di Fulvio Vassallo Paleologo
1. Una importante ordinanza del Tribunale di Catania ha accertato l’illegittimità della mancata autorizzazione allo sbarco e dei provevdimenti su cui questa si basava, tra cui il Decreto interninisteriale del 4 novembre 2022, con riferimento al diritto di alcuni naufraghi soccorsi dalla nave Humanity 1 e giunti nel porto di Catania di presentare domanda di asilo in Italia, mentre la Guardia di finanza, il 6 novembre dello scorso anno, notificava al comandante della nave, su ordine del ministro dell’interno Piantedosi, il divieto di sostare nelle acque territoriali, intimando l’immediata partenza, con il “carico residuo” a bordo.
Il comandante della nave si rifiutava allora di lasciare il porto con le 35 persone ancora rimaste a bordo della nave, fino a quando non fosse stato consentito a tutti i naufraghi, che nel frattempo avevano iniziato uno sciopero della fame, di scendere a terra. Dopo due giorni, l’8 novembre 2022 tutti i migranti sbarcavano dalla nave, a seguito della valutazione psichiatrica da parte dell’equipe medica del Servizio di salute mentale (USMAF). Anche se dopo lo sbarco di tutti i naufraghi veniva meno l’oggetto del ricorso cautelare, il Tribunale di Catania in composizione monocratica si pronuncia adesso sulla legittimità del divieto di sbarco imposto dal Ministro dell’interno, di concerto con i ministri delle Infrastrutture, e della Difesa, affermando la “soccombenza virtuale” dei ministri convenuti, condannati al risarcimento delle spese legali, alla luce delle violazioni accertate in materia di diritto internazionale dei soccorsi in mare e della normativa internazionale ed interna in materia di diritto alla protezione.
Le motivazioni che adotta il Tribunale di Catania appaiono in linea con quella giurisprudenza di merito, e di legittimità, in particolare con la sentenza della Corte di Cassazione n.6626 del 16/20 febbraio 2020 (caso Rackete) che ha stabilito la infondatezza delle accuse rivolte alla comandante della nave appartenente alla ONG Sea Watch per avere adempiuto ai doveri di soccorso in acque internazionali senza ricevere assistenza e coordinamento dalle autorità italiane, ed anche per questo motivo trovandosi costretta ad infrangere divieti di ingresso nelle acque territoriali.
Il Tribunale di Catania boccia quindi la prassi dei cd. “sbarchi selettivi”, imposta dal Viminale a novenbre dello scorso anno, ed oggi apparentemente abbandonata, affermando che la Convenzione di Amburgo del 1979 (SAR) vieta qualunque possibilità di distinguere al fine dello sbarco a terra, tra i diversi naufraghi in base alle condizioni di salute.
Si ricorda quindi la nota affermazione della Corte di Cassazione secondo cui non si può ritenere “che l’attività d isalvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “piace of safety”).
Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile».
Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) allegate alla Convenzione SAR, dispongono che il Governo responsabile per la regione SAR in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Per l’Italia, il piace of safety è determinato dall’Autorità SAR in coordinamento con il Ministero dell’Interno. Secondo le citate Linee guida, «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12). «Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative». (par. 6.13).
Il Tribunale di Catania conclude dunque per la illegittimità del decreto interministeriale del 4 novembre del 2022 perchè consentendo il salvataggio (comprensivo dell’approdo e sbarco in luogo sicuro) “solo a chi sia in precarie condizioni di salute”, contravviene il contenuto degli obblighi internazionali in materia di soccorso in mare.
2. Il Tribunale di Catania individua poi un’altro profilo di illegittimità del decreto Piantedosi del 4 novembre 2022, con riferimento al diritto dei migranti di presentare domanda di protezione internazionale. Si richiama in proposito l’art.10 ter del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98 secondo cui “Lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito.
