Dalla Commissione europea stop ai porti chiusi ed ai fermi amministrativi, senza equivoci.

di Fulvio Vassallo Paleologo

1. Secondo quanto riferisce l’ANSA, Anitta Hipper, portavoce della Commissione Europea, rispondendo ad una domanda sulla direttiva Piantedosi, di cui in Italia non si conosce ancora l’esatta portata, ha affermato che “”La Commissione non è coinvolta né responsabile del coordinamento di tali operazioni in mare. Tuttavia, invita gli Stati e tutti gli attori coinvolti nelle operazioni di ricerca e salvataggio ad agire in modo rapido e coordinato e a rispettare le leggi pertinenti, garantendo che le persone in mare siano portate in salvo il più rapidamente possibile”.

Una posizione che stronca sul nascere il tentativo del governo italiano di riproporre la linea dei “porti chiusi”, ancora oggetto a Palermo di un procedimento penale sul caso Salvini/Open Arms.

Secondo Anita Hipper, “Le attività di ricerca e salvataggio sono un elemento chiave della gestione integrata delle frontiere europee e hanno un impatto significativo sulle politiche di migrazione e asilo dell’Ue. Il nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo includeva una proposta per un approccio più coordinato alle questioni di ricerca e salvataggio. Attraverso una raccomandazione specifica (indirizzata agli Stati membri), la Commissione ha istituito un Gruppo di contatto per la ricerca e il salvataggio nel 2021, con l’obiettivo di evitare incidenti in mare, mantenere la sicurezza della navigazione e garantire una gestione efficace della migrazione, nel pieno rispetto del diritto internazionale e dell’Ue”.

“L’obiettivo del Gruppo di contatto per la ricerca e il salvataggio è rafforzare il coordinamento e la cooperazione tra gli Stati membri, gli attori privati e le altre parti interessate nel campo della ricerca e del salvataggio, con particolare attenzione alle operazioni effettuate da imbarcazioni private”. Al riguardo la portavoce della Commissione UE afferma che “la realtà odierna è che le navi private sono impegnate in complesse operazioni di salvataggio, che riguardano un gran numero di persone, anche senza un quadro coordinato né a livello nazionale né a livello europeo”.

‘l’Italia, attualmente sottoposta a una forte pressione migratoria – ha sottolineato la portavoce – è stato il primo Paese a veder ripartire le ricollocazioni volontarie. Le prime ricollocazioni hanno avuto luogo dall’Italia, ad agosto e ottobre di quest’anno: 38 candidati si sono recati in Francia e 74 in Germania».

Come riporta il quotidiano La Sicilia, “numeri ancora bassi, secondo Roma, che nel 2022 ha dovuto farsi carico di 82mila arrivi via mare: i 112 finora ricollocati con il meccanismo europeo rappresentano dunque soltanto lo 0,1% di coloro che sono sbarcati. E’ per questo che Piantedosi ha dettato la sua linea: l’ok allo sbarco ci sarà dopo che i Paesi di bandiera delle navi avranno messo sul tavolo la disponibilità a prendersi la propria quota di migranti. Per ora da Germania e Norvegia non c’è stata però risposta alla nota verbale inviata dalla Farnesina alle ambasciate dei due Paesi.”

Quanto affermato da Bruxelles sulla rapidità dei salvataggi costituisce una smentita frontale della cd. Direttiva Piantedosi e dei provvedimenti di chiusura dei porti e di criminalizzazione dei soccorsi umanitari che il governo italiano si appresta ad adottare, provvedimenti che vanno contro le Convenzioni internazionali alle quali fa un riferimento vincolante, con la forza cogente di un regolamento comunitario, il Regolamento Frontex 656 del 2014.

Secondo il Regolamento UE n.656 del 2014,“durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo”. Tutte Convenzioni internazionali che contengono disposizioni relative alla tutela dei diritti fondamentali delle persone soccorse in mare, fino a comprendere il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro, ed una tutela rafforzata per i minori, prescrizioni vincolanti che avrebbero dovuto impedire l’assimilazione dell’attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali ad una attività di immigrazione irregolare, ad un mero “evento migratorio”.

