offrire una occasione preziosa per verificare i fatti con la garanzia della sede dibattimentale, nel pieno rispetto del principio del contraddittorio, e quindi restituire credibilità alle operazioni di soccorso operate dalle ONG , facendo chiarezza sugli obblighi di salvataggio e di cooperazione a carico degli stati. Non sulla base di dichiarazioni estemporanee sui social, come fanno da tempo alcuni ministri, ma sulla base di tabulati e tracciati certi. Una chiarezza che occorre per non perdere altre vite umane,  una chiarezza da garantire a partire dalla suddivisione delle zone SAR in acque internazionali e dei ruoli di coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso (SAR) da parte degli Stati, che non possono essere affidate a regole mutevoli, imposte dai decisori politici che usano la minaccia della sanzione penale, ma più recentemente anche i provvedimenti amministrativi, per bloccare le attività di soccorso in acque internazionali operate dai cittadini solidali

4. Dal primo caso della Open Arms all’arresto di Carola Rackete (Sea Watch)

Il GIP di Catania (nel caso della convalida del sequestro della Open Arms nel mese di marzo del 2018), riconosceva che il Codice di condotta Minniti, adottato nel 2017 proprio pochi giorni prima del sequestro della IUVENTA, “non costituisce un compendio di regole, la cui violazione determina automaticamente l’insorgenza di un reato, e della conseguente sanzione penale”. Anche se poi aggiunge, “però la infrazione di questo autoregolamento rivela il rifiuto di operare all’interno di  precisi precetti prefissati dallo Stato italiano, e solo all’interno dei quali l’ingresso nel Territorio Nazionale non viene più ritenuto clandestino ( le violazioni del Codice di Condotta, quindi, comportano la qualificazione di quei comportamenti che determinano l’ingresso di clandestini in Italia come contrarie al dettato della fattispecie criminosa di cui all’art. 12 del T.U. sull’immigrazione)”

Le sentenze della magistratura che a più riprese, a partire dal dissequestro disposto dal Tribunale di Ragusa della nave Open Arms, definivano la Libia come un paese privo di porti sicuri di sbarco, non scalfivano l’orientamento dell’opinione pubblica e le scelte dei decisori politici e degli organi di polizia alle loro dipendenze.

Nel caso della SEA WATCH 3 (2019) il ministro dell’interno ha rifiutato per due giorni lo sbarco a terra anche quando era già confermata la disponibilità di diversi paesi europei che avevano dichiarato di volere accogliere i naufraghi soccorsi della nave  e bloccati sulla nave in condizioni disumane per due settimane. La politica di Salvini in quella occasione era smentita seccamente dall’Unione Europea.  “La soluzione per le persone a bordo della Sea Watch è possibile solo una volta sbarcate”. Così il commissario europeo Dimitris Avramopoulos, diceva spiegando che Bruxelles “è coinvolta da vicino nel coordinarsi con gli Stati membri per ricollocare i migranti” quando saranno a terra. Alla fine era stata anche offerta la disponibilità di cinque paesi europei. 

Il Tribunale di Agrigento, con l’ordinanza del 2 luglio 2019 che ha negato la convalida degli arresti di Carola Rackete, ha riaffermato il principio di legalità, restituendo dignità al diritto internazionale ed ai diritti umani, nel quadro normativo delineato dalla nostra Carta costituzionale. Le motivazioni addotte dal Giudice per le indagini preliminari di Agrigento chiariscono che il soccorso in acque internazionali va distinto dal trasporto di clandestini, al contrario di quanto sostenuto dal ministro dell’interno. L’ordinanza del Gip di Agrigento afferma anche che il cd. decreto sicurezza bis non è applicabile alle ONG che hanno salvato vite umane in alto mare. Il giudice, in sostanza, ritiene inapplicabile il decreto sicurezza bis: “Ritiene questo giudice che nessuna idoneità a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della Sea Watch 3, oltre che delle autorità nazionali, potevano rivestire le direttive ministeriali in materia di ‘porti chiusi’ o il provvedimento del ministro degli Interni di concerto con il ministero della Difesa e delle Infrastrutture che faceva divieto di ingresso, transito e sosta alla nave, nel mare nazionale, trattandosi peraltro solo di divieto sanzionato da sanzione amministrativa”. Il reato di resistenza a pubblico ufficiale deve ritenersi “scriminato per avere agito l’indagata in adempimento di un dovere”. Il dovere di soccorso dei naufraghi” non si esaurisce con la mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione al porto sicuro più vicino”.

Si tratta di una pronuncia importante, che non chiude però la fase di criminalizzazione delle attività umanitarie in favore dei migranti in fuga dalla Libia, perchè nel senso comune degli italiani sembra prevalere il capovolgimento del principio di realtà e la negazione dello stato di diritto. La procura della Repubblica ha poi negato l’autorizzazione richiesta dal prefetto di Agrigento che ha adottato un decreto di espulsione della comandante Carola Rackete, come ordinato dal ministro dell’interno.

5. La posizione della Corte di cassazione sulla convalida dell’arresto di Carola Rackete.

Nel mese di febbraio di quest’anno la Corte di cassazione ha confermato la decisione assunta nel 2019 dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Agrigento, che escludeva la legittimità dell’arresto della comandante della Sea Watch Carola Rackete dopo il suo ingresso nel porto di Lampedusa. In questo caso non è stato accolto il ricorso presentato dalla Procura di Agrigento.

La terza sezione penale della Corte di cassazione, dopo una camera di consiglio svolta il 16 febbraio scorso, ha rigettato il ricorso presentato la scorsa estate dal procuratore capo di Agrigento Luigi Patronaggio e dall’aggiunto Salvatore Vella contro l’ordinanza, firmata il 2 luglio 2019 dal gip Alessandra Vella che decise di non convalidare l’arresto di Rackete, escludendo il reato di resistenza e violenza a nave da guerra, che era stato contestato alla comandante per avere, il 29 giugno dello stesso anno, forzato un tentativo di impedire l’attracco in banchina della nave, già entrata in porto a Lampedusa. La sentenza della Corte, nelle motivazioni che sono state pubblicate oggi, richiama puntualmente tutti gli obblighi di soccorso stabiliti dal diritto internazionale, secondo una ricostruzione gerarchicamente ordinata delle fonti.  Secondo la Corte di Cassazione (Sentenza n. 6620, depositata il 20 febbraio 2020)  Il controllo di ragionevolezza del giudice della convalida deve dunque essere effettuato sulla base di una interpretazione adeguatrice delle norme di rango primario – le norme appunto che disciplinano la convalida dell’arresto in flagranza – a quelle di rango costituzionale che stabiliscono limiti tassativi al potere dell’autorità di polizia giudiziaria di incidere sulla libertà personale degli individuiIl giudice di Agrigento ha correttamente interpretato quelle norme di legge (artt. 385 e 391 cod.proc.pen.) alla luce dei principi di rango costituzionale. Egli ha puntualmente ricostruito la vicenda processuale, ripercorrendo nel corpo del provvedimento la scansione temporale degli eventi, riepilogando gli antefatti dal giorno del salvataggio dei naufraghi fino ai contatti tra la capitana e la polizia giudiziaria nei giorni successivi, allorché la Sea Whatch3 era alla fonda davanti al porto di Lampedusa, nonché ciò che avvenne poco prima dell’ingresso in porto, la notte del 29 giugno 2019. Tale ricostruzione risultava necessaria allo scopo di inquadrare un evento che si caratterizzava per la sua singolarità, oggettivamente al di fuori dei casi normalmente affrontati in sede di convalida di arresto. Alla luce di tutto ciò, il Giudice ha ritenuto non legittimo l’arresto della Rackete in quanto operato in presenza di un divieto stabilito dall’art. 385 cod.proc.pen. Secondo quanto argomentato nel provvedimento impugnato, la misura precautelare era stata adottata al di fuori del perimetro di legalità, in forza della ricorrenza di una causa di giustificazione, individuata nell’adempimento del dovere di soccorso. Tale causa di giustificazione trovava correttamente il proprio fondamento, diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente, proprio in una valutazione complessiva e non parcellizzata di tutti gli elementi fattuali rilevanti per comprendere la situazione palesatasi agli operanti nelle fasi immediatamente precedenti alla condotta di ingresso nel porto, e di quelli ad essi antecedenti, tutti elementi conosciuti da coloro che avevano operato l’arresto.

La Corte di cassazione condivide dunque “la valutazione del Giudice di Agrigento, che ha ritenuto non ci fossero i presupposti per convalidare l’arresto, eseguito in quel descritto contesto fattuale, poiché operante il divieto di cui all’art. 385 cod.proc.pen., è corretta. La verosimile esistenza della causa di giustificazione è stata congruamente argomentata. In questo ambito, il provvedimento ripercorre, necessariamente, le fonti internazionali (Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare, SOLAS- Safety of Life at Sea, Londra, 1974, ratificata dall’Italia con la legge n. 313 del 1980; Convenzione SAR di Amburgo del 1979, resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994; Convenzione UNCLOS delle Nazioni Unite sul diritto del mare, stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994), sia allo scopo di individuare il fondamento giuridico della causa di giustificazione, identificata nell’adempimento del dovere di soccorso in mare, sia al fine di delinearne il contenuto idoneo a scriminare la condotta di resistenza. Proprio le citate fonti pattizie in tema di soccorso in mare e, prima ancora, l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento Io interno, in forza del disposto di cui all’art. 10 comma 1 Cost. – tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima -, sono il parametro normativo che ha guidato il Giudice nella valutazione dell’operato dei militari per escludere la ragionevolezza dell’arresto della Rackete, in una situazione nella quale la citata causa di giustificazione era più che “verosimilmente” esistente. Né si potrebbe ritenere, come argomenta il ricorrente, che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “piace of safety”). Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione Marittima Internazionale. In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile».

Per la Corte di cassazione, « Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) allegate alla Convenzione SAR, dispongono che il Governo responsabile per la regione SAR in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Per l’Italia, il Place of safety è determinato dall’Autorità SAR in coordinamento con il Ministero dell’Interno. Secondo le citate Linee guida, «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12). «Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative». (par. 6.13. Non può quindi essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave. Ad ulteriore conferma di tale interpretazione è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”.

Secondo la Corte di cassazione, “In conclusione, la verifica del giudice della convalida è stata correttamente compiuta e corretta è la sua decisione. Il giudice non soltanto ha ritenuto configurabile, nella situazione descritta nel provvedimento, la causa di giustificazione dell’adempimento del dovere di soccorso, individuandone la portata, ma ha anche valutato che la sussistenza di tale scriminante fosse percepibile da parte degli operanti che avevano proceduto all’arresto, sulla base di una valutazione della singolarità della vicenda e delle concrete circostanze di fatto, come meticolosamente riepilogate. Non è ammessa, infatti, una privazione della libertà personale da parte della polizia giudiziaria quando, avuto riguardo alle circostanze del caso, ricorrano nel concreto cause di giustificazione idonee ad escluderne la rilevanza penale, in termini di ragionevolezza, sulla scorta degli elementi di conoscenza in capo a coloro che hanno operato la misura privativa della libertà personale (Sez. 6, n. 49124 del 01/10/2003, P.M. in proc. Todirica, Rv. 227721 – 01).

A differenza di quanto si era verificato nel caso IUVENTA, la Corte di cassazione affronta il ricorso contro la misura dell’arresto della comandante Carola Rackete entrando nel merito delle questioni, senza limitarsi ai profili procedurali, e nella misura in cui anticipa le possibili motivazioni di una sentenza che potrebbe portare all’assoluzione dell’imputata, pone le premesse per verificare la legittimità del comportamento dello Stato e degli agenti statali che in quel caso, ed in altri simili, impedivano lo sbarco sollecito dei naufraghi soccorsi dopo operazioni di ricerca e salvataggio in acque internazionali. Il sistema gerarchico delineato dalla Corte sulla disciplina

internazionale ed interna delle attività SAR di ricerca e salvataggio costituisce un importante criterio di orientamento per valutare non solo l’assenza di responsabilità penale degli operatori umanitari che hanno concorso a salvare vite umane in mare e si sono viste negate dal ministero dell’interno la indicazione di un porto sicuro di sbarco, ma anche per accertare la responsabilità omissiva degli Stati e dei loro agenti istituzionali, non solo dei ministri competenti dunque, che hanno rifiutato di fornire le indicazioni necessarie per il completamento delle operazioni di salvataggio, con un ingiusto sacrificio della libertà personale dei naufraghi, trattenuti per giorni a bordo delle navi soccorritrici.

6. I procedimenti penali a carico del ministro dell’interno Salvini, le garanzie dello stato di diritto nel caso Gregoretti

6.1 Il caso Diciotti del mese di agosto del 2018 rappresenta la più clamorosa violazione dello stato di diritto perpetrata ai danni del diritto internazionale e della Costituzione italiana, soprattutto per la decisione del Senato che negava l’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro dell’interno, una decisione politica che, a fronte delle motivazioni addotte dal Senato, i magistrati non sottoponevano neppure alla Corte Costituzionale, per verificare la ricorrenza di un conflitto di attribuzioni.  Le responsabilità di un ministro sono state così cancellate da un voto politico che non tiene conto delle reiterate violazioni del diritto internazionale che l’art. 117 della Costituzione richiama come fonte di obblighi rilevanti anche nell’ordinamento interno, proprio secondo quel sistema gerarchico delle fonti bene evidenziato dalla Corte di cassazione con la sentenza pubblicata il 20 febbraio 2020..

 I giudici del Tribunale dei ministri di Catania avevano osservato come ”«la decisione del Ministro non è stata adottata per problemi di ordine pubblico in senso stretto, bensì per la volontà meramente politica […] di affrontare il problema della gestione dei flussi migratori invocando, in base ad un principio di solidarietà, la ripartizione dei migranti a livello europeo tra tutti gli Stati membri. Proprio a questo riguardo, peraltro, la motivazione evidenzia come, nel perseguire tali finalità di ordine politico, la decisione del Ministro abbia finito per travalicare precisi limiti di ordine costituzionale e sovranazionale che dovrebbero invece informare l’agire delle istituzioni. Si richiama, sul punto, la sentenza della Corte Costituzionale n. 105 del 2001, che pur prendendo atto dei molteplici interessi pubblici coinvolti nella gestione dei flussi migratori, ha ribadito il carattere inviolabile dell’art. 13 Cost., spettante ai singoli in quanto essere umani, e dunque a prescindere dalla loro eventuale condizione di migranti irregolari. Ancora, si richiama la sentenza resa nel 2016 dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Khlaifia ed altri c. Italiache ha già condannato il nostro Paese per la violazione dell’art. 5 della Convenzione, in un caso simile a quello in esame, dove i migranti appena sbarcati erano stati arbitrariamente trattenuti (anche) a bordo di navi”.

Non si può che prendere atto, a fronte delle contraddizioni evidenti nel parere della giunta per le autorizzazioni a procedere che a febbraio 2019 negava la autorizzazione, e poi nelle motivazioni adottate di riflesso dal Senato, come dal Tribunale dei ministri di Catania non sia stato sollevato alcun conflitto di attribuzioni davanti alla Corte Costituzionale. E dunque, rischiando la decisione parlamentare “di porsi in una zona franca dell’ordinamento, non suscettibile di alcuna valutazione giurisdizionale neppure in sede di conflitto di attribuzioni.” Che poi è esattamente quello che è successo, e continua a succedere, con le decisioni politiche di “chiusura selettiva dei porti”, come si verificava con i successivi divieti di ingresso nelle acque territoriali imposti dall’ex ministro dell’interno, che ha continuato ad impedire addirittura lo sbarco di naufraghi da navi militari italiane (caso Gregoretti). Anche i fatti accertati nel corso del processo Diciotti, se ormai oggetto di archiviazione in sede penale, possono costituire un segnale concreto di emersione di crimini contro l’umanità commessi ai danni di persone appartenenti al popolo migrante. Crimini che isolatamente considerati troveranno ben difficilmente sanzione nei tribunali penali nazionali, ma che dovranno costituire materia di approfondimento e di ulteriore ricerca di responsabilità in una futura sessione del Tribunale Permanente dei Popoli, quando la società civile ptrà completare la raccolta dei materiali probatori e la individuazioni delle responsabilità personali e politiche.

6.2. Nel caso della nave Gregoretti Il Giudice dell’udienza preliminare di Catania ha deciso un rinvio per svolgere un’ulteriore attività istruttoria, esattamente come richiesto dalla difesa dell’ex ministro dell’interno e dalle parti civili.  Il gup di Catania ha rinviato l’udienza preliminare di Matteo Salvini al 20 novembre, quando sarà sentito il premier Conte e l’ex ministro Toninelli, mentre il ministro degli Esteri Di Maio e la ministra dell’Interno, Lamorgese, saranno sentiti il 4 dicembre. Le dichiarazioni dei sostenitori del leader leghista e dei suoi alleati rafforzano adesso il tentativo di caratterizzare come “politico” il processo nei confronti dell’ex ministro dell’interno, quando si trattava di accertare fatti penalmente rilevanti, sui quali il Tribunale dei ministri di Catania aveva puntualmente individuato responsabilità personali, che nulla hanno a che fare con il giudizio politico sulla vicenda, come i leader del centro destra ed media a loro disposizione tentano di fare credere.

Come avevamo previsto, sulla decisione del Giudice dell’Udienza preliminare di Catania ha sicuramente pesato la prassi seguita anche dall’attuale governo che continua a ritardare l’ingresso nelle acque territoriali alle navi private che hanno soccorso naufraghi in acque internazionali, magari dopo che la Centrale operativa della guardia costiera (IMRCC) ha negato che si tratti di un evento di soccorso ricadente sotto la propria responsabilità. Salvini intanto ha dichiarato: “Sono contento che debba essere ascoltata anche l’attuale ministro dell’Interno Lamorgese e che le si possa chiedere: avete fatto qualcosa di diverso l’anno successivo? Perché in decine di interviste si dice che l’iter è stato lo stesso, anche con una permanenza di 11 giorni, e non 4, in attesa di ricollocamento”.

Sono tuttavia evidenti le condizioni in cui i naufraghi trascorsero i giorni a bordo della nave militare Gregoretti, una nave che a differenza di quelle della Guardia costiera e delle navi private delle ONG non era attrezzata per una prolungata presenza di un numero elevato di naufraghi a bordo. La difesa di Salvini ha insistito molto sulle buone condizioni di “accoglienza” a bordo della nave, ma per la tipologia della stessa nave la maggior parte dei naufraghi era ammassata in spazi all’aperto. E questo lo documentano più di qualunque arringa difensiva le foto e le riprese video.