Si richiama anche la normativa interna (decreti legislativi 25/2008 e 142/2015) ed eurounitaria (Direttiva 2013/32/UE) che non consentono alla Pubblica amministrazione, secondo quanto osserva il Tribunale di Catania, di discriminare fra i migranti in base a presupposti diversi da quelli indicati dalla legge, che impone tempi brevi per la presentazione della domanda di asilo, proprio in conisderazione della “particolare vulnerabilità di chi, socorso in mare, riesca ad approdare sul territorio di uno dei paesi membri dell’Unione”. A questa stregua, la violazione dell’obbligo di ricevere la domanda di protezione da parte di uno straniero comunque giunto alla frontiera italiana, per ragioni di soccorso, “si pone in contrasto anche con il divieto di trattamenti inumani o degradanti, previsto dall’art.3 CEDU e dell’art.4 Prot. n.4 Cedu,che sancisce il divieto di espulsioni collettive“, “nonchè integra violazione dell’art.3 CEDU per la mancanza di un rimedio effettivo riconosciuto ai ricorrenti in opposizione al respingimento automatico colletivo”. Si ricorda in proposito che l’Italia è stata condannata in precedenti occasioni dalla Corte europera dei diritti dell’Uomo, con le sentenze n. 16643 del 2014 (caso Sharifi) e n. 27765 del 2012 (caso Hirsi), per la violazione dell’art. 13 in combinato disposto con gli articoli 3 Cedu e 4 Protocollo n.4 Cedu, per non avere provveduto alla identificazione dello straniero soggetto alla sua giurisdizione ed alla sua valutazione individuale, non fornendo neppure informazione circa eventuali procedure da esperire. Alla luce di tutte queste considerazioni, il Tribunale di Catania conclude che “laddove non fosse cessata la materia del contendere, per l’avvenuto sbarco, il ricorso sarebbe stato accolto,con conseguente condanna dei Ministeri resistenti al pagamento delle spese di giudizio, da distrarsi ai difensori che hanno proposto rituale istanza”.
3. L’importanza della decisione del Tribunale di Catania va oltre la rilevanza del caso affrontato, per gli importanti principi di diritto, evidentemente ricavati dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, e dunque di portata che può andare oltre il caso concreto, principi di diritto che andrebbero tenuti presenti tanto dal legislatore, che sta affrontando la conversione in legge del Decreto legge n.1 del 2023, impropriamente titolato “sulla gestione dei flussi migratori” ma in realtà rivolto esclusivamente contro le ONG che operano attività di soccorso in acque internazionali, quanto in procedimenti penali nei quali si discute di analoghi divieti di ingresso nelle acque territoriali o di sbarco in porto.
Per quanto riguarda il Decreto legge n.1 del 2023 in corso di conversione, che segna tra l’altro l’abbandono della prassi dei cd. “sbarchi selettivi”, il richiamo al diritto internazionale ed alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo dovrebbe impedire l’approvazione di norme che rimettono alla discrezionalità dei ministri la valutazione della legittimità dei soccorsi, e sembrerebbero quasi imporre di rivolgersi per il coordinamento ad “autorità competenti” in base alla sudivisione delle zone SAR del Mediterraneo, anche nel caso di paesi che non garantiscono alcun rispetto dei diritti umani, che non prevedono procedure eque e soggiorno legale per i rchiedenti asilo, e sono ancora caraterizzati da ampie aree di convergenza tra autorità statali ed organizzazioni criminali (come nel caso della Libia, ed in diversa misura della Tunisia).
Ma è sul processo Open Arms nei confronti dell’ex ministro dell’interno Salvini (adesso ministro delle infrastrutture) che i criteri interpretativi del sistema gerarchico delle fonti normative internazionali ed eurounitarie che disciplinano il soccorso in mare, lo sbarco dei naufraghi e la proposizione delle domande di asilo, potrebbero avere l’impatto maggiore. I principi di diritto affermati dal Tribunale di Catania, peraltro già ribaditi dalla Corte di casazione nella sentenza Rackete, contraddicono punto per punto la difesa dell’imputato Salvini nel processo a Palermo.
La difesa di Salvini, sostenuta dai media più vicini, ha cercato di giustificare il rifiuto arbitrario nella indicazione del porto di sbarco e il prolungato trattenimento a bordo di Open Arms in acque nazionali, di fronte a Lampedusa, contestando le attività di ricerca e soccorso svolte al tempo dei fatti, nell’agosto del 2019, dalla nave umanitaria in acque internazionali. Da ultimo la difesa ha chiesto di utilizzare addirittura un filmato dei primi soccorsi in acque internazionali girato da un misterioso sommergibile italiano, spuntato fuori durante l’audizione del Capo dipartimento del ministero dell’interno Mancini, su circostanze del tutto ininfluenti sull’accertamento delle responsabilità dell’imputato, che aveva negato la indicazione di un porto di sbarco sicuro, in contrasto con quanto previsto dal Diritto internazionale. Ma sull’omissione degli obblighi di coordinamento che spettavano in quella circostanza a qualunque unità navale militare in acque internazionali è stata recentemente presentata, da parte del team legale di Open Arms, una denuncia alla Procura del Tribunale di Roma. Le norme europee impongono del resto precisi obblighi di intervento, per la salvaguardia della vita umana in mare, alle unità militari presenti anche in acque internazionali, pure se impegnate in attività di “law enforcement” ( contrasto delle attività criminali).