In questo senso l’art IV della Convenzione SOLAS che fa riferimento ai casi di forza maggiore e prescrive che “Le persone che si trovano a bordo di una nave per causa di forza maggiore o in conseguenza dell’obbligo imposto al comandante di trasportare naufraghi, o altre persone, non devono essere computate, allorché si tratti di verificare l’applicazione alla nave di una qualsiasi disposizione della presente Convenzione”. I naufraghi non si possono qualificare nè passeggeri, nè “clandestini”, nè richiedenti asilo, prima del loro ingresso in un porto sicuro, nel territorio dello Stato costiero.

2. Non vi sono dunque basi legali per affermare la competenza primaria dello Stato di bandiera nella indicazione di un porto di sbarco sicuro, fatti salvi eventuali accordi su base volontaria, come si è verificato talvolta tra le autorità italiane e quelle maltesi, francesi o spagnole. La nave che opera i soccorsi può essere riyenuta come “luogo sicuro” solo per il tempo strettamente necessario per lo sbarco a terra in un place of safety (POS). Il Regolamento 656/2014 stabilisce infatti che per luogo sicuro (place of safety) debba intendersi “un luogo in cui si ritiene che le operazioni di soccorso debbano concludersi e in cui la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è minacciata, dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e possono essere definite le modalità di trasporto dei sopravvissuti verso la destinazione successiva o finale tenendo conto della protezione dei loro diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento” [art. 2, comma primo, n. 12).

In base all’art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, “Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche“. Tale obbligo è stato ribadito nel rapporto «Rescue at Sea: A Guide to Principles and Practice as Applied to Migrants and Refugees», elaborato nel 2006 dall’Imo e dall’Unhcr e sottoposto ad aggiornamento nel 2015. In tale documento viene evidenziato l’obbligo che incombe al comandante della nave che compie l’intervento di soccorso di tutelare adeguatamente i potenziali richiedenti asilo, verificando la loro presenza a bordo, comunicandola all’Unchr ed effettuando lo sbarco unicamente laddove sia possibile garantire loro adeguata protezione.

In base al punto 3.1.9 della Convenzione SAR (Search and Rescue) di Amburgo del 1979 ,”Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale) . In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile”.

3. Quando la portavoce della Commissione europea ha fatto riferimento alla circostanza che “è lo Stato di bandiera” della nave “che ha la responsabilità primaria di garantire la conformità agli standard internazionali e dell’Ue”, non significa che spetta a questo Stato garantire un porto sicuro (place of safety-POS), ma che spetta solo a questo Stato garantire la conformità agli standard internazionali e dell’Unione Europea delle navi che battono la propria bandiera.

L’art.94 della Convenzione ONU di Montego Bay (UNCLOS) è chiarissimo e non prevede per lo stato di bandiera alcun obbligo di indicare un porto di sbarco. Si prevede infatti tra gli “obblighi dello Stato di bandiera” che “ogni Stato esercita efficacemente la propria giurisdizione e il proprio controllo su questioni di carattere amministrativo, tecnico e sociale sulle navi che battono la sua bandiera”. La competenza dello Stato di bandiera si limita dunque alle questioni che riguardano i certificati e le dotazioni delle navi, e ancora requisiti tecnici, i contratti e la tutela dei lavoratori del mare che vi sono imbarcati.