La qualificazione giuridica dell’intera vicenda presenta caratteri0* originali che non permettono alcuna confusione con le attività di soccorso e con gli sbarchi operati da navi private o appartenenti a Organizzazioni non governative. Può essere nascosto soltanto da commentatori in mala fede il dato oggettivo che la nave Gregoretti era (ed è) una nave militare italiana, e che dunque i naufraghi trattenuti arbitrariamente a bordo si trovavano già in territorio italiano da quando erano saliti sulla nave, a differenza di quanto si è verificato nel caso delle navi delle ONG che battono bandiera straniera, e che vengono bloccate dopo avere effettuato soccorsi in acque internazionali. Tanto che tale differenziazione viene ripresa anche dal Decreto interministeriale del 7 aprile scorso, che pur presentando numerosi aspetti di illegittimità, non risulta applicabile al naviglio, privato o militare, battente bandiera italiana. Vedremo, nel successivo processo Open Arms a Palermo, come lo stesso Salvini abbia violato il diritto internazionale ed il diritto interno ordinando arbitrariamente il blocco dei naufraghi a bordo della nave Open Arms, di una nave appartenente dunque ad una organizzazione non governativa. Procedimenti che hanno origine e natura diversa che non consentono alcuna generica assimilazione.

Occorre ricordare dunque la cornice normativa nella quale si inquadra la vicenda del blocco dello sbarco dalla nave Gregoretti, una vicenda che non presenta analogie neppure con il blocco della nave Diciotti. Il governo giallo-verde che è rimasto in carica fino al mese di agosto del 2019 ha operato con modalità confuse e spesso al di fuori della legalità costituzionale.  Prima Salvini ha preteso i “pieni poteri” per decidere sulla chiusura dei porti e poi ha cercato di scaricare sugli altri ministri responsabilità che erano esclusivamente sue… proprio in base al decreto sicurezza bis da lui imposto. Che peraltro stabiliva il rispetto degli obblighi internazionali di soccorso che, con diverse modalità, sono stati violati tanto nel caso Gregoretti che nel caso Open Arms.

Secondo il decreto legge n.53 del 14 giugno 2019, contenente “Disposizioni urgenti per il potenziamento dell’efficacia dell’azione amministrativa a supporto delle politiche di sicurezza”, conosciuto come decreto Sicurezza bis, approvato definitivamente dal Senato il 5 agosto del 2019.“Il Ministro dell’interno, Autorità nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell’articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121, nell’esercizio delle funzioni di coordinamento di cui al comma 1-bis e nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia, può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’articolo 19, comma 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689. Il provvedimento è adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri.».

Si può quindi ritenere quanto affermato dal Tribunale dei ministri di Catania, che mira ad un accertamento delle responsabilità personali e non ad un processo politico : “La decisione del ministro ha costituito esplicita violazione delle convenzioni internazionali in ordine alla modalità di accoglienza dei migranti soccorsi in mare e, al contempo, non sussistevano profili di ordine pubblico di interesse preminente e tali che giustificassero la protratta permanenza dei migranti a bordo della Gregoretti”. Per lo stesso tribunale, “per il reato di sequestro di persona “è sufficiente il dolo generico, consistente nella consapevolezza di infliggere alla vittima la illegittima restrizione della sua libertà fisica, intesa come libertà di locomozione”. Si trattava dunque di “una costrizione a bordo non voluta e subita, sì da potersi qualificare come apprezzabile e dunque penalmente rilevante l’arco temporale di privazione della libertà personale sofferto”. Non si può certo comparare la limitazione della libertà personale a tempo indeterminato inflitta su una nave militare con un equipaggio limitato, non certo addestrato a fare fronte ai molteplici bisogni dei naufraghi, con quanto previsto dal governo in carica in ordine al trattenimento dei naufraghi sulle navi destinate alla quarantena, censurabile sotto l’aspetto umanitario ma giuridicamente conforme alla legislazione vigente, dopo che il governo ed il Parlamento hanno stabilito lo stato di emergenza per frenare i contagi da COVID-19. Le differenti relazioni dell’Autorità garante per le libertà personale sul caso Gregoretti e sui casi delle navi traghetto per a quarantena, a bordo delle quali opera adesso la Croce Rossa, non potranno certo essere ignorate dai magistrati.

Risulta peraltro agli atti del Tribunale dei ministri che già il 27 luglio 2019 la Centrale di coordinamento della Guardia costiera italiana (IMRCC) aveva richiesto al ministero dell’interno la indicazione di un POS (Porto sicuro di sbarco) richiesta che veniva respinta fino al 30 luglio 2019, per oltre tre giorni dunque. E quindi la decisione sullo sbarco o sul trattenimento delle persone che si trovavano a bordo della Gregoretti in quei giorni di luglio del 2019, mentre si svolgevano trattative con altri governi europei sulla destinazione dei naufraghi, era direttamente ed esclusivamente riferibile all’ex ministro dell’interno. Ed era una decisione che incideva direttamente sul rispetto del principio sancito dall’art. 13 della Costituzione in base al quale nessuna persona può essere privata della libertà personale per u tempo superiore alle 48 ore senza la convalida dell’autorità giudiziaria ( principio dell‘habeas corpus). Già la Presidenza del Consiglio dei ministri aveva fornito ai giudici precise informazioni sull’esistenza di ordini del giorno relativi al caso «Gregoretti» trattati nelle riunioni del Consiglio dei ministri eventualmente tenutesi tra il 25 ed il 31 luglio 2019, riferendo che, nell’unica riunione tenutasi in data 31 luglio 2019, la questione relativa alla vicenda non figurava all’ordine del giorno e non fu oggetto di trattazione nell’ambito delle questioni «varie ed eventuali» nel citato Consiglio dei ministri, né in altri successivi. Il tentativo della difesa di Salvini, che chiama in causa altri membri del governo, e persino membri del governo successivo, se costituisce un rinvio dilatorio rispetto alla decisione del giudice dell’udienza preliminare, potrebbe tuttavia offrire maggiore spazio per le attività di indagine e di denuncia comunque consentite alle poche parti civili che si sono costituite, che vanno sostenute da un largo consenso popolare, ma soprattutto potrebbe tradursi in un boomerang per l’ex ministro dell’interno quando gli altri ministri chiamati in causa ribadiranno la natura personale ed individuale delle scelte adottate sul caso Gregoretti dal titolare del Viminale.

Quale che sia la valenza che si vorrà attribuire al diritto internazionale del mare ed alle trattative intercorse con altri stati europei per la redistribuzione dei naufraghi ( rectius dei “richiedenti asilo”), nessun giudice potrà ignorare l’esistenza di un preciso obbligo in capo al ministro dell’interno che deve indicare tempestivamente alle autorità marittime le modalità dello sbarco dopo una operazione di salvataggio, conclusa addirittura a bordo di una unità militare battente bandiera italiana. La libertà personale è garantita dall’art. 13 della Costituzione e non può essere limitata al di fuori dei tempi e delle modalità previste dalla legge. La privazione della liberà personale di cittadini stranieri a bordo di una nave militare italiana non può diventare arma di ricatto su una trattativa internazionale, come è stato fatto nel caso Gregoretti, anche dopo che alcuni Stati europei avevano dato la loro disponibilità ad accogliere una parte dei naufraghi trattenuti a bordo della nave italiana.

La nave di soccorso può essere ritenuta un POS (Place of  safety)  temporaneo  solo al fine del completamento delle operazioni di soccorso, ma le Convenzioni internazionali non autorizzano che possa diventare un luogo di trattenimento a tempo indeterminato dei naufraghi in attesa che le trattative tra gli Stati sul loro trasferimento, cosa ben diversa dal coordinamento ai fini del soccorso in mare, abbiano termine.

Il principio di sovranità nazionale può essere certo salvaguardato dopo lo sbarco a terra ed il completamento dell’operazione di salvataggio in mare, nel rispetto delle leggi italiane e della normativa europea (come la Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE e le Decisioni del Consiglio Europeo) che prevedono l’identificazione dei naufraghi con l’approccio  hotspot   (disciplinato in Italia dall’art. 10 ter T.U. 286/98 che riguarda precisamente “Disposizioni per l’identificazione dei cittadini stranieri rintracciati in posizione di irregolarità sul territorio nazionale o soccorsi nel corso di operazioni di salvataggio in mare) le procedure per l’accesso alla protezione, il trattenimento amministrativo, il respingimento o l’espulsione degli stranieri irregolari. Le attività di identificazione e dunque le procedure di trasferimento in altri paesi europei si possono avviare soltanto dopo lo sbarco dei naufraghi a terra. E questo la difesa di Salvini lo dovrebbe ammettere senza cercare di imbrogliare le carte con la “traduzione” dall’inglese di singoli termini isolati dal complessivo contesto normativo delle Convenzioni. La privazione arbitraria della libertà personale dei naufraghi soccorsi da nave Gregoretti lo scorso anno si può ricavare già in base alla legislazione italiana vigente a quel tempo, e tanto dovrebbero fare i giudici. Una decisione su questo caso stabilirà il livello effettivo di rispetto in Italia dello “Stato di diritto”, da alcuni ritenuto ormai come un’ostacolo all’attuazione delle politiche di contrasto dell’immigrazione.

7.  Il principio di legalità alla prova del decreto sicurezza bis: il caso Open Arms.

La vicenda della Open Arms appare assai diversa rispetto a ai casi Diciotti e Gregoretti, già esaminati dal Senato con esiti opposti, perché si trattava di una nave appartenente ad una ONG e il divieto di sbarco imposto dall’ex ministro dell’interno non era stato condiviso dalle altre autorità di governo, pure richiamate dal decreto sicurezza n. 53/2019. Provvedimento che veniva convertito in legge proprio negli stessi giorni nei quali la nave spagnola soccorreva i naufraghi in zona SAR “libica”, dopo il consueto diniego delle autorità maltesi che, per i naufraghi soccorsi nella zona SAR libica, si rifiutavano di indicare. un luogo di sbarco sicuro. La Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, su richiesta del Tribunale dei ministri di Palermo, si  così è pronunciata anche sul caso Open Arms, la nave della omonima ONG spagnola che tra il 14 ed il 20 agosto dello scorso anno era stata bloccata all’ancora davanti al porto dell’isola di Lampedusa, prima che intervenisse il sequestro da parte della Procura di Agrigento. . Il capo di imputazione formulato a carico del senatore Salvini è ancora una volta per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio per aver trattenuto indebitamente a bordo della Open Arms ormeggiata  a poche centinaia di metri da Lampedusa le 164 persone soccorse nello stesso mese di agosto del 2019 in tre distinti eventi SAR.

Le difese articolate dal senatore Salvini davanti alla giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato ricalcano gli slogan lanciati dal momento del suo insediamento al Viminale e non corrispondono né alla dinamica dei fatti accertati dai giudici, né alle contestazioni tecnico-giuridiche puntualmente formulate dal Tribunale dei ministri di Palermo. L’ex ministro dell’interno afferma infatti che “l’indicazione del Pos (Place of Safety, approdo sicuro) spettava alla Spagna o a Malta (e non certo all’Italia) e il comandante della nave ha deliberatamente rifiutato il Pos indicato successivamente da Madrid, perdendo tempo prezioso al solo scopo di far sbarcare gli immigrati in Sicilia come già aveva fatto nel marzo 2018 ricavandone un processo per violenza privata e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” . Una ricostruzione dei fatti che non va oltre la mera propaganda. Come il tema della competenza dello stato di bandiera, uno dei cavalli di battaglia del ministro, e della sua alleata Giorgia Meloni, in ogni ipotesi di soccorso operato dalle ONG, prima e dopo l’adozione del decreto sicurezza bis. Per Salvini, “l’Italia non aveva alcuna competenza e alcun obbligo con riferimento a tutti i salvataggi effettuati dalla nave spagnola Open Arms in quanto avvenuti del tutto al di fuori di aree di sua pertinenza”, infatti spiega l’ex ministro dell’interno, “è  sicuramente lo Stato di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio che deve indicare il Pos nei casi di operazioni effettuate in autonomia da navi ong”. Una tesi che è stata ripresa di recente anche dal nuovo ministro dell’interno Lamorgese.

La difesa del senatore Salvini si concentra quasi esclusivamente alla competenza (asseritamente) primaria dello stato di bandiera della nave, ma non fornisce alcuna base legale per il reiterato rifiuto di indicare un porto di sbarco sicuro e per la conseguente prolungata privazione della libertà personale dei naufraghi che si trovavano a bordo della Open Arms, bloccata all’ormeggio davanti al porto di Lampedusa, nei giorni dal 14 al 20 agosto 2019, per i quali i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo hanno ipotizzato i reati di sequestro di persona e di rifiuto ingiustificato di atti di ufficio. Converrà partire dunque da una ricostruzione più attendibile, perché basata su documenti e testimonianze raccolti dai giudici, dei giorni che seguirono i soccorsi operati dalla Open Arms in acque internazionali all’inizio di agosto dello scorso anno.

Già il primo agosto 2019, giorno nel quale veniva effettuato il primo soccorso di decine di naufraghi nella cosiddetta zona SAR (Ricerca e salvataggio) “ libica”, il Ministro dell’Interno pro-tempore, di concerto con i Ministri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, disponeva nei confronti della Open Arms il “divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale nazionale”, con decreto emesso ai sensi dell’art. 11 comma 1-ter D. lgs. N. 286/98, come modificato dal D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019. (decreto sicurezza bis Successivamente la Open Arms operava altri due interventi di soccorso, uno in acque internazionali rientranti nella cd. zona SAR “libica”, l’altro nella zona SAR maltese salvando la vita di decine di persone tra cui donne in stato di gravidanza e minori non accompagnati. Tutte le competenti autorità venivano informate dei soccorsi. I libici non rispondevano, le autorità spagnole invitavano il comandante a rivolgersi alla centrale operativa della Guardia costiera maltese (MRCC Malta) che però rifiutava di assumere la responsabilità dei primi due eventi occorsi al di fuori della zona SAR di propria competenza, salvo ad offrire tardivamente la propria disponibilità per i naufraghi soccorsi nel terzo intervento, quando la Open Arms si trovava vicino l’’isola di Lampedusa, in condizioni meteo tanto critiche che anche la guardia costiera italiana, ne escludeva la possibilità di allontanamento verso Malta.

Venerdì 9 agosto 2019 veniva presentato dal team legale di Open Arms, presso le Procure di Roma e di Agrigento, un esposto-denuncia in cui si chiedeva “di verificare se nella situazione corrente, in cui era determinata una prolungata presenza a bordo delle 121 persone salvate – 32 minori, 28 dei quali hanno dichiarato di essere non accompagnati” -, non si presenti una fattispecie di reato. E, nel caso, di individuarne i responsabili e di “adottare gli opportuni provvedimenti” affinché cessi la situazione di privazione della libertà in cui quelle stesse persone si trovano.

In una nota del Tribunale dei minori di Palermo del 9 agosto 2019 questo Tribunale faceva sapere “che “come è ben noto le Convenzioni Internazionali a cui l’Italia aderisce e soprattutto l’art. 19 co. 1 Bis D Lvo 286/98 come integrato dall’articolo 3 della legge 47/17, impongono il divieto di respingimento alla frontiera o di espulsione dei minori stranieri non accompagnati, riconoscendo loro, invece il diritto ad essere accolti in strutture idonee, nonché di aver nominato un tutore e di ottenere il permesso di soggiorno.”. Lo stesso Tribunale proseguiva affermando che “Evidentemente tutti questi diritti vengono elusi a causa della permanenza dei suddetti a bordo della nave Open Arms, nella condizione di disagio fisico e psichico descritta dal medico di bordo che ha riferito della presenza di minori con ustioni, difficoltà di deambulazione, con traumi psichici gravissimi in conseguenza alle terribili violenze subite presso i campi di detenzione libici.”

Durante il  periodo, nel corso del quale stazionava in acque internazionali a sud-ovest di Lampedusa in attesa di assegnazione di un POS, ed anche successivamente, in diverse occasioni la Open Arms richiedeva (congiuntamente a RCC Malta ed a I.M.R.C.C.) di effettuare delle evacuazioni mediche di migranti in precarie condizioni di salute(MEDEVAC), che alla fine venivano eseguite. Dopo l’ennesimo rifiuto delle autorità maltesi che impedivano persino l’avvicinamento della Open Arms all’isola di Malta per cercare ridosso a fronte di un progressivo peggioramento delle condizioni meteo, il 14 agosto il comandante della nave  faceva rotta verso l’isola di Lampedusa. Nello stesso giorno, il 14 agosto, il Presidente del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (terza sezione) sospendeva  l’efficacia del divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale nazionale, “al fine di consentire l’ingresso della Nave Open Arms in acque territoriali italiane (e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli)”. Si deve richiamare l’importanza della decisione del Tribunale amministrativo del Lazio che sospendeva gli effetti del divieto di ingresso nelle acque territoriali adottato nei confronti della Open Arms il primo agosto 2019. “Alla luce della documentazione prodotta (medical report e relazione psicologica” e “della prospettata situazione di eccezionale gravità ed urgenza” il TAR del Lazio, con un decreto cautelare monocratico ha giustificato “la concessione della richiesta” per “consentire l’ingresso della nave Open Arms in acque territoriali italiane e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli”. Osservava il TAR Lazio, “considerato, quanto al fumus, che il ricorso in esame non appare del tutto sfornito di fondamento giuridico in relazione al dedotto vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso, nella misura in cui la stessa amministrazione intimata riconosce, nelle premesse del provvedimento impugnato, che il natante soccorso da Open Arms in area SAR libica – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in “distress”, cioè in situazione di evidente difficoltà (per cui appare, altresì, contraddittoria la conseguente valutazione effettuata nel medesimo provvedimento, dell’esistenza, nella specie, della peculiare ipotesi di “passaggio non inoffensivo” di cui all’art. 19, comma 1 [recte, comma 2], lett. g), della legge n. 689/1994)”

Il TAR Lazio riteneva pertanto,” quanto al periculum in mora, che sicuramente sussiste, alla luce della documentazione prodotta (medical report, relazione psicologica, dichiarazione capo missione), la prospettata situazione di eccezionale gravità ed urgenza, tale da giustificare la concessione – nelle more della trattazione dell’istanza cautelare nei modi ordinari – della richiesta tutela cautelare monocratica, al fine di consentire l’ingresso della nave Open Arms in acque territoriali italiane (e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli, come del resto sembra sia già avvenuto per i casi più critici”.

Dopo la decisione del giudice amministrativo, l’ex ministro dell’interno, il 14 agosto 2019,  reiterava il divieto di ingresso nelle acque territoriali, che però non veniva sottoscritto come atto di concerto da parte di altri ministri, annunciando ricorso urgente al Consiglio di Stato (del quale non si hanno altre notizie) sostenendo che “Open Arms si è trattenuta in acque Sar libiche e maltesi, ha anticipato altre operazioni di soccorso e ha fatto sistematica raccolta di persone con l’obiettivo politico di portarle in Italia”. Come ricorda il Tribunale dei ministri di Palermo, invece,” Open Arms aveva inviato (alle autorità maltesi, n.d.a.) in data 13.8.2019 una richiesta urgente di indicazione di un riparo dal mal tempo, alla luce delle avverse condizioni meteo previste per le ore successive, che avrebbero esposto le persone a bordo, tutte ricoverate sul ponte della nave, a seri pericoli (si pensi che a bordo vi era anche un bambino di soli 9 mesi); RCC (Centrale di coordinamento dei soccorsi) di Malta, con messaggio delle ore 21,17, rispose a tale richiesta con un ennesimo rifiuto, limitandosi ad indicare la sussistenza di “migliori opzioni disponibili e più vicine”, ossia Lampedusa e la Tunisia”. Il nuovo decreto adottato dall’ex ministro dell’interno il 14 agosto, dopo la pronuncia di sospensiva da parte del TAR Lazio sul precedente decreto che vietava l’ingresso nelle acque territoriali, non otteneva il “concerto” del ministro della difesa e del ministro delle infrastrutture e restava dunque un atto sotto l’esclusiva responsabilità del titolare del Viminale.