In realtà l’attacco che si cerca di portare contro la ONG Open Arms che aveva denunciato l’operato dell’ex ministro dell’interno è del tutto strumentale e cerca di spostare l’attenzione del collegio giudicante su quanto avvenuto nell’immediata serie di soccorsi dei primi gioni nei quali i naufraghi venivano salvati in acque internazionali. Ma i capi di inputazione riguardano invece il comportamento di Salvini nei giorni nei quali la nave Open Arms era ormai alla fonda di fronte Lampedusa, pienamente all’interno, con i naufraghi che venivano trattenuti a bordo, della giurisdizione italiana. Una situazione di fatto e di diritto molto simile a quella dei naufraghi soccorsi dalla Humanity 1, ormeggiata nel porto di Catania, che il Viminale voleva respingere come “carico residuale”. L’ex ministro dell’interno, infatti, è stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio e sequestro di persona per il trattenimento ingiustificato dei naufraghi a bordo ella nave, interrotto soltanto dal sequestro disposto dalla Procura di Agrigento che ordinava lo sbarco immediato che il Viminale continuava a rifiutare. Un reato che, nella prospettazione dell’accusa, si sarebbe perfezionato quando la nave si trovava in acque territoriali italiane, e qui si coglie bene il tentativo elusivo della difesa di Salvini che da mesi cerca di spostare il focus del processo su quanto avvenuto nei giorni dei primi soccorsi in acque internazionali. Si deve ricordare al riguardo che il reato di sequestro di persona non richiede un dolo specifico, essendo invero sufficiente il dolo generico “consistente nella consapevolezza di infliggere alla vittima la illegittima restrizione della sua ibertà fisica, intesa come libertà di locomozione”(Cass.Pen.,sez.V,n.19548/2013). Quali erano i reali intenti del ministro Salvini quando occupava la poltrona del Viminale e vietava l’ingresso della Open Arms nel porto di Lampedusa ? Voleva davvero costringere altri paesi europei ad accogliere quote di naufraghi, o prevaleva la finalità politica mentre il governo si incagliava su una crisi irreversibile e le elezioni anticipate sembravano una prospettiva sempre più vicina?
Di certo, il provvedimento del Tribunale di Catania e lo stesso Decreto n.1 del 2023 cancellano la tesi della competenza primaria dello Stato di bandiera nella indicazione del Place of safety, una delle principali tesi difensivaa di Salvini nel processo Open Arms a Palermo. La competenza degli Stati di bandiera non si può anteporre alle competenze degli Stati costieri richiesti di un POS e in grado di indicare un porto di sbarco nel place of safetypiù vicino. La difesa del ministro Salvini non può giustificare i divieti di ingresso in porto, dove si sarebbe dovuta concludere l’operazione di soccorso, adducendo che sarebbe toccata alla Spagna, Stato di bandiera della nave, la tempestiva indicazione di un porto di sbarco.
Secondo quanto rilevato da autorevoli esponenti della Guardia costiera italiana, in linea con le posizioni adottate fino al 2017 dai diversi governi italiani, anche se “non c’è obbligo di sbarco nel Paese di bandiera”, comunque «in questo momento l’Italia non può fare molto per il semplice motivo che gli accordi sono tutti concentrati sul Paese di primo approdo”. L’autorità SAR “competente” per il coordinamento dei soccorsi e quindi per l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro è soltanto l’autorità SAR ( dunque la Centrale di coordinamento- MRCC della Guardia costiera) di un paese che può garantire porti di sbarco sicuri. Se per “autorità competenti” dalle quali si dovrebbe attendere il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio, fino alla indicazione del porto di sbarco sicuro, non si intendono le autorità bandiera o quelle di paesi che non possono garantire place of safety (POS) o si rifiutano di offrire porti di sbarco sicuri, l’Italia, come paese di primo contatto deve garantire il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio e la indicazione di un porto di sbarco sicuro. Tanto nel caso Open Arms, come nel caso Humanity 1, dunque, tutti i naufraghi dovevano essere sbarcati in un porto italiano, nel tempo più veloce ragionevolmente possibile, ricevere informazioni adeguate sul loro stato giuridico ed avere accesso alle procedure di asilo e protezione speciale.