Come ha affermato la Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la sentenza del 1 agosto di quest’anno che ha posto rigorosi limiti al potere degli Stati di adottare provvedimenti amministrativi di navi che avevano operato anche continuativamente attività SAR, adducendo che queste imbarvazioni non rispettassero gli standard internazionali ed europei in materia di sicurezza e dotazioni tecniche. La portavoce della Commissione europea, in conformità con quanto dichiarato dalla Corte di Giustizia sul rinvio pregiudiziali del Tribunale amministrativo di Palermo nei due casi Sea Watch 3 e Sea Watch 4, afferma al riguardo che spetta principalmente allo Stato di bandiera il controllo dei requisiti tecnici delle navi iscritte nei propri registri. Mentre nel caso di operazioni di ricerca e salvataggio, lo Stato di bandiera deve essere informato tempestivamente dal comandante della nave e deve prestare ogni assistenza possibile in collaborazione con gli Stati costieri responsabili delle diverse zone SAR (Search and Rescue). Ma in nessun caso il comandante della nave può essere obbligato a raggiungere un porto come POS (place of safety) dello Stato di bandiera, tenendosi i naufraghi a bordo, soprattutto quando si renderebbe necessario il periplo di un intero continente. Navigazione che non può certo garantire lo sbarco in tempi rapidi richiesto dalla normativa euro-unitaria, e dalle Convenzioni internaziionali, come adesso ricorda la Commissione europea.

4. Come avevamo proposto già nel 2020, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (casi C-14/21 e C-15/21) dopo il parere dell’Avvocato generale, ha individuato limiti ben precisi all’utilizzo dei fermi amministrativi disposti dalle autorità italiane, sulla base di una applicazione distorta della  Direttiva 2009/16/CE. a carico delle navi delle ONG, impegnate nelle attività di soccorso in mare.

Secondo quanto riferito dall’AGI, la Commissione europea “prende atto della decisione della Corte di giustizia dell’Ue” sul caso delle navi della ong Sea Watch sottoposte al fermo in Sicilia nell’estate del 2020 “e i procedimenti dovranno ora continuare al tribunale italiano che si è rivolto ai giudici Ue e spetterà all’Italia garantire l’applicazione della decisione”

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha demolito due dei capisaldi delle motivazioni con cui le Capitanerie di Porto su evidente indirizzo ministeriale, e con l’ausilio di una specifica squadretta di ispettori, avevano ordinato il fermo amministrativo per diversi mesi, a partire proprio da quell’anno, delle navi Sea Watch 3 e Sea Watch 4. Nel caso della Sea Watch 4 la nave era rimasta bloccata nel porto di Palermo addirittura per sei mesi, e poteva ripartire soltanto nel mese di marzo del 2021.

Per i giudici europei, e secondo la logica del diritto, non disgiunta da un minimo di umanità, non possono essere considerati “passeggeri” i naufraghi che vengono soccorsi in mare, mentre le navi delle ONG non possono essere costrette a dotarsi di ulteriori certificazioni dello Stato che è obbligato a garantire il porto di sbarco (POS), certificazioni che in passato le autorità italiane hanno invece richiesto a loro discrezione, contestando il carattere “non occasionale” delle attività di soccorso. Nel caso dell’Italia queste certificazioni non sono peraltro previste neppure dai registri del naviglio civile ed erano evidentemente frutto di richieste arbitrarie da parte delle autorità amministrative.

Secondo la Corte UE di Lussemburgo, infatti,“lo Stato di approdo non può imporre che venga provato che tali navi dispongono di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera o che esse rispettano tutte le prescrizioni applicabili a una diversa classificazione. Peraltro, nel caso in cui l’ispezione riveli l’esistenza di carenze, lo Stato di approdo può adottare le azioni correttive che ritenga necessarie. Tuttavia, queste ultime devono, in ogni caso, essere adeguate, necessarie e proporzionate. Lo Stato di approdo non può poi subordinare la revoca del fermo di una nave alla condizione che tale nave disponga di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera”.

Dopo l’ingresso della nave soccorritrice in porto e lo sbarco dei naufraghi, lo Stato italiano “può sottoporla a un’ispezione diretta a controllare il rispetto delle norme di sicurezza in mare. A tal fine, occorre però che tale Stato dimostri, in maniera concreta e circostanziata, l’esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l’ambiente”.