Come riferiva l’ANSA il 15 agosto, il ministro della difesa Trenta affermava: “Non firmo il nuovo divieto di Salvini in nome dell’umanità”. “Non si può infatti ritenere che siano rinvenibili nuove cogenti motivazioni di carattere generale ovvero di ordine e sicurezza pubblica tali da superare gli elementi di diritto e di fatto nonché le ragioni di necessità e urgenza posti alla base della misura cautelare disposta dall’autorità giudiziaria che anzi si sono verosimilmente aggravati. La mancata adesione alla decisione del giudice amministrativo – continua Elisabetta Trenta – potrebbe finanche configurare la violazione di norme penali”. E ancora: “Ho preso questa decisione motivata da solide ragioni legali ascoltando la mia coscienza. Non dobbiamo mai dimenticare che dietro le polemiche di questi giorni ci sono bambini e ragazzi che hanno sofferto violenze e abusi di ogni tipo. La politica non può mai perdere l’umanità” . Senza la firma di “concerto” degli altri due ministri competenti, Elisabetta Trenta Danilo Toninelli, che la rifiutavano, il secondo divieto di ingresso nelle acque territoriali adottato da Salvini ai sensi del decreto sicurezza bis non aveva alcuna validità. Il ministro dei Trasporti Toninelli motivava così la sua decisione di non firmare il nuovo divieto: “Emettere un nuovo decreto identico per farselo bocciare di nuovo dal Tar dopo 5 minuti – spiega – esporrebbe la parte seria del governo, che non è quella che ha tradito il contratto, al ridicolo. Questo non significa che dobbiamo accogliere tutti i migranti di Open Arms. La nostra linea non cambia: mettiamo in sicurezza la nave come ci chiedono i giudici, poi l’Europa e in primis la Spagna inizino ad assumersi le proprie responsabilità facendosi carico di accogliere 116 migranti. Noi come Italia interveniamo per tutelare la salute dei 31 minori a bordo”.

La circostanza che diverse persone soccorse dalla Open Arms, come in altri casi  precedenti, fossero state evacuate con procedura d’urgenza MEDEVAC , (cinque evacuazioni MEDEVAC in due settimane per oltre venti persone, verso Lampedusa e La Valletta) non esclude, ma anzi costituisce conferma delle condizioni degradanti nelle quali  per effetto del divieto di ingresso e dunque dello sbarco in un porto sicuro, sono state tenute per giorni naufraghi soccorsi in mare dopo essere riusciti a fuggire dalla Libia, dunque in condizioni fisiche e psicologiche già particolarmente difficili. Non si può ammettere che le persone  soccorse in mare, e tra queste minori e donne già vittime di abusi e in stato di gravidanza, siano tenute per settimane in queste condizioni perché gli stati non concordano sui criteri di indicazione dei porti sicuri di sbarco o sulle competenze nelle zone SAR ( di ricerca e salvataggio) che loro competono.

Nella notte tra il 14 ed il 15 agosto la nave Open Arms, con la scorta di due mezzi della Marina italiana, faceva ingresso nelle acque territoriali ormeggiandosi di fronte al porto di Lampedusa, come convenuto con le autorità marittime locali. Dopo una successiva richiesta pervenuta da Open Arms , ormai a ridosso di Lampedusa, che sollecitava la indicazione di un porto di sbarco sicuro, il 15 agosto lo stesso ministro dell’interno sottoscriveva una nota di risposta ad una precedente missiva del 14.8.2019 del Presidente del Consiglio  Conte, con cui lo si era invitato “ad adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori presenti sull’imbarcazione”. Salvini escludeva che i migranti a bordo della nave fossero sotto la giurisdizione italiana , sostenendo invece che dovevano ritenersi soggetti alla giurisdizione dello stato di bandiera, affermando anche di avere dato mandato di impugnare il decreto di sospensiva del Tar Lazio, impugnativa di cui però non risulta alcuna traccia.  Nello stesso giorno, in risposta al Presidente del Tribunale per i Minori di Palermo e al Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale, con riferimento ai minori non accompagnati trasportati a bordo della Open Arms: ribadiva la giurisdizione spagnola in materia, e reiterava il suo rifiuto di compiere gli atti di ufficio richiesti per la indicazione di un porto di sbarco sicuro.

Il 16 agosto il Presidente del Consiglio rispondeva ad una ennesima nota del ministro dell’interno, sollecitando lo sbarco immediato dei minori presenti a bordo della Open Arms, che ormai si trovava in acque territoriali italiane e prospettando la possibilità di configurare l’eventuale rifiuto come un’ipotesi di illegittimo respingimento, comunicando anche la disponibilità già offerta da altri paesi europei di accogliere parte dei migranti della Open Arms, indipendentemente dalla loro età”. Solo a quel punto l’ex ministro dell’interno autorizzava lo sbarco dei minori non accompagnati che soltanto il 18 agosto su decisione della Prefettura di Agrigento e dietro comunicazione dell’Ufficio di Gabinetto del Ministro dell’Interno, venivano fatti sbarcare a Lampedusa. Nella stessa giornata cinque naufraghi si gettavano in mare nel tentativo di raggiungere a nuoto la costa di Lampedusa, ed erano stati recuperati da membri dell’equipaggio della stessa Open Arms. Una successiva ispezione a bordo del Procuratore della Repubblica di Agrigento accertava “condizioni emozionali estreme in un clima di altissima espressione” ove “il vissuto di morte collegato a un eventuale rimpatrio e la percezione di vita affrontando a nuoto lo specchio di mare” che li separava dall’Isola di Lampedusa “comportavano una marginalizzazione del rischio individuale e collettivo che si inseriva in un contesto di scarso controllo critico – cognitivo, con conseguente pericolo di agiti comportamentali inappropriati (mettere a repentaglio l’incolumità fisica e la vita  medesima) senza possibilità, da parte di terzi, di contenere dette condotte né di arginare  un ulteriore sviluppo di gravi situazioni psicopatologiche”.

Secondo i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo, la condotta riferibile personalmente al ministro Salvini consistente nella mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro (POS) alla Open Arms, nel periodo intercorrente tra il 14 ed il 20 agosto 2019 sarebbe risultata “ illegittima per la violazione delle convenzioni internazionali e dei principi che regolano il soccorso in mare, e, più in generale, la tutela della vita umana, universalmente riconosciuti come ius cogens”. Gli stessi giudici rilevano invece come, “durante il primo segmento della vicenda, protrattosi sino al 14.8.2019, si delineasse già un obbligo esclusivo per lo Stato italiano di indicare un POS, quanto meno in relazione al concomitante obbligo gravante, in virtù delle medesime norme, sulle autorità maltesi. In effetti, in capo a queste si profilava anche il più stringente criterio di collegamento della titolarità della zona in cui era avvenuto almeno il secondo soccorso, circostanza questa strenuamente contestata da Malta e, specularmente, sostenuta dal comandante della Open Arms; alla luce di questo criterio, le richieste di sbarco e di ridosso immediatamente successive vennero, infatti, indirizzate dal comandante della Open Arms esclusivamente a Malta”. A seguito dei reiterati rifiuti frapposti dalle autorità maltesi, che si dichiaravano tardivamente disponibili soltanto ad accettare lo sbarco dei 39 naufraghi soccorsi dalla Open Arms in zona SAR di competenza maltese nel terzo evento di salvataggio, secondo i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo, “si ritiene che l’obbligo di indicare un POS, a partire dal 14.8.2019, si sia venuto definitivamente a concentrare in capo alle autorità italiane”.

Nel caso Open Arms non sarà facile per  l’ex ministro dell’interno chiamare in causa altri ministri o lo stesso Presidente del consiglio. Come si è visto, infatti, il  premier Conte, infatti, aveva scritto a Salvini per sollecitare lo sbarco immediato dei minori. Il giorno di Ferragosto Salvini aveva risposto che la responsabilità non era  dell’Italia ma dello Stato di bandiera, la Spagna, “anche con riferimento alla tutela dei loro diritti umani”, arrivando a negare che a bordo della nave si trovassero minori non accompagnati.  Per il Viminale, infatti, non vi erano evidenze per escludere che gli stessi viaggiassero accompagnati da adulti che ne avevano la responsabilità, comunque ricadente sul comandante della nave.  Lo stesso Salvini, inoltre, aveva già dato mandato all’Avvocatura generale dello Stato “per impugnare il decreto di sospensiva del Presidente del Tar del Lazio, che di fatto aveva rimosso ogni ostacolo all’ingresso della nave in acque territoriali”. Impugnativa della quale si sono perse le tracce, dopo la convulsa fase delle comunicazioni diffuse dal ministro dell’interno attraverso i canali più disparati.

Dopo lo sbarco dei naufraghi, conseguente al sequestro della nave, il Gip del tribunale di Agrigento disponeva la restituzione (dissequestro) della nave della Ong Open Arms. osservando che “non sussistono, dopo l’evacuazione e il soccorso dei migranti, esigenze probatorie anche in considerazione del fatto che non si ascrive all’organizzazione e all’equipaggio alcuna responsabilità”.  Secondo lo stesso magistrato, piuttosto, si potrebbero configurare gravi reati, allo stato a carico di ignoti, che avrebbero impedito l’ingresso della nave nelle acque territoriali e lo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino.  Il giudice di Agrigento scrive infatti che “sussiste il fumus del reato di sequestro di persona da parte dei pubblici ufficiali in corso di identificazione sulla base del fatto che il Tar aveva sospeso il divieto di ingresso in acque territoriali e i migranti sono, quindi, stati trattenuti indebitamente dal 14 agosto”. Il magistrato rileva “analogie con la cosiddetta vicenda Diciotti” in quanto, anche in questo caso, “è stato omesso il preciso obbligo di individuare un porto sicuro spettante all’Italia in quanto primo porto di approdo in base al trattato di Dublino”.

La prospettiva sulla base della quale il Viminale, prima e dopo il decreto sicurezza bis, ha adottato  divieti di ingresso in porto non solo nei confronti delle ONG, ma anche nei casi di soccorsi operati da imbarcazioni militari italiane, viene così completamente ribaltata: non è illecita l’attività di soccorso in acque internazionali, ma, in via di ipotesi, ricorre un illecito in ordine alla mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro, conseguenza del divieto di ingresso nelle acque territoriali. Come rilevano i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo,“va anzitutto evidenziato l’indiscutibile ruolo di primo piano svolto e, per certi versi, rivendicato dal Ministro Salvini sin da quando, apprendendo dell’intervento di soccorso posto in essere in zona Sar libica dalla Open Arms, coerentemente con la politica inaugurata all’inizio del 2019, adottava nei confronti di Open Arms, d’intesa con i Ministri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, il decreto interdittivo dell’ingresso o del transito in acque territoriali italiane, qualificando l’evento come episodio di immigrazione clandestina, a dispetto del riferimento alla situazione di distress del natante su cui i soggetti recuperati stavano viaggiando”.

Sulla cd. zona SAR “libica”, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2019, il procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, era stato molto chiaro. “La dichiarazione di una zona Search and Rescue libica, avvenuta nel 2017 non fa venire meno l’obbligo delle nazioni delle SAR vicine, innanzitutto Italia e Malta, di salvare le persone in pericolo, anche in zone di non diretta attribuzione, coordinando gli sforzi dei soccorsi e intervenendo direttamente, se del caso”.

La difesa “anticipata” sui media dall’ex ministro dell’interno si è basata, anche nel caso Open Arms qui in esame, come già nei precedenti casi Diciotti e Gregoretti, sull’affermazione della natura di atto politico insindacabile attribuita ai divieti di ingresso nelle acque territoriali, in modo da escludere la ricorrenza di reati ministeriali. Secondo il Tribunale dei ministri di Palermo, invece, Salvini, nel non concedere un porto sicuro alla nave Open Arms nell’agosto 2019, avrebbe violato le Convenzioni internazionali “…. Come affermano i giudici palermitani, la condotta omissiva ascritta agli indagati, consistita nella mancata indicazione di un Pos alla motonave Open Arms, è illegittima per la violazione delle convenzioni internazionali e dei principi che regolano il soccorso in mare, e, più in generale, la tutela della vita umana, universalmente riconosciuti come ius cogens”.

L’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati che non si esaurisce nel primo intervento di salvataggio e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica (…), assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna (l’art. 117 Cost. prevede infatti che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”. 

Se, come risulta dai rapporti delle Nazioni Unite e come aveva riconosciuto persino il ministro degli esteri del precedente governo Conte, Enzo Moavero Milanesi, la Libia non garantisce «porti di sbarco sicuri», spetta al ministero dell’interno, di concerto con la Centrale operativa della Guardia costiera di Roma, su indicazione del ministro dell’interno, indicarne uno con la massima sollecitudine, anche se l’evento Sar si è verificato nelle acque internazionali che ricadono nella pretesa Sar libica. Eventuali inadempimenti di tali obblighi potranno essere sanzionati a livello nazionale o internazionale. Non si può ammettere che in mare ci siano persone sottratte a qualsiasi giurisdizione, soltanto per effetto della qualificazione come “clandestini”. E’ dunque l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio tanto nel caso in cui l’autorità nazionale competente Sar dia risposta negativa alla possibilità di intervenire in tempi utili quanto in assenza di ogni riscontro da parte di quest’ultima. Anche nel caso del processo Open Arms, a prescindere dall’esito che avrà, si potranno rinvenire precisi elementi di fatto, e provvedimenti di natura asseritamente « politica » o meramente discrezionali, dai quali potrà emergere una violazione sistematica dei diritti fondamentali delle persone migranti anche quando sono state soccorse e si trovano davanti ad un porto italiano in attesa dello sbarco. Il presupposto costante delle scelte di « chiusura dei porti», o di mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro, al di là della manifestata intenzione di ottenere una redistribuzione dei richiedenti asilo su scala europea, rimane sempre la priorità della collaborazione con le autorità libiche, con il riconoscimento di una vasta zona di ricerca e salvataggio demandata esclusivamente a queste autorità, ed una valutazione negativa delle attività di ricerca e salvataggio condotte da soggetti privati che intendono sottrarre i naufraghi giunti comunque in acque internazionali, ad un destino di morte o alla prospettiva di essere riportati nei centri di detenzione libici dai quali sono fuggiti.

La cessione della competenza ad operare interventi Sar in acque internazionali non può comunque pregiudicare la dignità e la vita delle persone che si devono soccorrere. In base a quanto espressamente previsto dalle Convenzioni UNCLOS e SAR, il primo MRCC che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R. ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Ciò almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR – Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004). Il mero recupero a bordo della nave soccorritrice delle persone in pericolo o dei naufraghi, non determina la conclusione delle operazioni S.A.R., perché le operazioni possono considerarsi terminate solo con lo sbarco di dette persone in un luogo sicuro (place of safety o P.O.S.). Per tale motivo, l’obbligo di individuare detto luogo sicuro, in accordo con tutte le altre Autorità eventualmente interessate, ricade sull’MRCC che ha la responsabilità del coordinamento delle operazioni stesse, in accordo con tutte le altre Autorità governative interessate. I dubbi sulla valenza normativa cogente di quanto previsto dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare e dalle Risoluzioni dell’IMO possono essere superati richiamando la natura di ius cogens dei Regolamenti europei che hanno efficacia vincolante diretta nell’ordinamento interno degli stati dell’Unione europea.

Si deve considerare che i Regolamenti europei n.656/2014 e n.1624/2016 prevedono espressamente un richiamo a tutte le Convenzioni internazionali di diritto del mare, congiuntamente alla Convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati. L’art. 4 del Regolamento europeo 2016/1624 (costitutivo della nuova Agenzia per la guardia di frontiera e costiera europea) prevede espressamente che, nel corso delle operazioni di controllo delle frontiere marittime, le attività S.A.R. continuano comunque ad essere avviate e condotte in conformità a quanto previsto dal Reg. EU2014/656, ovverosia in conformità alle norme di diritto internazionale sul SAR. In base al Considerando n.8 del Regolamento n.656/2014, richiamato dal successivo Regolamento n.1624/2016, « durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti ». Si può quindi ritenere che per effetto di questo richiamo le disposizioni delle Convenzioni internazionali del mare ed i relativi emendamenti accettati dagli stati membri dell’Unione Europea diventino vincolanti per tutte le autorità di questi paesi.

Ai fini della individuazione del porto di sbarco sicuro non può assumere rilievo la bandiera che batte la nave soccorritrice, soprattutto quando questa ha già fatto ingresso nelle acque territoriali.. Come ha ricordato in diverse occasioni l’Autorità garante per le persone private della libertà personale“l’interdizione all’ingresso costituisce esercizio della sovranità e implica che ai migranti soccorsi e a bordo della nave debbano essere riconosciuti tutti i diritti e le garanzie (divieto di non refoulement, diritti dei minori stranieri non accompagnati, diritto di protezione internazionale…) che spettano alle persone nei confronti delle quali l’Italia esercita la propria giurisdizione”. Come osserva Giancarlo Guarino, già Ordinario di Diritto Internazionale all’Università di Napoli Federico II, “il riferimento ripetuto del Governo italiano al fatto che le navi delle ONG battono bandiera di vari Paesi è irrilevante,…perché non si tratta di navi pubbliche ma private e quindi il principio per cui lo Stato della bandiera assume anche la responsabilità di chi si trovi a bordo della nave non vale”.

I giudici del Tribunale dei ministri di Palermo ricordano in proposito come “deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il “contatto” sia realizzato con il centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO, presso ogni Stato aderente alle convenzioni in materiaessa, poi, appare incoerente con lo scopo perseguito dalle richiamate linee guida (criterio ermeneutico, questo, di primaria rilevanza nell’applicazione dei trattati e delle convenzioni internazionali), scopo che, come s’è detto, consiste nel far sì che la collaborazione degli Stati converga verso il risultato di consentire alle persone soccorse di raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile”.