Anche per la Commissione Europea non esiste una competenza primaria dello Stato di bandiera nella individuazione di un porto sicuro di sbarco, che secondo le Convenzioni internazionali dovrebbe essere raggiunto “nel tempo più breve ragionevolmente possibile”, e dunque non può certo trovarsi nel paese di bandiera della nave. Quanto asseriva il Viminale ancora di recente, sulla competenza dello stato di bandiera della nave soccorritrice, che l’operato delle ONG in acque internazionali non fosse “in linea con le norme europee”, è stato smentito frontalmente da tutti gli stati europei e dalle autorità di Bruxelles, dopo che i decreti rivolti da Piantedosi alle due navi delle ONG fatte entrare nel porto di Catania all’inizio di novembre dello scorso anno, citavano un Regolamento europeo (n.1624 sel 2016) che era stato abrogato nel 2020 e linee guida internazionali dell’IMO che affermavano l’esatto opposto. In passato la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna, e la Germania avevano respinto le richieste italiane di assumere la responsabilità di coordinamento dei soccorsi per garantire lo sbarco a terra dei naufraghi in un porto indicato. dallo Stato di bandiera.
Un recente documento dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ribadisce che le procedure per la richiesta di protezione possono svolgersi soltanto dopo lo sbarco delle persone in un porto sicuro e che le richieste di asilo non possono essere inoltrate al comandante della nave, e per suo tramite allo Stato di bandiera, ma vanno indirizzate alle autorità del paese di sbarco. La questione della redistribuzione dei naufraghi, o meglio dei richiedenti asilo, verso altri paesi UE, secondo quanto previsto dal vigente Regolamento Dublino III (n.604 del 2013), o da eventuali accordi a livello europeo, non può avvenire che dopo lo sbarco a terra e la formalizzazione delle volontà individuali tendenti a richiedere uno status di protezione. Secondo quanto richiama nel suo ultimo documento l’UNHCR, al di là delle questioni legali e giurisdizionali, da un punto di vista politico e per mantenere il sostenibilità del sistema di ricerca e soccorso, “è indesiderabile a parità di tutto il resto localizzare responsabilità primaria per l’asilo senza riserve sugli Stati di bandiera. Gli Stati di bandiera dovrebbero, tuttavia, esserle pronti a partecipare a misure di ripartizione delle responsabilità insieme ad altri Stati per garantire un rapido sbarco e accesso all’asilo”.
4. A fronte di quanto affermato nel dibattimento sul caso Open Arms a Palermo dal testimone Mancini, Capo Dipartimento del Ministero dell’interno, sulla “normale” durata del trattenimento dei migranti a bordo delle navi soccorritrici, anche per una settimana, occorre ricordare le sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo, 1° settembre 2015 e 15 dicembre 2016, Khlaifia e altri c. Italia, richiamate adesso dal Tribunale di Catania, ove si è ritenuta la violazione da parte dell’Italia dell’art. 5, par. 1, CEDU (che consente la limitazione della libertà personale, per finalità di gestione del fenomeno migratorio, solo in presenza di base legale nel diritto interno) in ipotesi di trattenimento forzoso presso i centri di soccorso e di prima accoglienza (di cui all’art. 10ter t.u.). Se questo vale all’interno degli Hotspot, lo stesso principio non può non valere a bordo di navi battenti bandiera straniera ma legittimamente presenti nelle acque territoriali italiane, ormai sotto la piena giurisdizione delle autorità taliane che esercitano nei loro confronti poteri di imperio, corrispondenti all’esercizio della sovranità nazionale, nei casi di mancata indicazione di un porto di sbarco, ed a maggior maggiore nel caso di divieto di sbarco verso una nave già entrataa in porto, anche con riferimento alla peculiare situazione dei minori stranieri non accompagnati, che in base al nostro ordinamento non sono respingibili in frontiera (art.19 T.U. n.286/98). Sembra che sia proprio questa la linea interpretativa che adesso viene ripresa dal Tribunale di Catania che afferma la ilegittimità del decreto Piantedosi del 4 novembre 2022.
In base alla Costituzione italiana (art.13) ed alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo (art.5), quaunque forma di limitazione della libertà personale operata per effetto di atti amministrativi va prevista dalla legge (riserva di legge) e sottoposta a convalida giurisdizionale ( riserva di giurisdizione).E questo vale anche in tutti i casi nei quali si determina di fatto un respingimento collettivo, come adombrato nella sentenza del giudice di Catania, nel caso di rifiuto di sbarco di un gruppo di naufraghi neppure identificati, che dovrebero essere portati fuori dalle acque territoriali dal comandante della nave, che si trova però sottoposta, trovandosi in porto, o nell’immediata vicinanza di un porto, come nel caso Open Arms del 2019) sotto la piena giurisdizione italiana. E qui ricorre anche la sentenza n. 105 del 2001 della Corte Costituzionale, mai contraddetta da altre pronunce giusdizionali, nella quale si legge che “Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani.”