Nel caso delle navi delle ONG il loro fermo amministrativo puà essere dunque disposto non in modo sistematico e con motivazioni “fotocopia”, ma soltanto quando le autorità competenti provino in concreto che la loro navigazione ponga seri problemi di sicurezza. Vedremo adesso come i giudici italiani applicheranno questi principi enunciati dalla Corte di Lussemburgo, ma esiste già un buon precedente in Italia, derivante da una sentenza del Tribunale amministrativo di Palermo, da cui era scaturito il rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo.

5. Rimane comunque confermato il principio desumibile dalla Convenzione SOLAS e richiamato dall’art.2 della Direttiva 2009/16/CE, secondo cui l’idoneità al servizio per la quale la nave è “destinata” debba essere intesa in senso astratto, avuto riguardo alla tipologia di classificazione della nave, e non invece in senso concreto, avuto riguardo alla specifica tipologia di attività effettivamente espletata, che potrebbe essere variamente apprezzata da ogni autorità portuale. Non esistono a livello internazionale parametri di classificazione delle navi impiegate in attività di ricerca e salvataggio che permettano di individuare requisiti specifici da verificare in sede di ispezioni portuali (PSC). L’art.94 della Convenzione UNCLOS esclude chiaramente la possibilità che in sede di controllo lo stato di approdo possa riqualificare diversamente una nave già certificata dal proprio Stato di bandiera o ritenere non sufficiente la certificazione rilasciata da questo Stato.

In questi termini si era espresso anche il Tribunale amministrativo della regione Sicilia- Sezione di Palermo) quando aveva sospeso l’efficacia del provvedimento di fermo amministrativo adottato dalla Capitaneria di porto di Palermo nei confronti della Sea Watch 4, chiarendo che la sicurezza della navigazione è assicurata dallo Stato di bandiera e dal comandante della nave in caso di situazioni che richiedono un intervento di emergenza, sottolineando come – in ogni caso – il trasporto dei naufraghi a bordo è limitato al tempo strettamente necessario al loro sbarco in un luogo sicuro. Come riconosciuto anche dallo stesso Tribunale amministrativo siciliano che, nel caso di un’altra nave più piccola della stessa ONG, la Sea Watch 3, sospendeva la misura del fermo amministrativoin quanto “la Germania, ossia lo Stato di bandiera, non ha all’interno del proprio ordinamento giuridico alcuna disposizione relativa alla classificazione di navi private svolgenti attività cd. SAR e, quindi, all’individuazione di apposite certificazioni o di specifici requisiti per lo svolgimento di attività cd. SAR da parte di navi private; tanto è vero che, come in precedenza rilevato, il competente organo amministrativo tedesco ha rilasciato a SW3 e trasmesso apposita certificazione in ordine al riconoscimento dell’intervenuto superamento di tutte le criticità indicate da parte della Capitaneria di porto in sede di fermo, con la specificazione di ritenere conformi e adeguate le certificazioni in possesso di SW3

Nessuno potrà comunque risarcire il costo, in vite umane, del blocco delle navi umanitarie derivante dai divieti di ingresso nelle acque territoriali e dai fermi amministrativi, che di fatto hanno svuotato di mezzi di soccorso il Mediterraneo centrale, mentre gli Stati ritiravano le loro navi e, in collaborazione con l’agenzia FRONTEX, concentravano tutti i loro sforzi sulla sorveglianza aerea, non per soccorrere, ma per agevolare le intercettazioni violente da parte della sedicente Guardia costiera “libica”. Anche su questo sarebbe importante un intervento urgente della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, e della Commissione Europea, per il mancato rispetto da parte dell’Italia e di Malta del Regolamento UE n.656 del 2014, che antepone l’adempimento dei doveri di soccorso in mare ed il rispetto del principio di non respingimento a qualsiasi esigenza di “difesa dei confini” e di lotta all’immigrazione “illegale”.