Dalle indagini svolte dal Tribunale dei ministri di Palermo emerge che “il POS (indicato ad Algeciras ovvero, successivamente alle osservazioni trasmesse dalla Guardia Costiera italiana, presso le Isole Baleari) offerto dalla Spagna – peraltro solo in data 18.8.2019, quando la nave si trovava già da tre giorni alla fonda in prossimità delle coste di Lampedusa – non rispondeva, già in astratto, alle esigenze tutelate dalla normativa internazionale; in base al par. 6.18 della Risoluzione MSC 167-78, infatti, la nave soccorritrice ha diritto di ottenere l’autorizzazione allo sbarco dei migranti in un luogo che implichi il minimo disagio per la nave stessa, gravando specularmente sui responsabili l’obbligo di tentare di organizzare delle alternative ragionevoli per questo scopo (v. par. 6.13 ris. cit, secondo cui la nave deve essere comunque sollevata da questa responsabilità non appena possono essere presi accordi alternativi”); sotto questo profilo, sia il porto di Algeciras, ubicato addirittura sullo stretto di Gibilterra, che quello di Palma di Maiorca, nelle Isole Baleari, distante circa 590 miglia nautiche da Lampedusa, erano entrambi troppo lontani dalla posizione della nave per poter essere considerati idonei a salvaguardare le esigenze in rilievo”.

Secondo l’UNHCR, “nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato”. Nei suoi documenti l’UNHCR chiede nuovi sforzi per limitare la perdita di vite in mare, tra cui il ritorno delle navi di ricerca e soccorso degli Stati Membri dell’UE. Le restrizioni legali e logistiche alle operazioni di ricerca e soccorso delle ONG, sia in mare che per via aerea, devono essere eliminate. Gli Stati costieri dovrebbero facilitare, non ostacolare, gli sforzi volontari per evitare le morti in mare”.

Non si possono dunque adottare provvedimenti amministrativi, o omettere atti dovuti come la indicazione di un porto di sbarco sicuro, in modo da intaccare i diritti fondamentali della persona sulla base del mero sospetto che le Ong siano colluse con trafficanti o scafisti, oppure che compiano attività dolosamente preordinate alla introduzione di immigrati irregolari in Italia. I divieti di ingresso nelle acque territoriali fin qui adottati sono illegittimi perché contrastano con le Convenzioni internazionali di diritto del mare e con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati che non consentono di qualificare come comportamenti illegali le attività di ricerca e soccorso in acque internazionali ed il successivo ingresso nel mare territoriale per lo sbarco dei naufraghi in un place of safety.

Non si vede quindi come si possa ritenere che l’ex ministro Salvini, impartendo al comandante della Open Arms i divieti di ingresso in porto nel periodo dal 14 al 20 agosto del 2019 abbia “agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo” (art. 9 comma 3 L. Cost. n. 1/1989).  Come ricordano i giudici del Tribunale di ministri di Palermo, “la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 81 del 5.4.2012, ha affermato che “gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo: e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate”.

Appare incontrovertibile come  che la  decisione di vietare l’ingresso nel porto di Lampedusa alla nave Open Arms, non abbia contribuito alla sicurezza dei cittadini o alla difesa delle frontiere,  ma abbia prodotto in modo diretto e immediato, effetti pregiudizievoli alla sfera giuridica individuale dei migranti soccorsi da settimane e ristretti a bordo della stessa nave, come non si sarebbe verificato se il ministro dell’interno si fosse limitato ad una scelta politica di carattere generale senza violare la normativa interna ed internazionale che stabiliscono procedure vincolate per lo sbarco dei naufraghi soccorsi in alto mare.

Come rileva il Tribunale dei ministri di Palermo, le condotte riferite al senatore Salvini risultano rientrare “nell’esercizio delle funzioni e dei poteri del Ministro dell’Interno”, come “espressione dell’attività amministrativa rimessa a quella autorità, e non invece di quella di indirizzo politico e di attuazione generale dell’azione amministrativa del governo che, nella fattispecie, fa da sfondo allo svolgersi della vicenda, apparendo confinata nell’ambito dei motivi che hanno ispirato la condotta medesima”.

Purtroppo il rischio che si ritorni a pratiche interdittive dell’ingresso nelle acque territoriali, e dunque dei soccorsi operati in acque internazionali da parre delle Organizzazioni non governative, rimane assai alto. Vanno accertate tutte le responsabilità della catena di comando e dei ministri che hanno ritardato lo sbarco dopo le operazioni di soccorso, o hanno impedito gli interventi di ricerca e soccorso (SAR) imposti agli assetti aero-navali italiani in base alle Convenzioni internazionali, ma occorre abrogare anche il decreto sicurezza bis nelle parti che riconoscono al ministro dell’interno i poteri di vietare l’ingresso nelle acque territoriali e sanzionano i soccorsi umanitari delle ONG, concedendo ai prefetti il potere di adottare la confisca amministrativa delle navi soccorritrici, con effetti che perdurano anche quando la magistratura penale esclude ogni responsabilità in capo ai soccorritori. 

8.  “Soccorsi”in mare, intercettazioni, chiusura dei porti e naufragi (in)visibili

L’entrata in vigore del Decreto Legge n.53 del 2019 ( cd. Decreto sicurezza “bis” poi convertito nella legge 8 agosto n.77)), con diverse norme di dubbia costituzionalità, ha permesso al ministro dell’interno, dopo una serie di direttive/diffide del tutto prove di basi legali, di impartire ordini alla guardia di finanza, ed alla guardia costiera, in evidente violazione con i doveri imposti dalle Convenzioni internazionali che vietano di trattenere a tempo indeterminato sulla nave soccorritrice i naufraghi soccorsi in mare, anche quando si tratti di portare a compimento attività di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement). 

In particolre, il cd. “decreto sicurezza bis” (Decreto legge n. 53 del 14 giugno del 2019) poi convertito in legge (Legge n. 77 dell’8 agosto 2019), con l’articolo 1, recante misure a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e in materia di immigrazione, inseriva nell’articolo 11 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il nuovo comma 1-ter, con il quale si attribuiva al Ministro dell’interno, nella sua qualità – riconosciutagli dall’articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121 – di Autorità nazionale di pubblica sicurezza, nell’esercizio delle funzioni di coordinamento al comma 1-bis del medesimo articolo 11, nonché nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia, il potere di limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, con l’eccezione del naviglio militare (nel quale rientrano anche le navi militari e le navi da guerra, a mente degli articoli 239 e seguenti del codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66) e delle navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e di sicurezza pubblica, ovvero quando, in una specifica ottica di prevenzione, ritenga necessario impedire il cosiddetto «passaggio pregiudizievole» o «non inoffensivo» di una specifica nave in relazione alla quale si possano concretizzare – limitatamente alle violazioni delle leggi in materia di immigrazione – le condizioni di cui all’articolo 19, paragrafo 2, lettera g), della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, sottoscritta a Montego Bay il 10 dicembre 1982 e ratificata dall’Italia ai sensi della legge 2 dicembre 1984, n. 689. Il provvedimento di divieto “è adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri». Il decreto sicurezza bis escludeva dunque espressamente dall’area della sua applicabilità le navi militari battenti bandiera italiana.

In questo modo il ministro dell’interno, attraverso la norma introdotta dal decreto legge sicurezza bis (art.1), con gli ordini di interdizione della navigazione impartiti alle autorità marittime, si è riservato di fatto il potere di conformare e determinare la ricorrenza di una serie di fattispecie penali, oltre che di sanzioni amministrative, sulla base dei rapporti di servizio e delle notizie di reato formulate dalle autorità di polizia alle sue dipendenze. Una possibilità di conformare la valenza effettiva delle norme penali, per mezzo di provvedimenti amministrativi, attribuita al ministro dell’interno, in violazione dei principi di legalità e di separazione dei poteri sanciti dalla Costituzione. Al rigoroso rispetto degli obblighi di ricerca e soccorso affermato in capo agli Stati dalle Convenzioni internazionali e dunque al rispetto del diritto alla vita, si sovrapponeva la finalità di “difendere i confini” con le misure di “chiusura” dei porti.

Si è così formalizzato un contorto sistema normativo penale e amministrativo che risulta in violazione al principio di gerarchia delle fonti e che potrà portare ad una duplicazione della pena nei confronti degli stessi soggetti, ponendo anche il problema del coordinamento tra il procedimento amministrativo, demandato al prefetto ed il procedimento penale. Un coordinamento che nel decreto legge n.53/2019 poi convertito in legge, rimane assolutamente oscuro, oscurità che avrebbe potuto portare anche ad una declaratoria di illegittimità costituzionale, valutando i tempi delle diverse procedure, il sovrapporsi di differenti ipotesi di confisca delle navi, e l’ammontare elevatissimo delle sanzioni pecuniarie imposte dal prefetto, al di fuori di qualunque criterio di adeguatezza e proporzionalità, rispetto ai fatti contestati. Tutto ciò, a carico di persone non ancora condannate in via definitiva. Si sono adottate così misure fortemente dissuasive delle attività di soccorso in acque internazionali nel Mediterraneo centrale, con conseguenze spesso mortali.

Nell’ordinanza del GIP di Agrigento del 2 luglio 2019, si affermava invece che :”«l’art. 11 comma ter del D. Lgs 286-98 (introdotto dal D. L. n. 53/2019): difatti, ai sensi di detta disposizione, il divieto interministeriale da essa previsto (di ingresso, transito e sosta) può avvenire, sempre nel rispetto degli obblighi internazionali dello Stato, solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti nello Stato Costiero, fattispecie qui non ricorrente vertendosi in una ipotesi di salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio. Peraltro, l’eventuale violazione del citato art. 11 comma 1 ter – si ribadisce sanzionata in sola via ammnistrativa – non fa venir meno l’inderogabile disposto di cui all’art. 10 ter del Dlgs 286/98, avente ad oggetto l’obbligo di assicurare il soccorso, prima, e la conduzione presso gli appositi centri di assistenza, poi».

Come ha osservato il Garante Nazionale per le persone private della libertà personale, Mauro Palma, nel suo parere sul Decreto legge n.53 del 2019, “lo Stato costiero può eccezionalmente sospendere temporaneamente, senza discriminazioni di diritto o di fatto tra navi straniere, il diritto di passaggio inoffensivo in zone specifiche di mare, quando ciò sia indispensabile per la propria sicurezza. Tuttavia, una lettura della norma che consideri la fattispecie del salvataggio in mare (che continua fino allo sbarco in un luogo sicuro – place of safety) come una violazione delle norme in materia di immigrazione dello stato costiero e, di conseguenza, come una ipotesi di passaggio non inoffensivo appare non in linea con gli obblighi internazionali di soccorso previsti in vario modo da norme contenute nelle più importanti convenzioni sul diritto del mare (Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, Convenzione SOLAS del 1974 e Convenzione SAR del 1979) e dagli artt. 485 e 489 del Codice della Navigazione italiano.

L’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati che non si esaurisce nel primo intervento di salvataggio e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica (…), assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna (l’art. 117 Cost. prevede infatti che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. 

Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa,organo indipendente attualmente rappresentato dalla bosniaca Dunja Mijatović, aveva emanato una raccomandazione dall’eloquente titolo Lives Saved. Rights protected. Bridging the protection gap for refugees and migrants in the Mediterranean (ZIRULIA,DPC). “Nel documento si sottolineava che “il primo RCC (Centrale di coordinamento) contattato, anche se l’emergenza è avvenuta al di fuori della sua SRR (Zona SAR), mantiene la responsabilità dell’evento finché sia accertato che l’RCC competente per quella regione, o altro RCC, abbia dichiarato di assumere il coordinamento e si sia effettivamente attivato in tal senso (p. 20)”. La Centrale operativa della guardia costiera italiana rimane dunque responsabile dell’operazione SAR, e per essa il ministero dell’interno che ne stabilisce le linee di azione, fino a quando non sia accertato che i naufraghi siano stati presi in carico da un paese che garantisca un porto sicuro di sbarco. E dunque “non è giustificabile la prassi degli Stati membri del Consiglio d’Europa consistente nel tentare di dirottare le richieste d’aiuto proveniente dalla SRR libica sul JRCC di quel paese; al contrario, deve ritenersi che il diritto internazionale determini il radicamento ed il mantenimento della responsabilità in capo agli stessi RCC continentali”. In precedenza, la portavoce della Commissione Europea Nathasha Berhaud, ancora prima della denuncia di un gruppo di giuristi al Tribunale penale internazionale, aveva escluso che la Libia, nelle sue diverse articolazioni territoriali, potesse essere considerata come un luogo sicuro di sbarco.

A partire dall’entrata in vigore del “decreto sicurezza bis”, nel giugno del 2019,  il Ministro dell’interno faceva ampio uso del potere di vietare l’ingresso nelle acque territoriali e quindi nei porti italiani, a navi delle ONG che avevano operato attività SAR ( di ricerca e soccorso) in acque internazionali, in conformità a quanto previsto dalle Convenzioni internazionali, e dal diritto interno, anche per gli espressi richiami operati alle fonti sovranazionali dagli articoli 10 e 117 della Costituzione. Continuava nel frattempo una intensa collaborazione della Marina italiana, con la sedicente guardia costiera “libica”, mentre venivano bloccate le attività di ricerca e soccorso fino allora operate dalle navi della Guardia costiera ( come la Diciotti e la Dattilo) con un accresciuto ruolo della guardia di finanza, utilizzata piuttosto che per soccorrere, per notificare ai comandanti delle ONG i provvedimenti di divieto di ingresso nelle acque territoriali impartiti dal ministro dell’interno. Il “concerto” con gli altri ministri, previsto dal decreto sicurezza bis , si riduceva ad una mera formalità, mentre il Presidente del Consiglio veniva solo “informato” dei divieti.

In diverse occasioni lo stesso ministro dell’interno pro tempore Salvini continuava ad affermare che i divieti di ingresso erano imposti al fine di ottenere l’assunzione della responsabilità dei soccorsi da parte dello stato di bandiera della nave, se non la redistribuzione dei migranti, anche se soccorsi da navi italiane come la Mare Ionio di Mediterranea, verso altri paesi europei. Appariva evidente come lo scopo immediato della nuova normativa introdotta con il Decreto legge n.53/2019 fosse il respingimento delle navi umanitarie e l’inasprimento delle sanzioni contro chi si rende “colpevole” di soccorso, per avere operato in modo “autonomo”, senza obbedire, in altri termini, agli obblighi di riconsegna alla guardia costiera libica. Per avere impedito che i naufraghi fossero rigettati nei centri di detenzione dai quali erano fuggiti. 

Nessun porto libico può essere però qualificato quale luogo di sbarco sicuro, non avendo la Libia aderito alla Convenzione relativa allo status dei rifugiati (Ginevra, 28 luglio 1951) ed essendo la situazione in suddetto Stato, oggi frammentato in più entità territoriali con diversi governi, caratterizzata da sistematiche violazioni dei diritti umani, come ribadito nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella pronuncia relativa al caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, e come confermato fino ad oggi da tutti i rapporti delle diverse agenzie e missioni delle Nazioni Unite (UNHCR, OIM, UNSMIL). Se è vero che, in base alla Convenzione UNCLOS lo stato può comunque impedire l’ingresso nei propri porti ad una nave sospettata di trasportare migranti irregolari, ( art. 19, comma 2) i naufraghi non posso essere qualificati generalmente come irregolari prima del loro sbarco a terra. Nessuno può essere allontanato dal territorio nazionale o con l’esercizio di poteri di sovranità dello stato, senza una identificazione individuale e senza la possibilità di chiedere protezione. L’unico limite incontrato dalla discrezionalità degli stati è infatti rappresentato dalla presenza tra i migranti soccorsi in mare di minori , di rifugiati o richiedenti asilo: lo Stato interveniente e lo Stato costiero devono, quindi, rispettare il principio di non refoulement anche nell’individuazione del luogo ove le operazioni di soccorso in mare possono essere considerate terminate.

Si deve dunque considerare che, se uno Stato respinge una imbarcazione carica di naufraghi soccorsi in acque internazionali, o ne vieta l’ingresso in porto, in assenza di provvedimenti individuali, come tali oggetto di un possibile ricorso, senza controllare se a bordo vi siano dei richiedenti asilo o soggetti non respingibili, o altrimenti inespellibili , come donne abusate e/o in stato di gravidanza e minori, commette una grave violazione del principio di non respingimento sancito dall’art. 33 par. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951. Una violazione tanto più evidente se gli spazi geografici (Stati terzi, come ad esmpio la Tunisia, o autorità militari in alto mare, come quelle maltesi) verso cui la nave, con i naufraghi ancora a bordo, venga respinta, non offrono garanzie sufficienti per l’incolumità dei migranti o per il riconoscimento dei loro diritti fondamentali, a partire dalla possibilità di accesso ad una procedura imparziale per il riconoscimento della protezione.

C ) Gli effetti della normativa emergenziale conseguente alla pandemia da COVID ed in particolare del decreto interministeriale del 7 aprile 2020 e dell’Ordinanza di Protezione civile del 12 aprile 2020 (navi quarantena),con il rafforzamento del principio di sovranità nazionale, la chiusura dei porti dichiarati “non sicuri”, ma solo per le navi delle ONG che battono bandiera straniera. La discriminazione istituzionale che non garantisce maggiore sicurezza ai naufraghi, ma “difende i confini” per una “emergenza sanitaria nazionale” che non deriva però dall’arrivo di migranti.

. Il decreto interministeriale del 7 aprile 2020 di “chiusura” dei porti alle navi private battenti bandiera straniera dopo interventi di ricerca  e salvataggio.

Il 31 gennaio 2020 il ​Consiglio dei ministri ha decretato lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili, il COVID-19. Da quella data un profluvio di decreti del Presidente del Consiglio (DPCM) ed ordinanze di Presidenti di regione e sindaci, hanno costituito un fitto reticolo normativo, di carattere amministrativo che, oltre a limitare la libertà di circolazione dei residenti in Italia, ha influito sulla indicazione di un porto sicuro di sbarco, imposta dal diritto internazionale del mare e sulla successiva destinazione dei naufraghi nel sistema di prima accoglienza. 

Già dall’adozione dello stato di emergenza legato alla diffusione del COVID-19, sarebbe stato necessario un piano di distribuzione delle persone soccorse in mare, ma la risposta del governo italiano si è limitata inizialmente all’imposizione delle procedure di quarantena ed al tentativo di ritrasferire in altri paesi europei i pochi naufraghi che venivano ancora soccorsi dalle navi umanitarie. Non si sono predisposte strutture di prima accoglienza a terra, dopo che il sistema di accoglienza nazionale era stato demolito dal primo decreto sicurezza adottato dal governo giallo verde nel dicembre del 2018 ( Legge n.132 del 2018).

In conseguenza di questo stato di emergenza è stato emanato il decreto interministeriale del 7 aprile 2020, impropriamente definito come “porti chiusi”. In realtà i porti non sono mai stati chiusi e, mentre si sono fermate per mesi le attività di soccorso delle ONG, sono sempre continuati i cd. sbarchi autonomi, come pure le operazioni di soccorso da parte della Guardia costiera e della Guardia di finanza, abilitate ad intervenire -per ordini superiori di natura politica- soltanto quando le imbarcazioni cariche di migranti fossero entrate nelle nostre acque territoriali (12 miglia dalla costa).