Deve ricordarsi al riguardo anche quanto osservava già il Tribunale dei ministri di Palermo nel caso Open Arms, quando, il senatore Salvini, con il rifiuto di concedere un porto sicuro nell’agosto 2019, avrebbe violato le convenzioni internazionali. Secono i giudici palermitani “l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati che non si esaurisce nel primo intervento di salvataggio e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica (…), assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna (l’art. 117 Cost. prevede infatti che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.”
5. In base all’art.11 comma 1 ter del D. Lgs. 286/1998 non si può vietare l’ingresso in porto di una nave che chieda di potere sbarcare naufraghi soccorsi in mare in quanto tale ipotesi configura un “passaggio inoffensivo” ai sensi dell’art.18 della Convenzione UNCLOS, e non già quella contemplata dall’art. 19 lettera g della stessa Convenzione che, nel richiamo ai “passaggi non inoffensivi”, deve riferirsi ai soli casi di immigrazione irregolare non connessi ad una operazione di soccorso in alto mare. La classificazione di un evento di ricerca e salvataggio (SAR) come evento di immigrazione clandestina, che poi è la sostanza della qualificazione come “evento migratorio”, non può permettere agli Stati costieri, ed in particolare all’Italia, di eludere gli obblighi di ricerca e soccorso imposti dalle Convenzioni internazionali. Obblighi che, come si è visto in precedenza, includono la indicazione di un porto di sbarco sicuro (POS) e il trasferimento finale dei naufraghi a terra nel più breve tempo ragionevolmente possibile. A partire dai decreti sicurezza di Salvini le autorità italiane hanno rifiutato di assegnare un Place of safety (POS) alle navi di soccorso della società civile, negando che si trattasse di veri eventi SAR (Search and Rescue), con riferimento a persone in situazione di distress, ed assegnando, nei casi in cui veniva consentito l’ingresso nelle acque territoriali, un porto di destinazione (POD) e non un porto di soccorso (POS). In modo da esporre la nave ed il suo equipaggio a successivi provvedimenti sanzionatori di natura penale ed amministrativa contestando la violazione di leggi in materia di soccorso in mare o di immigrazione.
Adesso questi divieti di sbarco risultano evidentemente illegittimi, ed anche per questa ragione il legislatore (con il Decreto n.1 del 2023) sembra orientato a diverse modalità di ostacolo delle operazioni di soccorso in acque internazionali svolte “in maniera non occasionale” dalle navi delle Organizzazioni non governative. Da qui deriva la più recente prassi di impedire soccorsi successivi e di indicare porti di sbarco più lontani possibile, in attesa che si formi in Europa una maggioranza di destra che disciplini ancora più restrittivamente le attività di ricerca e salvataggio (SAR) delle ONG. Ma queste aspettative italiane saranno deluse ancora una volta, anche se non si potrà evitare che la mistificazioni sui risultati del governo italiano in sede europea producano ulteriori vantaggi elettorali a chi si dimostra capace soltanto di inasprire la venatura identitaria delle politiche rivolte contro i migranti e chi li soccorre. Sia il Consiglio d’Europa che le Nazioni Unite hanno chiesto al governo italiano il ritiro del Decreto legge n.1 del 2023 e la sospensione degli accordi con i libici, a fronte della condizione di conclamata insicurezza nella quale vengono rigettati i naufraghi intercettati dala sedicente Guardia costiera libica, ma il governo Meloni sembra intenzionato a tirare dritto, in direzione della ulteriore violazione delle Convenzioni internazionali e dei Regolamenti europei. Con l’intervento del legislatore e con lo strumento del decreto legge si vorrebbe sovvertire l’ordine gerarchico delle fonti normative fissato dalla Costituzione e confermato da una consolidata giurisprudenza.
La tenuta della giurisdizione diventa a questo punto fondamentale, e questo vale per tutti i processi in corso, in materia di soccorsi in mare, per impedire una defintiva sconfitta del principio di realtà ed, in fondo, del carattere democratico dello Stato, basato sul rispetto degli obblighi internazionali (richiamati anche dall’art.117 della Costituzione) che garantiscono il diritto alla vita ed al soccorso. Senza distinzioni in base alle condizioni di salute dei naufraghi (salvo i casi di evacuazione medica – MEDEVAC) o alle modalità operative dei soccorsi operati dalle ONG.