Il provvedimento con cui il ministro dei Trasporti, con questo decreto interministeriale, ha deciso il divieto di ingresso nelle acque territoriali soltanto alle navi battenti bandiera straniera che avessero soccorso naufraghi al di fuori della zona SAR italiana, risulta un atto di natura amministrativa emanato in base ai poteri conferiti al Governo ed alla Protezione civile per fare fronte all’emergenza da COVID-19 proclamata sull’intero territorio nazionale. Si tratta di un atto comunque soggetto ad un sindacato giurisdizionale che avrebbe dovuto accertare il rispetto del principio di uguaglianza, del principio di legalità, ed i requisiti di merito del provvedimento. Ma non sembra che ci siano stati ricorsi contro il decreto del 7 aprile, o questi non hanno sortito alcun effetto. Resta ancora da valutare in sostanza se vietare il passaggio inoffensivo nelle acque territoriali, e lo sbarco in un porto sicuro in Italia, costituisca un mezzo appropriato per contrastare la diffusione della pandemia nel nostro paese, o non costituisca piuttosto, come già verificato dopo il cd. decreto sicurezza bis dello scorso, e prima ancora con le “Direttive” dell’ex ministro dell’interno Salvini, un esercizio abusivo della discrezionalità amministrativa, oltre che per motivi di propaganda, all’evidente fine di ottenere un risultato politico nella trattativa con gli altri partner europei, con la chiamata in causa dello stato di bandiera della nave soccorritrice. Mentre il prolungato trattenimento a bordo delle navi soccorritrici, o la concentrazione dei luoghi neille aree di sbarco o sulle navi adibite alla quarantena espone le persone migranti a gravi violazione del diritto alla salute che l’art. 32 della Costituzione garantisce “a tutti” senza discriminazione alcuna in base alla regolarità del soggiorno, alla provenienza nazionale, alla condizione di naufrago o di richiedente asilo.

Il Decreto interministeriale del 7 aprile 2020 costituisce nella sostanza un inasprimento del decreto sicurezza bis (D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019) voluto da Salvini quando era ministro dell’interno. La formulazione del decreto interministeriale adottato con il “concerto” di ben quattro ministri, contiene peraltro un richiamo del tutto erroneo ad una singola norma di una Convenzione internazionale, l’art. 19 comma 2 della Convenzione UNCLOS (non quindi alla Convenzione di Amburgo)). Secondo questa previsione lo stato potrebbe vietare l’ingresso di una nave nelle acque territoriali qualificando il suo passaggio come “non inoffensivo”. Risulta non inoffensivo il passaggio nel mare territoriale quando è “pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero” se, nel mare territoriale, la nave è impegnata in attività come ” il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”.

Il decreto interministeriale tradisce la sua vera finalità, che mira a costituire ulteriori premesse per iniziative dei prefetti, delle capitanerie di porto e della magistratura che portino al sequestro delle navi umanitarie ed alle incriminazioni dei comandanti e dei capi missione, quando nell’individuare i casi di soccorso che sarebbero compresi nel divieto di sbarco in un porto italiano, atteso che l’Italia intera non potrebbe garantire un place of safety (POS), un porto di sbarco sicuro, fa riferimento esclusivamente ” ai casi di soccorso effettuati da parte di unità battenti bandiera straniera che abbiano condotto le operazioni al di fuori dell’area SAR italiana, in mancanza del coordinamento del IMRCC Roma”.

Lo svolgimento delle attività di soccorso rimangono così rimesse ad una valutazione fortemente discrezionale dell’autorità marittima, che come è noto in base ai processi penali che abbiamo prima ricordato, opera sostanzialmente secondo gli indirizzi forniti dal ministro dell’interno. Quando la Centrale di coordinamento della guardia costiera italiana (IMRCC) non “prende in carico” l’evento di soccorso in acque internazionali, sembrerebbe dunque possibile negare ad oltranza, se si tratta di navi private straniere, la indicazione di un porto di sbarco sicuro in Italia, pur se richiesto dalla nave soccorritrice, come si è verificato in diverse occasioni, ben documentate, nel corso degli ultimi mesi. Sarebbe dunque il “coordinamento” delle attività SAR da parte della Centrale operativa della Guardia costiera italiana che distinguerebbe i soccorsi per i quali i porti italiani resterebbero aperti, pure in presenza della pandemia da COVID-19, da quelli per i quali l’Italia non sarebbe in grado di garantire porti sicuri di sbarco, quelli operati dalle ONG e comunque da navi battenti bandiera straniera, al di fuori della zona SAR italiana e senza il “coordinamento” delle autorità italiane.

Adesso anche i Presidenti di regione e singoli Sindaci reclamano la “chiusura” dei porti, come sta avvenendo in Sicilia, e si sollecita il respingimento dei naufraghi perchè potrebbero risultare “infetti”. La dichiarazione di uno stato di emergenza sanitaria per effetto della pandemia da Covid-19, tuttavia, non sospende gli obblighi internazionali degli stati, tenuti a completare le operazioni di soccorso in mare fino allo sbarco a terra dei naufraghi in un porto sicuro (place of safety). Non trova alcuna giustificazione, nè fondamento nelle Convenzioni internazionali, una limitazione all’ingresso nelle acque territoriali per le sole navi di soccorso che battono bandiera straniera. Navi che non violano le leggi sull’immigrazione ma adempiono ad obblighi di salvataggio che gli stati omettono da tempo.A prescindere dallo stato di bandiera,  quando una nave carica di persone soccorse in acque internazionali si trovi al limite o all’interno della cd. “zona contigua” alle acque territoriali, e chiede di fare ingresso in porto per sbarcare naufraghi, ricade sotto la giurisdizione dello stato, sia per l’adozione delle misure di carattere penale ed amministrativo, sia in modo corrispondente per quanto riguarda gli obblighi di sbarco e di assistenza, con particolare riferimento ai minori ed ai soggetti più vulnerabili. Obblighi di assistenza che non potranno essere assolti indicando un altro paese competente o inviando soltanto scorte di vestiario e rifornimenti di viveri o provvedendo alle esigenze sanitarie più urgenti, senza trovare una soluzione immediata di sbarco a terra.

Mentre la diffusione globale della pandemia da COVID-19 sta rimettendo in discussione il concetto di frontiera e tutti i tradizionali sistemi di controllo dei confini nazionali, in Europa e soprattutto in Italia, si rimane inchiodati alla linea della collaborazione con i paesi terzi del nord Africa per contrastare quella che si definisce come “immigrazione illegale” e tentare di ridurre le partenze e quindi gli sbarchi in territorio europeo. Per rendere invisibili gli sbarchi si era cercato alcuni mesi fa ad adottare un decreto interministeriale ( del 7 aprile 2020) che, in continuità con il decreto sicurezza bis di Salvini, vietava alle ONG, e di fatto soltanto a loro, di fare ingresso nelle acque territoriali e nei porti italiani per sbarcare naufraghi raccolti in acque internazionali.

In Italia l’incapacità di prevedere quanto sarebbe successo alle frontiere europee in questi ultimi mesi dominati dall’emergenza COVID 19 ha lasciato le forze di governo e le autorità amministrative in balia della campagna populista che si è riaccesa in vista delle elezioni regionali in autunno, sfruttando l’effetto incrociato dei consueti allarmi “invasione” che si lanciano ad ogni inizio d’estate quando gli arrivi dal nord Africa aumentano, e della paura derivante dalla diffusione della pandemia. Una campagna di disinformazione che tenta di fare passare per portatori di infezione tutte le persone che arrivano dalle coste nordafricane, mentre si permette un accesso libero e incontrollato ai turisti stranieri ed a tutti gli italiani che provengono da regioni che registrano un numero ancora elevato di positivi al virus..

Nel 2020, tutte le reti di monitoraggio civile hanno riscontrato un incremento di partenze dalle coste nordafricane e di chiamate di soccorso rimaste senza risposta, mentre ai mancati interventi di salvataggio e ai respingimenti si sono talora affiancati misteriosi attacchi, speronamenti e minacce da parte di assetti privati maltesi e di assenza di soccorsi da parte delle autorità competenti, maltesi e italiane (Alarm Phone). Questa combinazione di ritardi, mancata assistenza e risposta alle chiamate di soccorso, di intercettazioni non trasparenti da parte di navi private e respingimenti coordinati, sta creando una spirale caotica e mortale.  A ciò si aggiungono, con l’utilizzo strumentale della pandemia, la politica dei “porti chiusi”  – esemplare, per l’Italia, il decreto del 7 aprile 2020 teso solo a tenere lontani i “corpi degli altri” e a impedir loro di toccare una qualche banchina – e il trattenimento di esseri umani, trattati come pacchi pericolosi, u “hotspot galleggianti” il più al largo possibile dalle coste maltesi e italiane: navi-prigioni e pontili di navi turistiche dove rendere “invisibili” i corpi e soprattutto le voci dei testimoni della tortura e dello sterminio in Libia e sui confini esternalizzati. Col terrore ossessivo del pericolo per i propri cittadini l’Occidente – e non solo – ha cancellato il diritto alla salute e alla vita degli “altri”. Una pratica di trattenimento difficilmente sanzionabile in base alla vigente legislazione nazionale, ma non per questo priva di risvolti disumani e di annientamento della vita delle persone, con la temporanea sospensione dei loro diritti fondamentali, a partire dal diritto di chiedere asilo in frontiera.

Secondo il rapporto dell’OIM “COVID-19 Control Measures, Gap in SaR Capacity Increases Concern About ‘Invisible Shipwrecks’ del 12 maggio scorso, “Le misure attuate dai governi in risposta a COVID-19, tra cui chiusure di porti, ritardi nello sbarco e la ridotta presenza di navi di ricerca e salvataggio sulla rotta sempre più trafficata del Mediterraneo centrale, stanno sollevando serie preoccupazioni sul destino delle navi in pericolo e le cosiddette ” naufragi invisibili “. “Stiamo assistendo a un costante aumento del numero di navi sull’acqua di cui siamo a conoscenza e l’assenza di operazioni di ricerca e salvataggio statali e guidate da ONG rende difficile sapere tutto ciò che sta accadendo in mare”, ha affermato Frank Laczko, direttore del Global Data Migration Data and Analysis Center di IOM. “La risposta a COVID-19 ha avuto un impatto decisivo sulla nostra capacità di raccogliere dati precisi. La rotta del Mediterraneo centrale rimane la più pericolosa rotta di migrazione marittima sulla terra e, nel contesto attuale, sono cresciuti i rischi che naufragi invisibili lontani dalla percezione della comunità internazionale ”.

Come riporta una nota dell’ AFP giorno 8 maggio 2020, le Nazioni Unite “hanno espresso allarme per le notizie secondo cui i paesi non riescono ad aiutare i migranti in difficoltà nel Mar Mediterraneo, bloccando l’assistenza delle ONG e coordinando i respingimenti delle loro imbarcazioni. Il portavoce dell’ufficio per i diritti delle Nazioni Unite Rupert Colville ha avvertito durante un briefing virtuale sulla stampa che tali misure “stanno chiaramente mettendo a rischio la vita”Siamo profondamente preoccupati per le recenti segnalazioni di incapacità di assistere e coordinare i respingimenti delle imbarcazioni migranti nel Mediterraneo centrale, che continua ad essere una delle rotte migratorie più mortali al mondo”.

Come rileva Alessandra Algostino, « L’obbligo di salvataggio delle vite in mare, che si conclude con lo sbarco in un porto sicuro, costituisce un dovere degli Stati che prevale sulle direttive ministeriali in tema di porti chiusi[23], così come non può essere limitato da un decreto interministeriale, come quello adottato il 7 aprile 2020[24]; resta, peraltro, che, anche se, invece che con un decreto, la chiusura dei porti fosse stata disposta con una fonte primaria, essa, in quanto incidente su diritti garantiti dalla Costituzione e dal diritto internazionale dei diritti umani (ex art. 10, c. 1, e 117, c. 1, Cost.), incontrerebbe comunque un confine invalicabile nel principio di centralità della persona e dei suoi diritti, nel principio di solidarietà e, nello specifico, nella considerazione che alcuni diritti universali (come il diritto alla vita o il divieto di tortura) non possono essere oggetto di bilanciamenti o limitazioni.

Il decreto interministeriale adottato dal ministro delle infrastrutture ha natura di atto amministrativo ed incide gravemente su materie coperte dalla riserva di legge e disciplinate da Convenzioni internazionali che non sono derogabili da atti discrezionali di singoli ministri, come peraltro ha riconosciuto recentemente la Corte di Cassazione nel caso Rackete. Le norme di provenienza internazionale, peraltro, non possono essere richiamate a convenienza, ma vanno lette nel loro complesso ed applicate secondo le leggi di attuazione ed alla luce del richiamo che ne fanno gli articoli 10 e 117 della Costituzione italiana. Gli orientamenti prevalenti della giurisprudenza hanno finora escluso che atti di natura amministrativa possano derogare norme di fonte internazionale aventi forza di legge per effetto delle leggi di attuazione e del dettato costituzionale. Esiste ancora il principio di gerarchia delle fonti e non appare derogabile in nome della proclamazione dello stato di emergenza da COVID-19, adottato dal governo italiano il 31 gennaio scorso. Non si può utilizzare lo stato di emergenza derivante da una pandemia per criminalizzare ulteriormente gli interventi di soccorso umanitario operati dalle navi delle ONG, alle quali si nega il porto sicuro di sbarco, impedendo così il completamento delle operazioni di salvataggio in alto mare.

Appare evidente come, nelle premesse giustificative del decreto interministeriale del 7 aprile 2020 , il ministro delle infrastrutture, di concerto con gli altri ministri coinvolti nella firma del provvedimento, abbia richiamato solo parzialmente il diritto internazionale del mare con un ritorno a tutte quelle motivazioni adottate in precedenza da Salvini per le ordinanze “ad navem” che tendevano a “chiudere” i porti italiani. Ma solo con esclusivo riferimento alle navi delle Organizzazioni non governative che avessero effettuato attività di soccorso in mare, con motivazioni puntualmente disattese da diverse decisioni dei giudici di merito, e da ultimo dalla Corte di cassazione, che hanno ribadito l’obbligo dello stato italiano di indicare un porto di sbarco sicuro quando comunque una nave soccorritrice fosse entrata nella zona SAR ( ricerca e salvataggio) italiana, salva la successiva valutazione in sede giurisdizionale del comportamento del comandante e dell’equipaggio.

Tra gli atti internazionali richiamati nelle premesse e il contenuto normativo del provvedimento, si ricordi un atto amministrativo adottato da alcuni ministri, e non una fonte primaria di legge, si richiamano Convenzioni che sono violate dal provvedimento e non certo ne costituiscono una premessa logica o legale. Il decreto firmato dai ministri delle infratstrutture, degli esteri, dell’interno e della salute, proprio per quanto affermato dalla giurisprudenza, viola la Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo che vieta trattamenti inumani o degradanti e i respingimenti collettivi ( art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla Convenzione) e l’art. 33 della Convenzione di Ginevra che impone di prendere in esame tutte le eventuali richieste di protezione delle persone che giungono ad una frontiera, seppure marittima, senza procedere a respingimenti indiscriminati, come si realizzerebbero invece con la chiusura dei porti di sbarco attraverso la dichiarazione che, in questo momento di crisi sanitaria, l’Italia non sarebbe in grado di garantire “porti sicuri di sbarco”. solamente se i naufraghi sono soccorsi da navi battenti bandiera straniera al di fuori della zona SAR italiana. Una misura che appare gravemente discriminatoria e che non è neppure in linea con una interpretazione integrata e coerente del Diritto internazionale del mare che non si può esaurire, come invece si rileva del decreto interministeriale, nel mero richiamo dell’art. 19 della Convenzione UNCLOS di Montego Bay. Con lo stesso artificio interpretativo adottato dalle ordinanze di Salvini prima e dal decreto sicurezza bis poi, che la Giurisprudenza ha ritenuto non idoneo a piegare la valenza cogente delle Convenzioni internazionali e del diritto dei rifugiati, quando si tratta di salvataggio in mare e di accesso al territorio per chiedere protezione. Il passaggio delle navi delle ONG attraverso il mare territoriale di qualunque Stato per sbarcare naufraghi non può essere considerato recante “pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero” (art. 19.1 UNCLOS). Infatti, l’art. 19.2.e UNCLOS prevede esplicitamente che l’imbarco e lo sbarco di persone al solo fine di ottemperare agli obblighi di salvare la vita in mare sono attività ricomprese nella nozione di passaggio inoffensivo.. Secondo l’art. 94 della stessa convenzione UNCLOS, «1. Ogni Stato esercita efficacemente la propria giurisdizione e il proprio controllo su questioni di carattere amministrativo, tecnico e sociale sulle navi che battono la sua bandiera”. Non ha quindi alcun fondamento la tesi cara all’attuale governo italiano, secondo cui il paese competente ad indicare il porto sicuro di sbarco, nel caso di soccorsi operati in acque internazionali, sarebbe il paese di bandiera della nave soccorritrice e non quello di offrire il porto sicuro più vicino.

Le altre premesse giustificative del decreto interministeriali si risolvono nel richiamo ai diversi provvedimenti adottati dal governo dopo la dichiarazione dello stato di emergenza COVID 19 il 31 gennaio scorso, per fronteggiare il diffondersi dell’epidemia, provvedimenti che non sembrano però idonei a sospendere l’applicazione dello stato di diritto e la applicabilità delle norme internazionali in materia di ricerca e soccorso dei naufraghi o delle persone comunque in pericolo (distress) in acque internazionali. Ed apare certamente fuori luogo il richiamo a provvedimenti come il DPCM 11 marzo 2020 con il quale si riducono o si sopprimono “i servizi automobilistici interregionali e di trasporto ferroviario, aereo e marittimo”, o al Decreto interministeriale n. 120 del 17 marzo 2020 con il quale si disciplinano “le misure di ingresso delle persone fisiche in Italia e le relative prescrizioni al fine di evitare la diffusione ed il contagio del COVID-19”. Misure di carattere amministrativo che evidentemente non fondano alcun potere del ministro delle infrastrutture circa la decisione di impedire lo sbarco in un porto italiano soltanto dei naufraghi soccorsi da una nave battente bandiera straniera, atteso che continuano regolarmente gli sbarchi “autonomi” e quelli effettuati con l’assistenza di mezzi della Guardia di finanza. Se vi sono pericoli di carattere epidemiologico non si vede perchè non possono essere affrontati con procedure di quarantena e di accertamenti sanitari, come peraltro è avvenuto nel caso di soccorsi operati da altre navi umanitarie, da ultimo la Ocean Viking di SOS Mediterraneé, e la Open Arms, l’unica nave delle ONG non sottoposta ad un provvdimento di fermo amministrativo.

Sembra dunque possibile concludere con quanto osserva Alessandra Algostino secondo cui « Vi sono due approcci ben distinti: da un lato, sta l’adozione di misure eccezionali strettamente proporzionali e correlate alle necessità connesse all’epidemia (evitare diffusioni del virus e tutelare le persone soccorse dal contagio); dall’altro, una indebita compressione di diritti, che devono, se pur con modalità rapportate allo stato di emergenza sanitaria, essere garantiti. Il primo approccio è legittimo, il secondo no. Nel nome del diritto alla salute di una persona non può essere sacrificato il diritto alla salute, o il divieto di trattamenti inumani o degradanti, quando non il diritto alla vita, di un’altra (e se scelte tragiche si dovessero porre, non è certo la nazionalità della persona o la bandiera della nave un criterio legittimo). L’emergenza sanitaria non deve comportare un arroccamento nazionalista, essere l’occasione, una volta di più, per discriminare nella tutela dei diritti umani, rendendo mera retorica i diritti universali o tramutandoli in privilegi del cittadino, veicolando l’idea che alcuni siano “più meritevoli”, “più umani”, di altri. Su questo terreno potrebbe svilupparsi una ulteriore attività di indagine da parte del Tribunale Permanente dei Popoli per verificare, nel succedersi delle disposizioni amministrative che in maniera spesso caotica stanno disciplinando questa materia, quanto siano ancora garantiti i diritti fondamentali delle persone migranti.

2. Dalla destrutturazione del sistema di prima accoglienza alla limitazione della libertà di circolazione e della libertà personale sulle navi-hotspot utilizzate per la quarantena.

Di fronte all’aumento dei casi di positività al COVID 19 dei migranti soccorsi in mare si pone in maniera sempre più evidente il tema della legittimità del trattenimento dei naufraghi soccorsi in mare alloggiati nelle navi noleggiate per la quarantena. Il dato certo è costituito dall’ammassamento di migranti di diversa provenienza su queste navi, che vanno da potenziali richiedenti asilo che non possono ancora formalizzare la loro posizione, ai minori non accompagnati che non dovrebbero neppure essere trattenuti a bordo di queste in assenza della nomina di un tutore e in quanto soggetti vulnerabili, fino ai migranti per i quali si prepara un decreto di respingimento, e nel caso dei tunisini un probabile rimpatrio con accompagnamento forzato. Una miscela di disperazione che evidentemente non può essere contenuta a bordo di navi traghetto utilizzate come Hotspot, in nome dell’emergenza Covid 19, ma in deroga alle procedure previste dall’art. 10 comma ter del testo unico sull’immigrazione n.286/98 che impongono lo sbarco immediato a terra con una procedura di identificazione, e distinzione tra richiedenti asilo, soggetti vulnerabili, vittime di tratta, migranti cd. economici, secondo passaggi anche informativi e con precise garanzie di difesa. Tutto questo accade in base al decreto del Capo Dipartimento della Protezione Civile n.1287 del 12 aprile 2020, il quale ‘con riferimento alle persone soccorse in mare e per le quali non è possibile indicare il Place of Safety (luogo sicuro)’ prevede che ‘il soggetto attuatore, nel rispetto dei protocolli condivisi con il Ministero della salute, può utilizzare navi per lo svolgimento del periodo di sorveglianza sanitaria’. La normativa in vigore non prevede una particolare competenza del ministro dell’interno Lamorgese a differenza di quanto si era verificato nella prassi con il suo predecessore. Ma sembra invece che le decisioni circa i trasferimenti di persone siano rimaste saldamente nelle mani del Viminale, o dei suoi dirigenti, e da ultimo si sono registrati casi di trasferimento di migranti già accolti a terra dai centri di accoglienza nei quali si trovavano, alle navi quarantena. Spesso questi trasferimenti sono stati finalizzati ad operazioni di rimpatrio con accompagnamento forzato.

Giovedì 8 ottobre 2020 sono stati rimpatriati con un volo charter alcuni tunisini che erano a bordo della nave quarantena Rhapsody che si era partita due giorni prima da Palermo alla volta di Bari . Diversi tunisini, di cui non conosciamo ancora il numero preciso, sono stati portati direttamente dalla nave a bordo dell’aereo sul quale sono stati rimpatriati. Tutto questo dopo giorni di isolamento nell’Hotspot di Lampedusa ed ancora altre due settimane in isolamento per quarantena di fronte al porto di Palermo, un trattenimento prolungato oltremisura. I tamponi effettuati sulle persone in trattenimento sono stati oltre 3 e tutti negativi. Era necessaria una quarantena-trattenimento di quasi due mesi per questo? O è servita per “sistemare i tempi del rimpatrio”? Nei giorni successivi, mentre la Rhapsody si andava progressivamente svuotando si apprendeva che vi restavano a bordo oltre 80 persone risultate positive al Covid 19, più di quante ne fossero state segnalate pochi giorni prima alla partenza della nave da Palermo. In questo caso si potrebbe configurare anche una violazione del diritto alla salute dei migranti imbarcati sulla nave, alcuni provenienti già dal territorio nazionale, per violazione dell’art. 32 della Costituzione.

Ai tunisini rimpatriandi non viene concessa nessuna possibilità di fare richiesta di protezione internazionale, o di ricevere adeguata informativa. Arrivati in cerca di diritto trovano solo reiterata detenzione, tutto questo senza avere mai la possibilità di incontrare referenti delle organizzazioni di attivisti indipendenti. Le violazioni dei diritti di queste persone sono numerose, considerando la normativa Internazionale e la Direttiva Rimpatri 2008/115/CE. Gli art. 10, 13 e 14 del TU sull’immigrazione nonché l’art. 13 della Costituzione Italiana. Si passa dal trattenimento detentivo in condizioni inumane e degradanti all’hotspot di Lampedusa fino all’ulteriore trattenimento in quarantena in nave ed alla mancanza di accesso all’informativa, sembrano in tutto sovrapponibili al caso Khlaifia del 2011, che riguardava proprio migranti tunisini cui rispose con la sentenza del 15 dicembre del 2016 la Corte europea dei diritti dell’uomo con una condanna all’Italia per l’illegittima privazione della libertà personale (art. 5 CEDU), per le condizioni disumane e degradanti patite presso il Centro di primo soccorso e accoglienza di Lampedusa (art. 3 CEDU), nonché per la successiva espulsione collettiva degli stessi (Art. 4, Prot. 4 alla CEDU) (. Anche in questo caso, evidentemente, la sentenza di condanna adottata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo non ha inciso sulle prassi illegittime che le autorità italiane hanno continuato ad applicare.

Venerdì 9 ottobre 2020 un gruppo di migranti trovati positivi al COVID 19 ed accolti in un centro di accoglienza nel Lazio, venivano trasferiti sulla stessa nave quarantena, la GNV Allegra, sulla quale era stato trattenuto il piccolo ivoriano Abou prima di essere sbarcato a terra e morire per una setticemia. La stessa nave è stata poi fatta partire per un viaggio lampo a Lampedusa dove lunedì 12 ha caricato altre centinaia di persone, ed ha quindi fatto ritorno nel golfo  di Palermo. Sarà ben difficile che ci possano essere processi nei quali siano chiamati alla sbarra quei politici che hanno richiesto e poi concesso l’uso di grandi navi passeggeri per la quaratena di migranti. Si deve ricordare peraltro la portata assai limitata, sul piano delle navi sulle quali si applica il trattenimento amministrativo di cittadini stranieri, della sentenza di condanna dell’Italia adottata nel 2016 dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo sul caso Khlaifia.

La sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Khlaifia arrivava cinque anni dopo l’archiviazione di un esposto presentato alla procura di Palermo, esposto che denunciava proprio quanto poi accertato dalla Corte nel giudizio di primo grado. La Grande Camera, votando all’unanimità, ha riconosciuto la fondatezza della violazione dell’ art. 5 CEDU da parte dell’Italia, perché coloro che hanno fatto ricorso risultano essere stati illegalmente privati della libertà personale, prima nel  CPSA di Lampedusa e poi sulle navi attraccate a Palermo che, in maniera del tutto arbitraria, sono state adibite alle stesse funzioni dei centri di detenzione. Ma risultava violato anche l’art. 3 CEDU, in relazione all’art. 13 della stessa convenzione, in quanto ai ricorrenti non era stato garantito l’accesso ad una effettiva procedura di ricorso per poter contestare eventuali (anche se non accertate) violazioni appunto dell’art. 3. La sentenza Khlaifia è rimasta così dimezzata nella sua portata applicativa dalla decisione della Grande Chambre e non ha avuto praticamente effetti sulle politiche e sulle prassi adottate dal governo italiano.

La situazione è rimasta sconfortante anche per quanto riguarda i casi di trattenimento nei centri di detenzione ed in altri luoghi destinati, dopo gli sbarchi, al trattenimento amministrativo. Una cappa di silenzio è calata sui centri di detenzione amministrativa oggi definiti Centri per i rimpatri (CPR), da Trapani (Milo) a Torino, sui centri Hotspot, come quello di Lampedusa e sulle misure di accompagnamento forzato in frontiera effettivamente eseguite.

Gli Hotspot ed i Centri per il rimpatrio (CPR) sono diventati luoghi sempre più impenetrabili, e in molti casi, soprattutto negli Hotspot, le misure limitative della libertà personale sono state sottratte ad un effettivo controllo giurisdizionale, in violazione dell’art. 13 della Costituzione. Il decreto sicurezza, approvato con la legge n.132 del 2018 ha poi consentito il trattenimento amministrativo in vista dell’espulsione in strutture diverse dai CPR, in locali “a disposizione delle autorità di pubblica sicurezza”. Non si comprende quali forme di convalida giurisdizionale siano previste per questi casi di limitazione della libertà personale in vista dell’accompagnamento in frontiera, che comunque ricadono sotto la previsione dell’art. 13 della Costituzione italiana. Come ribadisce la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza n.105 del 2001.

Sembrano così moltiplicarsi i casi di detenzione extra-legale, in violazione della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo che all’art. 5 stabilisce la riserva di legge per tutti i casi di trattenimento amministrativo (affidato alle forze di polizia) e del diritto dell’Unione Europea. La Direttiva europea 2008/115 sui rimpatri vieta che un cittadino di un Paese non Ue che non sia stato ancora soggetto a procedura di rimpatrio sia detenuto a tempo indeterminato solamente perché è entrato sul territorio di uno Stato membro in modo illegale. Garanzie particolari sono previste per coloro che manifestano la volontà di chiedere protezione, per i minori non accompagnati che essendo inespellibili non possono essere vittima di trattenimento amministrativo al pari delle donne in stato di gravidanza e degli altri soggetti in condizioni di particolare vulnerabilità. Eppure sulle navi hotspot destinate al periodo di quarantena sono state decine i minori trattenuti per settimane in violazione anche della legge n.47 del 2017 ( legge Zampa 47/2017).

Con la sentenza Richmond Yaw e altri c. Italia, pubblicata il 6 ottobre 2016, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 5 par. 1, lett. f e par. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per il prolungamento arbitrario del trattenimento amministrativo all’interno del Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria (Roma), e per il mancato riconoscimento del diritto alla riparazione del danno derivante dalla ingiustificata privazione della libertà personale. Malgrado queste condanne a carico dell’Italia per violazioni di principi ben precisi affermati nelle Convenzioni internazionali basate sul rispetto assoluto del principio di legalità, nella disciplina dei casi di detenzione amministrativa, il ministero dell’interno non ha fatto ricorso ad una effettiva base legale per regolamentare il trattenimento amministrativo degli stranieri irregolari, al di là delle scarne previsioni degli articoli 10 ter e 14 del Testo unico in materia di immigrazione n.286 del 1998. Una disciplina parziale del trattenimento amministrativo che si potrebbe applicare anche all’interno dei centri Hotspot ed in altre “strutture a disposizione dell’autorità di polizia”, è stata introdotta dall’art. 4 del Decreto legge sicurezza 113/2018, poi convertito nella legge 132/2018.

Secondo il nuovo art. 10 -ter (Disposizioni per l’identificazione dei cittadini stranieri rintracciati in posizione di irregolarità sul territorio nazionale o soccorsi nel corso di operazioni di salvataggio in mare) del Testo Unico 286 del 1998, come modificato dalla legge n. 46 del 2017, prevede che : 1. Lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all’art. 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di
ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito.

Qualsiasi limitazione della libertà personale, anche quella all’interno degli Hotspot o di altre strutture di trattenimento amministrativo individuate dalle questure, come le navi quarantena, e le zone di transito portuale, rimane comunque soggetta alle garanzie ed ai limiti dettati dall’art. 13 della Costituzione italiana. Si deve intensificare il monitoraggio dei centri Hotspot, e sulle navi quarantena, per ora sottratti a qualsiasi controllo esterno ( una sola visita del garante nazionale per le persone private della libertà personale, giusto il 17 settembre scorso, davanti al porto di Palermo), e dei voli di rimpatrio.

3. Omissione di soccorso istituzionale. I più recenti  accordi segreti tra Malta e la guardia costiera “libica”. Se questa è Europa.

Le Organizzazioni non governative avevano già denunciato lo scorso anno gli accordi segreti tra Malta e la sedicente guardia costiera “libica”, dopo che motovedette partite da Tripoli, probabilmente le stesse assistite e coordinate dalla centrale operativa della missione italiana NAURAS presente nel porto militare di Tripoli (Abu Sittah), avevano intercettato un barcone carico di naufraghi sconfinando nella zona SAR (Search and Rescue) maltese. E proprio da Malta sono arrivate conferme molto circostanziate sulla portata dei protocolli di collaborazione tra le autorità maltesi e la sedicente guardia costiera “libica”. Un consigliere dell’ex primo ministro maltese, nel corso della sua testimonianza davanti alla Commissione d’inchiesta sull’attentato che ha causato la morte della giornalista Daphne Caruana Galizia, ha dichiarato: “Il mio intervento ha impedito ai migranti di entrare a Malta. Mi coordinavo con le forze armate di Malta e la guardia costiera libica. Quando sapevamo dove erano le barche, informavamo le autorità libiche di salvare queste persone. L’ho fatto fino a quando non mi sono dimesso ”.

Chi sostiene di avere salvato vite, collaborando con le motovedette libiche, in realtà ha riconsegnato persone, donne e bambini compresi, ad autorità colluse con i trafficanti e incapaci di garantire la vita e la dignità dei naufraghi, privati del diritto di chiedere asilo in un paese sicuro. Da anni le Nazioni Unite avvertono che la Libia non garantisce porti sicuri di sbarco. Questi accordi, confermati anche dall’agenzia Reuters, si inserivano nel quadro delle politiche europee di supporto (law enforcement) alle milizie libiche per bloccare quella che si definisce soltanto come “immigrazione irregolare”, e trovavano un precedente importante, più manifesto, negli accordi stipulati il 2 febbraio 2017 dal governo italiano con il governo di Tripoli, poi ratificati il giorno successivo dalla Conferenza di Malta. 

Tra le priorità individuate dagli accordi di Malta del 2019 volte a contenere il flusso dei migranti irregolari dalla Libia verso l’Italia la formazione, equipaggiamento e supporto per la guardia costiera nazionale libica e altre agenzie pertinenti . Rimangono ancora aperti alcuni procedimenti penali contro rappresentanti delle ONG che non avrebbero obbedito alle indicazioni di abbandonare ai libici i naufraghi individuati in mare o che non hanno potuto trovare nel porto de La Valletta un place of safety (POS), per il diniego del governo maltese, un governo che come emerge adesso dai documenti più recenti, aveva stretto un accordo segreto con la sedicente Guardia costiera “libica”. Se questi processi dureranno ancora, sarà ancora maggiore la quantità di prove che le indagini difensive permetteranno di raccogliere sulle collusioni tra le missioni europee, le autorità italiane e il governo di Tripoli, inclusa la sedicente guardia costiera “libica”.

Il governo maltese ha denunciato in diverse occasioni la mancanza di solidarietà dell’Unione Europea che non condivide gli impegni di redistribuzione dei naufraghi che sembravano derivare dalla bozza preliminare del cd. Accordo di Malta, stipulato nel settembre dello scorso anno. Ma si rifiuta di applicare il medesimo principio di solidarietà quando si tratta, se non di chiedere l’intervento delle motovedette italiane che rimangono ferme in porto per ordini superiori che ne limitano l’operatività al di fuori delle acque territoriali, quantomeno di inviare mezzi di salvataggio maltesi di AFM ( le forze armate maltesi) e di approntare soluzioni di prima accoglienza in linea con le Direttive dell’Unione Europea.

Come ha dichiarato Carola Rackete“It is not only about Malta. They do this with the acceptance of the EU, which has since years supported illegal push backs to Libya by Libyan actors. EU Governments must be prosecuted for these crimes, because they are responsible for death and suffering of people returned to Libya”. Dopo il richiamo del premier maltese alle attività di tracciamento degli aerei europei, che avvistano e poi vanno via, i vertici dell’agenzia FRONTEX non possono limitarsi ad affermare che dopo i primi avvistamenti la responsabilità dei soccorsi incombe soltanto ai singoli stati che dispongono di mezzi navali e sono competenti in base alla distribuzione delle zone SAR ( ricerca e salvataggio) riconosciuta dall’IMO (Organizzazione internazionale del mare delle Nazioni Unite).

Questa affermazione potrebbe sostenersi se si basasse su un rigoroso rispetto degli obblighi di ricerca e salvataggio imposti dalle Convenzioni internazionali agli stati. Ma così non è, come è confermato dall’ultimo respingimento illegale operato dai maltesi verso la Libia. Nel 2018, all’avvio dell’operazione Themis, la portavoce di Frontex, Isabella Cooper, dichiarava all’agenzia Reuters:  “continueremo a seguire la legge marittima internazionale che impone di portare le persone recuperate nel posto sicuro più vicino”. Che cosa è cambiato oggi ? Frontex può ignorare la sorte che attende i naufraghi intercettati dai libici o respinti dai maltesi grazie alle sue attività di tracciamento aereo ?

Di certo, come si è verificato nei confronti dell’Italia, anche gli accordi segreti tra Malta e la sedicente guardia costiera “libica” saranno sottoposti al giudizio della Corte penale internazionale. Quali che siano i risultati ed i tempi, probabilmente assai lunghi, di intervento della Corte, sarà comunque possibile individuare precise responsabilità personali, che potrebbero poi assumere rilievo anche negli ordinamenti interni se le diverse procure intensificheranno i rapporti di collaborazione con la Corte penale internazionale su temi tanto delicati. Di certo, nel tempo, la politica dei “porti chiusi” non ha ridotto le vittime sulla rotta del Mediterraneo centrale, se si considera la forte riduzione delle partenze in questi ultimi due anni.

Una responsabilità morale e politica, ormai evidente, anche se ancora non acceratata in sede giudiziaria, che comunque potrebbe essere oggetto di una valutazione assai critica in termini di responsabilità degli Stati e degli agenti istituzionali. Come osserva l’OIM“È necessario rinforzare un sistema di ricerca e soccorso in mare, che possa essere di ampio raggio e guidato direttamente dagli Stati. Allo stesso tempo occorre realizzare con urgenza un meccanismo di sbarco veloce e strutturato, che preveda che gli stati del Mediterraneo si prendano uguali responsabilità nell’assicurare un porto sicuro per coloro che sono stati soccorsi. L’impegno delle navi ONG che operano nel Mediterraneo dovrebbe essere riconosciuto e dovrebbe essere messo un termine a ogni limitazione o ritardo nelle operazioni di sbarco”. Se gli Stati dell’Unione Europea e l’Italia si potranno ancora definire paesi democratici che rispettano i diritti umani, a partire dalla salvaguardia della vita umana in mare e dal diritto di chiedere asilo, si vedrà dall’impegno che sapranno esprimere in questa direzione.

4. Le responsabilità dell’agenzia europea Frontex

Quando gli stati ritardano gli interventi di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali o affidano le operazioni di soccorso ad imbarcazioni private che poi effettuano push-back illegali in Libia, tutto questo non può avvenire impunemente sotto gli occhi dei militari che conducono le attività di tracciamento dagli aerei di Frontex impegnati nel Mediterraneo centrale. Ed ancora più grave sarebbe se gli assetti aerei di Frontex collaborassero con la sedicente guardia costiera “libica”, per orientare le motovedette sulle imbarcazioni avvistate in mare in evidente situazione di distress, per il sovraccarico e la mancanza di mezzi di sicurezza e di rifornimenti. 

Il rappresentante dell”UNHCR per il Mediterraneo centrale  Vincent  Cochetel ha criticato il ritardo negli interventi di ricerca e soccorso operati a sud di Lampedusa nella notte tra il 13 ed il 14 aprile. “Questa barca non avrebbe mai dovuto essere lasciata alla deriva”, ha scritto Vincent Cochetel in un tweet.« La perdita di vite avrebbe potuto essere evitata. Coloro che considerano la Libia un porto sicuro dovrebbero visitare i sopravvissuti nel terribile centro di detenzione in cui si trovano. Nessuno può onestamente ignorare oggi a quale salvataggio porta la Guardia costiera libica ».

Frontex è estranea alle intercettazioni operate dai libici o vi collabora attivamente ? Negli scorsi anni era emersa in Italia, anche in sede giudiziaria, una forte sinergia tra la sedicente Guardia costiera libica, le navi della missione italiana Nauras (di Mare Sicuro) presente a Tripoli e la Centrale di coordinamento di Roma della Guardia costiera (IMRCC), anche con comunicazioni dirette, in occasione del blocco e della riconduzione in Libia di imbarcazioni cariche di migranti. Non risulta che tale collaborazione, derivante dal Memorandum tra Italia e Libia del 2 febbraio 2017, si sia oggi interrotta, e Frontex non è certamente estranea alle attività di contrasto coordinate dagli stati previste dal Memorandum Italia-Libia. Le testimonianze dei naufraghi intercettati in acque internazionali da motovedette libiche dopo essere stati individuati da aerei di Frontex in perlustrazione sono inequivocabili, sia sulla presenza degli assetti aerei europei sulle loro teste mentre i libici li riportavano indietro, che sulle torture e sugli abusi subiti dopo lo sbarco a terra.

L’Agenzia Frontex si è distinta da anni per la sua opacità, oltre che per la totale autonomia, anche nei rapporti con gli stati terzi, al fine di favorire rimpatri e respingimenti. Sarebbe adesso tempo che i competenti organi della giustizia internazionale e dell’Unione Europea chiedessero conto all’agenzia delle sue attività di monitoraggio nel Mediterraneo centrale e del grado di collaborazione che garantisce alle autorità maltesi, italiane e libiche nelle operazioni di respingimento e soccorso che vengono realizzate sotto gli occhi degli agenti europei, anche quando sono affidate a navi private prive di bandiera e di segni identificativi. La policy di Frontex, nei documenti e nelle dichiarazioni ufficiali dei suoi rappresentanti,  pur dando conto del rischio contagi da COVID-19, rimane nel solco delle logiche di esternalizzazionene di law enforcement contro l’immigrazione “illegale” adottate negli anni precedenti. Non si prevede, di fronte alla imminente chiusura delle frontiere marittime, alcun specifico intervento di ricerca e salvataggio o di garanzia dei diritti umani che vada oltre le esigenze di contenimento e di repressione proprie dell’agenzia, affidate da ultimo soltanto ad assetti aerei.

L’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, in suo recentissimo documento chiede un maggiore coordinamento, solidarietà e condivisione delle responsabilità, in vista dell’aumento dei movimenti di rifugiati e migranti nel Mar Mediterraneo”. Secondo l’UNHCR,“Nonostante le circostanze estremamente difficili che devono affrontare attualmente molti paesi a causa del COVID-19, la protezione delle vite e dei diritti umani fondamentali deve rimanere in prima linea nel nostro processo decisionale. Il salvataggio in mare è un imperativo umanitario e un obbligo ai sensi del diritto internazionale. Per l’Agenzia delle Nazioni Unite“I problemi legittimi di salute pubblica possono essere affrontati attraverso la quarantena, i controlli sanitari e altre misure. Tuttavia, il salvataggio ritardato o l’incapacità di sbarcare le barche in pericolo mettono in pericolo la vita. Un porto sicuro per lo sbarco dovrebbe essere fornito senza indugio, insieme a un rapido accordo su come condividere la responsabilità tra gli Stati per l’hosting delle persone una volta raggiunta la sicurezza sulla terra ferma”.

Che impegno garantisce oggi Frontex in questa direzione, tenendo conto che l’Agenzia dovrebbe mantenere un rapporto di interlocuzione diretta con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) ?

Anche se Frontex e le autorità italiane ritengono di non dovere chiarire le modalità con le quali nel Mediterraneo centrale avviene il tracciamento aereo delle imbarcazioni che salpano dalla Libia, con il loro carico di disperazione, ed addirittura si cerca di oscurare i tracciati di monitoraggio, ci saranno tempi e modi, a livello europeo e nazionale, per stabilire le responsabilità dell’agenzia e degli stati con i quali collabora. Se non sarà il Consiglio ad imporlo, ciascun membro del Parlamento europeo potrebbe essere moralmente impegnato a verificare che le attività di una agenzia dell’Unione Europea come Frontex, seppure dotata di autonoma personalità giuridica, rimangano nei limiti del mandato e non si rivelino funzionali ad operazioni illegali di push-back. Sulle quali dovrebbe intervenire anche la magistratura, quando vanno perdute in mare vite di persone, di uomini, donne e bambini, in operazioni SAR che comunque vedono coinvolte a vario titolo le autorità di coordinamento di stati diversi. In assenza di questi interventi anche questo tema costituisce uno dei punti sui quali dovrà approfondire le sue indagini una futura sessione del Tribunale Permanente dei Popoli.

5.  Le indagini della Corte Penale Internazionale sui soccorsi nel Mediterraneo centrale e sulla Guardia costiera “libica”

In una lettera indirizzata al Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, inviata il 13 febbraio 2020, il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa esorta il governo italiano a introdurre nel Memorandum d’intesa tra Italia e Libia del 3 febbraio 2017 maggiori garanzie sui diritti umani. Pur rilevando che sono in corso discussioni per modificare in questo senso alcune parti del Memorandum, il Commissario invita l’Italia a riconoscere le realtà attualmente prevalenti sul terreno in Libia e a “sospendere le attività di cooperazione con la Guardia costiera libica che comportano il ritorno in Libia di persone intercettate in mare”.

Come riferisce il Guardian, “L’UE e gli stati membri dovrebbero essere perseguiti per la morte di migliaia di migranti che sono annegati nel Mediterraneo in fuga dalla Libia, secondo una dettagliata relazione legale depositata alla Corte penale internazionale (CPI).
Il documento di 245 pagine richiede un’azione punitiva sulla politica migratoria dell’UE basata sulla deterrenza a partire dal 2014, che presumibilmente “intendeva sacrificare la vita dei migranti in difficoltà in mare, con l’unico obiettivo di dissuadere gli altri in situazioni simili dalla ricerca di un rifugio sicuro in Europa”. I due principali autori del rapporto sono Juan Branco, che ha lavorato in passato alla CPI e al ministero degli esteri francese, e Omer Shatz, un avvocato israeliano che insegna all’università Sciences Po di Parigi. 
L’accusa di “crimini contro l’umanità” si basava anche su documenti interni di Frontex, l’organizzazione dell’UE incaricata di proteggere le frontiere esterne dell’UE, che ha avvertito che il passaggio dalla politica di salvataggio italiana di Mare Nostrum avrebbe potuto portare a un “più alto numero di vittime”, come se le ONG costituissero un vero e proprio “pull-factorLa relazione depositata alla Corte Penale internazionale afferma che: “Per arginare i flussi migratori dalla Libia a tutti i costi … e al posto di operazioni di salvataggio e sbarco sicure come prescrive la legge, l’UE sta orchestrando una politica di trasferimento forzato nei campi di concentramento, come le strutture di detenzione [in Libia] dove vengono commessi crimini atroci. Sarebbe davvero tempo che la magistratura italiana tenga conto della documentazione raccolta in queste occasioni, anche al fine di svolgere una autonoma attività di indagine, con i poteri assai più ampi dell’autorità giudiziaria nazionale, al fine di impedire che gli abusi segnalati da anni possano proseguire nella impunità più totale dei responsabili.

Nel sostegno italiano ed europeo alle milizie libiche e nelle attività di coordinamento, supporto e rifornimento della sedicente Guardia costiera “libica” si sono individuati e documentati veri e propri crimini contro l’umanità, di cui si sarebbero resi responsabili i vertici politici nazionali e i dirigenti delle agenzie europee che si sono occupate di “contrasto dell’immigrazione irregolare”.

I primi ministri italiani Matteo Renzi, Paolo Gentiloni. Il ministro dell’Interno Marco Minniti. E poi Matteo Salvini. Ma anche il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel. Sono questi i nomi che compaiono nelle 250 pagine che compongono l’esposto presentato alla Corte Penale internazionale dell’Aja dall’esperto di internazionale dell’Istituto di studi politici di Parigi, l’israeliano Omer Shatz, e dal giornalista franco-spagnolo Juan Branco, consigliere di WikiLeaks. L’accusa è di crimini contro l’umanità a seguito delle politiche migratorie dell’UE nel Mediterraneo centrale. In particolare — si legge nella denuncia -«esternalizzando le pratiche di respingimento dei migranti in fuga dalla Libia alla Guardia costiera libica, pur conoscendo le conseguenze letali di queste deportazioni diffuse e sistematiche (40 mila respingimenti in 3 anni), gli agenti italiani e dell’UE si sono resi complici degli atroci crimini commessi contro nei campi di detenzione in Libia». Secondo la denuncia, resa nota dal Corriere della sera, “«Attraverso un complesso mix di atti legislativi, decisioni amministrative e formali accordi, l’UE e i suoi Stati membri hanno fornito alla guardia costiera libica sostegno materiale e strategico, incluso ma non limitato a navi, addestramento e capacità di comando e controllo». Una decisione che avrebbe permesso agli Stati membri di aggirare il diritto marittimo e internazionale.

Il documento chiede alla Corte penale internazionale un’azione punitiva sulla politica migratoria dell’UE basata dopo il 2014 sulla deterrenza, che presumibilmente “intendeva sacrificare la vita dei migranti in difficoltà in mare, con l’unico obiettivo di dissuadere gli altri in situazioni simili dalla ricerca di un rifugio sicuro in Europa”. L’accusa e’ che funzionari e politici hanno consapevolmente creato la “via di migrazione piu’ letale del mondo”, con la conseguenza che oltre 12.000 persone hanno perso la vita. L’accusa di “crimini contro l’umanità” si basa in parte su documenti interni di Frontex, l’organizzazione dell’UE incaricata di proteggere le frontiere esterne dell’Unione, che, dicono gli avvocati, ha avvertito che il passaggio dalla fortunata politica di salvataggio italiana di Mare Nostrum potrebbe portare a un “più alto numero di vittime “. La denuncia sostiene che: “Per arginare i flussi migratori dalla Libia a tutti i costi… e al posto di operazioni di salvataggio e sbarco sicure come prescrive la legge, l’UE sta orchestrando una politica di trasferimento forzato nei campi di concentramento, come le strutture di detenzione (in Libia) dove vengono commessi crimini atroci”. Secondo l’atto di accusa inoltrato alla Corte penale internazionale, “I funzionari dell’Unione europea e degli Stati membri avevano una conoscenza precoce e piena consapevolezza delle conseguenze letali della loro condotta”.

Secondo lo statuto della Corte Penale internazionale, costituisce crimine contro l’umanità, infatti, l’“attacco (i) esteso o sistematico (ii) diretto contro ogni popolazione civile (iii), realizzato consapevolmente (v) in esecuzione del disegno politico di uno Stato o organizzazione (iv)”. Si può dunque osservare come gli accordi in parola potrebbero astrattamente integrare, sia sotto il profilo dell’actus reus che della mens rea, la particolare forma di responsabilità dell’agevolazione materiale ex art. 25(3)(c) dello Statuto di Roma. Infatti, la cooperazione con la Libia potrebbe configurare anche la responsabilità internazionale dello Stato italiano. Come ricorda Flavia Pacella, l’8 maggio 2017 la Procuratrice generale della Corte penale internazionale (d’ora in avanti CPI), nel suo tredicesimo rapporto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite sulla situazione in Libia, esprimeva la propria preoccupazione con riferimento alla natura e alla portata dei crimini presumibilmente commessi a danno dei migranti in transito nel Paese nordafricano, dichiarando di valutare l’apertura di un’indagine in merito. Nel successivo rapporto sulla situazione in Libia, risalente all’8 novembre 2017, la Procuratrice ha affermato che, sulla base delle informazioni acquisite dal suo Ufficio, “alcuni crimini presumibilmente commessi contro i migranti in Libia potrebbero rientrare nella competenza della Corte”, confermando in tal modo di considerare l’ipotesi di aprire un’indagine”.

Come ricorda bene Flavia Pacella, “nel caso di specie la Procuratrice generale avrebbe l’onere di provare che i nostri ministri hanno agito con (i) la coscienza e volontà di agevolare le autorità libiche e (ii) con la consapevolezza che attraverso tale cooperazione, nel corso normale degli eventi, si sarebbero verificati o aggravati gli abusi nei confronti dei migranti. In particolare, la Procura dovrebbe sostenere che, sebbene le autorità italiane abbiano agito con il fine primario e astrattamente legittimo di interrompere i flussi migratori in entrata (e non certo di contribuire alla commissione di crimini contro l’umanità nei confronti dei migranti), il fatto che esse abbiano concluso gli accordi con la volontà di fornire un aiuto materiale alle autorità libiche e nella piena consapevolezza che, nel normale corso degli eventi, si sarebbero verificati gravissimi abusi, vuol dire che i ministri italiani hanno accettato il rischio (conosciuto)di agevolare la condotta criminosa degli autori principali. In punto di fatto, non vi può essere dubbio sulla sussistenza della piena volontà da parte delle autorità italiane di agevolare e assistere le controparti libiche, chiaramente desumibile tanto dalla lettera degli accordi quanto dalle dichiarazioni degli stessi Ministri. Similmente, anche con riferimento alla consapevolezza dell’esistenza di un sistema consolidato di abusi, sembra potersi dare una risposta affermativa. Infatti, come sottolineato da Amnesty International, sia prima che dopo la conclusione degli accordi vi sono state numerose pubblicazioni di agenzie di stampa, ONG e organizzazioni internazionali, che hanno svelato le estese e sistematiche violazioni dei diritti fondamentali dei migranti in transito in Libia. Dunque, in estrema sintesi, non sembra affatto possibile sostenere che i ministri italiani, al momento della conclusione degli accordi, ignorassero il gravissimo sistema di abusi cui i migranti erano sottoposti, così come sarebbe parimenti infondato ritenere che le nostre autorità non siano a conoscenza degli effetti di tali accordi in termini di un sostanziale aggravamento della condizione dei migranti”. In definitiva, secondo la stessa fonte, “è opportuno sottolineare che la cooperazione con la Libia potrebbe configurare anche la responsabilità internazionale dello Stato italiano. Il diritto internazionale consuetudinario prevede due condizioni cumulative affinché uno Stato sia internazionalmente responsabile per l’assistenza fornita ad un altro Stato nella commissione di un illecito: (i) che lo Stato c.d. assistente agisca con la consapevolezza delle circostanze dell’atto illecito posto in essere dallo Stato c.d. assistito e (ii) che l’atto sia, in astratto, internazionalmente illecito anche se commesso dallo Stato c.d. assistente. Nel caso di specie, come autorevolmente sostenuto altrove, entrambi tali requisiti sembrano essere prima facie soddisfatti”.

I tempi e lo stesso esito finale del giudizio davanti alla Corte penale internazionale appaiono assai incerti, ma comunque i poteri di indagine che competono alla Procura presso la Corte stanno permettendo la raccolta di una mole impressionante di documentazione, che oltre alle gravissime violazioni subite dai migranti nei centri di detenzione libici, tema centrale delle indagini, riguarda anche le prassi operative della sedicente “Guardia costiera libica” in mare. Si tratta di una documentazione che potrebbe essere utilizzata anche in altre sedi giurisdizionali internazionali ed interne. Abbiamo visto in precedenza come gli obblighi internazionali di soccorso siano assunti anche nei Regolamenti europei n.656 del 2014 e 1624 del 2016, direttamente vincolanti nell’ordinamento interno dei singoli stati. Le violazioni di tali Regolamenti potrebbero essere rilevate dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, anche nell’ipotesi che il singolo giudice nazionale rilevi la contrarierà di una prassi, o di un provvedimento legislativo o amministrativo  alle prescrizioni relative agli obblighi di ricerca e soccorso ed alla successiva indicazione di un porto di sbarco sicuro. Potrebbe ipotizzarsi dunque, nell’ambito di procedimenti che riguardino queste materie un rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo ed un successivo adeguamento del giudice nazionale alla decisione della stessa Corte.

Sembra sempre più difficile arrivare a condanne da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo, ormai paralizzata dalle pressioni dei rappresentanti governativi e dall’aggravamento delle formalità procedurali. Il diniego di misure cautelari sui ricorsi proposti in via di urgenza dalla ONG Sea Watch, quando la nave era bloccata per giorni davanti ai porti siciliani senza la indicazione di un porto sicuro di sbarco, sono stati davvero un punto di non ritorno. Ed anche occasione di innesco di una spregiudicata controffensiva del ministero dell’interno che si è avvalso di questo diniego per legittimare i successivi divieti di ingresso nelle acque territoriali imposti alle ONG. Anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, soprattutto con riferimento all’accordo UE-Turchia, sono arrivate risposte insufficienti. E non si vede come sarà possibile fare arrivare ricorsi ai tribunali internazionali e garantire sicurezza ai ricorrenti, nelle attuali condizioni di violenza generalizzata che si riscontrano in Libia.

6. Tre anni dopo la sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli nella Sessione di Palermo

Il Tribunale Permanente dei Popoli ha tenuto una Sessione straordinaria durata due anni sulla “Violazione con impunità dei diritti delle persone migranti e rifugiati” (2017-2019) con varie udienze tenutosi a Barcellona, Palermo, Parigi e Londra e una restituzione finale a Bruxelles (marzo 2020) per cercare di risvegliare un Parlamento europeo, se non indifferente, complice delle decisioni maturate da Commissione, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera – Frontex e altri istituzioni e organi europei.

Nel mese di dicembre del 2017 a Palermo, il Tribunale Permanente dei Popoli ha condannato l’Italia e l’Unione europea per concorso in crimini contro l’umanità a causa degli accordi stipulati con la Libia e per le politiche di respingimento in mare. Non si poteva negare già allora che l’Italia e l’Unione europea delegassero veri e propri respingimenti collettivi alle milizie imbarcate a bordo dei mezzi della guardia costiera “libica”. Gli stessi mezzi che tentavano di tenere lontane dalla pretesa zona SAR libica, che non corrisponde certo alle acque territoriali, le navi umanitarie delle Organizzazioni non governative. Il Tribunale ha individuato diversi profili di responsabilità penale dei vertici dello Stato, nonché di responsabilità internazionale dell’Italia, a causa della complicità per le torture che continuerebbero ad essere commesse nei campi di detenzione libici e sulle quali già da tempo si è concentrata anche l’attenzione del procuratore della Corte penale internazionale, Fatou Bensouda”. Come osserva M. Ventrone, “invero, la connessione tra la condotta italiana, consistente nella fornitura di assistenza tecnica e finanziaria alle autorità libiche, e le gravi violazioni dei diritti umani che si consumerebbero in Libia è già stata evidenziata dalla dottrina internazionalistica e una responsabilità indiretta dell’Italia su tali illeciti appare difficilmente contestabile.

Più specificamente, il Tribunale Permanente dei Popoli, riunito nella sessione di Palermo dal 18 al 20 dicembre 2017 – considerati i molteplici elementi di prova testimoniale emersi e i documenti acquisiti, valutati gli atti ufficiali italiani e dell’Unione Europea, preso atto delle dichiarazioni rese dai vertici del Governo in replica o risposta ai rilievi formulati in più sedi, anche da parte di esponenti delle Nazioni Unite – valuta che:
– le politiche dell’Unione Europea sulle migrazioni e l’asilo, a partire dalle intese e dagli accordi stipulati tra gli Stati dell’Unione Europea e i Paesi terzi, costituiscono una negazione dei diritti fondamentali delle persone e del popolo migrante, mortificandone la dignità definendoli “clandestini” e “illegali” e ritenendo “illegali” le attività di soccorso e di
assistenza in mare;
– la decisione di arretrare le unità navali di Frontex e di Eunavfor Med ha contribuito all’estensione degli interventi della Guardia costiera libica in acque internazionali, che bloccano i migranti in viaggio verso l’Europa, compromettendone la loro vita e incolumità, li riportano nei centri libici, ove sono fatti oggetto di pratiche di estorsione economica, torture e trattamenti inumani e degradanti;
– le attività svolte in territorio libico e in acque libiche e internazionali dalle forze di polizia e militari libiche, nonché dalle molteplici milizie tribali e dalla c.d. “guardia costiera libica”, a seguito del Memorandum del 2 febbraio 2017 Italia-Libia, configurano – nelle loro oggettive conseguenze di morte, deportazione, sparizione delle persone, imprigionamento arbitrario, tortura, stupro, riduzione in schiavitù, e in generale persecuzione contro il popolo dei migranti – un crimine contro l’umanità;
– la condotta dell’Italia e dei suoi rappresentanti, come prevista e attuata dal predetto Memorandum, integra concorso nelle azioni delle forze libiche ai danni dei migranti, in mare come sul territorio della Libia;
– a seguito degli accordi con la guardia costiera libica e nell’attività di coordinamento delle varie condotte, gli episodi di aggressione denunciati dalle ONG che svolgevano attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo, sono ascrivibili anche alla responsabilità del governo italiano, eventualmente in concorso con le agenzie europee operanti nello stesso contesto;
– l’allontanamento forzato delle navi delle ONG dal Mediterraneo, indotto anche dal “codice di condotta” imposto dal governo italiano, ha indebolito significativamente le azioni di ricerca e soccorso dei migranti in mare e ha contribuito ad aumentare quindi il numero delle vittime.

7. Aggiornamento dell’atto di accusa di fronte al Tribunale Permanente dei Popoli

Il Tribunale Permanente dei Popoli non è tenuto, come lo sono invece i tribunali penali nazionali e internazionali, a delimitare il proprio ambito di indagine e giudizio solo in relazione al diritto penale sancito a livello nazionale e internazionale, ma può includere nella propria competenza violazioni sistemiche dei diritti dei popoli che non integrano direttamente o esclusivamente fattispecie penali di diritto positivo. In questo quadro, vanno prese in considerazione, in particolare, le politiche di esternalizzazione dal governo Italiano – condotte con il sostegno politico ed economico dell’Ue – realizzate attraverso accordi con i paesi di origine e di transito dei migranti, e in particolare con la Libia, valutando i loro effetti sostanziali sui diritti del popolo migrante costretto ad attraversare la rotta del Mediterraneo centrale inteso come frontiera meridionale dell’Europa. Si ricorda infine che l’aver ricondotto alla categoria di “popolo” la complessità degli individui che con i loro percorsi differenti sono oggi in migrazione verso l’Europa attraverso le rotte più pericolose, è un diretto risultato delle politiche di chiusura dell’Unione europea che hanno massificato in un unico popolo di vittime della violenza delle frontiere, donne, uomini e bambini portatori e portatrici di storie e istanze anche molto diverse tra loro.

Come si è fatto in territorio libico, anche nelle acque territoriali e poi nelle acque internazionali si sono create zone sottratte di fatto a qualsiasi giurisdizione, spazi nei quali le vite e i diritti delle persone possono essere impunemente violati senza che nessuno dei decisori politici o dei vertici militari siano in concreto passibili di una qualsiasi attribuzione di responsabilità. Le autorità navali e statali che coordinano le attività di soccorso in cooperazione con la Guardia costiera libica non possono ignorare la sorte che subiscono i migranti che ancora in numero consistente vengono “soccorsi” in acque internazionali e riportati in un territorio dal quale non potranno fuggire se non dopo avere subito altri abusi ed altre violenze. Per questo motivo , se è vero che sono la Guardia costiera libica o le milizie libiche a perpetrare in maniera diretta ogni sorta di abusi sulle persone sottoposte alla loro potestà, in assenza di qualsiasi garanzia giurisdizionale o di un qualsiasi sistema giudiziario o amministrativo che in Libia sanzioni quegli abusi, non si può che imputare alle autorità europee e italiane, che quegli accordi hanno concluso, finanziato ed eseguito, una precisa responsabilità. Stiamo assistendo alla reiterazioni di crimini contro l’umanità che i tribunali penali nazionali non hanno certo gli strumenti di sanzionare ma che la società civile saprà denunciare con prove sempre più schiaccianti, ricorrendo ai tribunali internazionali ed ai tribunali di opinione, come il Tribunale Permanente dei Popoli. Se si vuole bloccare la giustizia portando la politica dentro i palazzi di giustizia, si potrà comunque “condannare” la politica, che abbandona in mare, e non accoglie tempestivamente, riaffermando la giustizia nella consapevolezza e nel giudizio della società civile.

Oggi, di fronte al silenzio, alla complicità culturale attraversata da questo crimine di sistema, sarebbe cruciale aprire una sessione permanente del Tribunale Permanente dei Popoli per istituire un processo partecipato e aperto, senza scadenza o date finale, affinché e perché il problema -la banalità del male oggi – rimanga aperto e pubblico. Sotto gli occhi di tutti, appunto per tentare, insieme, di interrompere questa inversione di civiltà, quasi  un uscita dell’umanità da se stessa. Nonostante la sentenza di Palermo (2017 del Tribunale dei Popoli) abbia deciso di qualificare i fatti “crimini di sistema”, ci sono stati ampi accertamenti dei fatti successivi a quella condanna, che possono comportare un ulteriore qualificazione deli ftti come crimini di sistema contro l’umanità. La nostra  “civiltà” quindi non è nemmeno più capace di ideare e adempiere al soccorso e all’evidenza: l’evacuazione umanitaria dei migranti dalla Libia, che anzi, ostacola con tutti i mezzi aerei, navi e droni militari.  Sarebbe cecità collettiva, anch’essa intenzionale, continuare a rimuovere che dal 2017 a oggi, su tutti i confini esternalizzati, si svolge l’accelerazione del massacro intenzionale e sistemico dei migranti, nel Mediterraneo ad una chiara svolta storica. Sterminio e sparizioni di massa del popolo migrante sulle frontiere degli stati occidentali, in una crescente omertà derivante dalla diffusione del Covid-19. In un criminale connubio dunque si sommano tutte le “assenze”: della coscienza, dei fallimenti del diritto nazionale, regionale, internazionale, che rendono mute le alternative. Per realizzare queste politiche occorre colpire tutte le organizzazioni non governative che continuano a prestare assistenza alle persone che tentano di attraversare il Mediterraneo, e quando non bastano i decreti amministrativi si continua a ricorrere alle denunce ed agli arresti, per eliminare testimoni scomodi che potrebbero denunciare le responsabilità istituzionali.

Per molti anni, si è pensato che la giustizia internazionale potesse permettere di sanzionare le violazione dei diritti umani da parte degli Stati alle frontiere (caso Hirsi), oggi vediamo che la giustizia internazionale non riesce più, per mancata volontà politica, cultura giuridica, a sanzionare ; gli Stati hanno anche nominato giudici nonché un crollo morale della civiltà giuridica occidentale. Anche i sistemi di sanzione penale o amministrativi presenti nelle legislazioni nazionali hanno mostrato tutta la loro inefficacia, sembrando prevalere l’obiettivo della difesa dei confini sull’applicazione del diritto penale interno e persino sulla effettività della Costituzione.

Per i ritardi della giustizia internazionale, e per effetto della relative impasse giuridica delle giurisdizioni nazionali nel tutelare queste persone in movimento, sembra quindi necessario oggi evidenziare l’esigenza di cercare di qualificare questo nuovo crimine contro il popolo migrante, evidenziando la sua strutturalità (normativa, amministrativa, finanziaria e geografica), la sua sistematicità, la questione della ripetizione di questo crimine nonostante le conseguenze letali e in termini di violazioni dei diritti umani, fossero note; e infine il nodo cruciale della sua intenzionalità; il rapporto di Amnesty International, che già nel 2017 accusava “i governi europei di essere consapevolmente complici delle torture e delle violenze ai danni di decine di migliaia di rifugiati e migranti, detenuti in condizioni agghiaccianti nel paese nordafricano.”[1]

Nella loro comunicazione alla Corte Penale Internazionale[2], Avv. O. Shatz e J. Branco dimostrano che la politica migratoria dell’UE è fondata sulla deterrenza e che i migranti annegati sono un elemento intenzionale di questa politica. Il diritto internazionale che essi sostengono sia stato violato – crimini contro l’umanità – si applica alle politiche statali praticate anche al di fuori dei conflitti armati. La Comunicazione afferma pertanto che i leader europei dovrebbero essere chiamati a rispondere sia delle morti per annegamento sia dei gravissimi reati subiti dalla popolazione di civili stranieri respinti in Libia. Tali condotte dovrebbero essere qualificate come crimini contro l’umanità ai sensi dell’art. 5 dello Statuto di Roma, in ragione dell’estensione e della sistematicità del disegno criminoso del quale costituiscono attuazione (infra, par. 4). La procuratrice della Corte Penale Internazionale non ha finora risposto alla richiesta di indagine. 

A fronte di questa relativa impasse giuridica e del silenzio della giustizia internazionale, sembra quindi necessario evidenziare l’esigenza di fornire una definizione per i nuovi crimini contro i migranti  che ne permetta una totale percezione ed una possibile sanzione, evidenziandone la strutturalità (burocratica, finanziaria e geografica), la sistematicità (la questione della ripetizione di questo crimine nonostante le conseguenze letali) e infine il nodo cruciale della intenzionalità.

Le politiche e le prassi di eliminazione dei migranti, traversali e ormai strutturali nel mondo, svelano il crollo culturale di una civiltà, di una civiltà che respinge e tortura impunemente l’altro e lo fa vivere in limbo del non-diritto, degradando la persona migrante a non-persona; Questa molteplicità di violazioni nel mondo ci abitua in seconda analisi, ad una civiltà che convive con l’orrore (in diretta sugli schermi), con la negazione della civiltà stessa. Possiamo essere sia gli spettatori dell’orrore, con la sua massima visibilità nei lager libici, o i protagonisti di una solidarietà sui confini esterni o interni. L’impunità è doppia, sullo strenuo e ambiguo filo della omissione (di soccorso)/ commissione dei crimini. Quella linea tenue e inafferrabile crea un assordante silenzio e un inaccettabile impunità.

CONCLUSIONI

La voce delle vittime viene soffocata

Paradossalmente, in un crudele e insostenibile ribaltamento di prospettiva e di giustizia, per i crimini appena qualificati, va ricordato che è proprio la voce delle vittime che viene soffocata. Trapelano le immagini dell’orrore: quelle di Sagen, il migrante eritreo soccorso nel 2018 da Open Arms e morto pochi giorni dopo lo sbarco, per lo stato di denutrizione nel quale era stato tenuto nei lager libici; l’immagine icona del ragazzo sopravvissuto alla Libia e portato in braccia dall’equipaggio del cargo Talia a luglio scorso. Persone che invece di venir accolte e protette come preziosi testimoni dell’orrore, come emissari di verità, vengono emarginati, resi “illegali”, ammassati in trattenimenti forzati su navi-prigioni e diventano bersagli dell’odio. La realtà storica dell’odierna eliminazione dell’altro sui confini europei esternalizzati, viene così doppiamente censurata.

Il caso di Abou, il giovane ivoriano deceduto dopo essere stato sbarcato da una nave traghetto sulla quale era trattenuto per il periodo di quarantena, è emblematico. Il ragazzo aveva i segni di torture sul corpo e sicuramente negli occhi – se qualcuno l’avesse solo guardato. Abou muore in un ospedale di Palermo, di setticemia, come è stato accertato dall’autopsia, a seguito della prolungata negazione di cure a bordo di una grande nave noleggiata dal governo italiano per il periodo di quarantena. Una nave sulla quale si trovava un solo medico a fronte di oltre seicento persone provenienti dalla Libia e recuperate in mare dopo azioni di soccorso ritardate dal governo italiano ch negava reiteratamente la indicazione di un porto di sbarco sicuro, persone dunque bisognose di ogni tipo di cure alle quali si limitava la libertà personale e veniva negato l’effettivo rispetto del diritto fondamentale alla salute. Siamo probabilmente di fronte a un caso di violenza istituzionale, ma anche collettiva: l’abominio che avviene in Libia è documentato da anni da rapporti delle Nazione Unite e da organismi di tutela dei diritti umani internazionali (e anche chi non lo volesse sapere sa). Ma di queste persone – sopravvissuti alla tortura, ed alla morte in mare per naufragio, – sembra si sia perso il valore come esseri umani, ammesso che questi termini conservino ancora significato nel nostro paese, visto gli accordi rinnovati ancora di recente con il governo di Tripoli e la collaborazione stabile garantita alla sedicente guardia costiera libica, sulla quale soltanto adesso si sta cominciando ad indagare.  Accanto alla violazione del divieto di trattamento inumano o degradante in Libia ed ai casi di abbandono in mare o di “chiusura” dei porti, si presenta con aspetti sempre più drammatici ai tempi della pandemia da Covid-19 la negazione sistematica del diritto alla salute, per la natura dei luoghi nei quali si deve trascorrere il periodo di quarantena e per le modalità del trattenimento.

Abou svela che il “crollo di civiltà” di Stati e di una Unione Europea che non sono nemmeno capaci di riconoscere lo statuto di sopravvissuti, e dunque di rifugiati, a persone in fuga, malgrado abbiano subito torture e trattamenti inumani e degradanti nei lager libici. Anzi, il fatto  che esistano lager (come ci ricorda una importante sentenza della Corte di Assise di Milano) e centinaia di luoghi di detenzione invisibili, non monitorati, su tutti i confini, sparizioni forzate, casi di agonie in diretta sui imbarcazioni lasciate per giorni alla deriva, come l’accettazione della tortura di massa nei campi libici, dimostrano l’annientamento fisico e de facto dei corpi e della psiche delle persone in fuga. Aspetto, questo, a cui si accenna qui solo di sfuggita ma che emerge da tutte le testimonianze raccolte. Fatti che dovrebbero imporre una riflessione sulla tortura o su altri trattamenti inumani e degradanti delle persone in fuga che di fatto vengono utilizzati come strumenti di controllo e disincentivazione delle migrazioni.

Sarebbe quindi cecità collettiva continuare a negare che su tutti i confini esternalizzati e persino su alcuni confini interni, si svolga l’eliminazione  intenzionale e sistemica dei migranti. Questo avviene anche nel Mediterraneo, in un momento di svolta svolta storica ed in un clima di crescente omertà istituzionale derivante dalla pandemia del Covid-19. Con una mostruosa complicità della cultura e dell’informazione, attraversate da questi crimini di sistema ma incapaci a dare una risposta decisa e tempestiva. Si sommano dunque le “assenze”: della coscienza, la mancanza di informazioni indipendenti, con il rovesciamento del principio di realtà, ed i fallimenti del diritto nazionale, regionale, internazionale.

Verso la politica dell’annientamento (Vernichtung). Occorre restituire effettività ai diritti fondamentali con un sistema di sanzioni che si formi attraverso i tribunali di opinione e la partecipazione della società civile;

L’impunità è doppia, sullo strenuo e ambiguo filo della omissione/ commissione dei crimini. Quella linea tenue e inafferrabile crea un assordante silenzio e un inaccettabile impunità. Oggi, di fronte al silenzio, alla complicità culturale attraversata da questo crimine di sistema, al comprovato nesso tra politiche e morti (Statewatch, Comitato Nuovi Desaparecidos, Diritti e Frontiere, l’analisi alla base dell’esposto alla CPI, l’accusa probatoria alla sentenza di Palermo del TPP del 2017) sarebbe urgente arrivare all’istituzione di un meccanismo di monitoraggio indipendente del sistema di controllo europeo delle frontiere, sul campo, vicino e insieme ai profughi, ed ai luoghi di frontiera, che ne documenti le quotidiane violazioni.

Sarebbe anche cruciale aprire una sessione permanente del Tribunale Permanente dei Popoli per istituire un processo partecipato e aperto, senza scadenza o date finale, affinché e perché il problema rimanga aperto e pubblico. Sotto gli occhi di tutti, per tentare, insieme, di interrompere questa inversione di civiltà, quasi un’uscita dell’umanità da se stessa per tentare una risposta comune, per una protezione concreta e urgente del popolo migrante.