Salvini sotto processo a Palermo: chi siede sul banco degli imputati ?

di Fulvio Vassallo Paleologo

1. Un processo “capovolto”

Prosegue venerdì 13 gennaio il processo di Palermo nei confronti del ministro delle infrastrutture Matteo Salvini, già ministro dell’interno nel 2019, quando nei primi giorni di agosto, vietava ripetutamente lo sbarco dei naufraghi soccorsi dalla ONG spagnola Open Arms, ferma per giorni davanti al porto di Lampedusa, fino a quando la Procura di Agrigento, dopo una ispezione a bordo, ordinava il sequestro della nave e lo sbarco a terra dei naufraghi.  il GIP del Tribunale di Agrigento disponeva successivamente la restituzione (dissequestro) della nave della Ong spagnola. osservando che “non sussistono, dopo l’evacuazione e il soccorso dei migranti, esigenze probatorie anche in considerazione del fatto che non si ascrive all’organizzazione e all’equipaggio alcuna responsabilità”. Una valutazione che in altri procedimenti nei quali si tentava di criminalizzare i soccorsi umanitari, è stata condivisa anche da diversi Tribunali e dalla Corte di Cassazione.

Nel corso della prossima udienza saranno sentiti a Palermo Giuseppe Conte, che all’epoca dei fatti, fra il 14 e il 16 agosto 2019, aveva chiesto invano a Salvini di fare sbarcare i 27 minori non accompagnati della “Open Arms, Luigi Di Maio, e Luciana Lamorgese, che, poco tempo dopo il suo insediamento, sostituiva la politica dei divieti di ingresso nelle acque territoriali con la prassi dei fermi amministrativi. Una prassi che, nel “blocco” sistematico delle navi umanitarie per controlli nei porti di sbarco (PSC), si è dimostrata anche più “efficace” dei decreti sicurezza e dei divieti di ingresso imposti da Salvini, ma che è stata fortemente ridimensionata dalla Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea dell’1 agosto dello scorso anno.

Secondo la Corte di Giustizia di Lussemburgo, non possono essere considerati “passeggeri” i naufraghi che vengono soccorsi in alto mare, e le navi delle ONG non possono essere costrette a dotarsi di ulteriori certificazioni dello Stato costiero di approdo, che è obbligato a garantire a conclusione dei soccorsi il porto di sbarco sicuro (POS), certificazioni che in passato le autorità italiane hanno invece richiesto a loro discrezione. Nel caso dell’Italia queste certificazioni non sono peraltro previste neppure dai registri del naviglio civile e nei confronti di navi battenti bandiera straniera sarebbero oggetto di richieste arbitrarie da parte delle autorità amministrative italiane. Queste considerazioni provenienti dai giudici di Lussemburgo privano di basi legali la qualificazione degli eventi di soccorso, data dalle stesse autorità italiane, come “eventi migratori” nei quali si realizzerebbe il “trasporto di persone”, e dunque il loro ingresso nelle acque territoriali, in violazione delle leggi in materia di immigrazione. Vero è invece il contrario, come è confermato dall’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione, che prevede lo sbarco delle persone entrate nel territorio nazionale “per ragioni di soccorso” con il trasferimento immediato negli appositi “punti di crisi”, definiti centri Hotspot.

Occore ricordare a questo punto che, oltre le sentenze della Corte di Giustizia, anche i Regolamenti europei hanno valore vincolante per tutte le autorità italiane e per il Parlamento nazionale, oltre che per i singoli ministri. In materia di soccorsi in mare. Il Regolamento europeo Frontex n.656 del 2014, oltre a imporre criteri sulle modalità delle operazioni di ricerca e soccorso e sulla loro conclusione, rende vincolanti le Convenzioni internazionali del mare e la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Queste norme non si possono dunque definire di soft-law, e non sono derogabili per finalità politiche dalle autorità nazionali, ma limitano di fatto la sovranità nazionale e lo stesso principio, invocato da Salvini nel corso del processo di Palermo, della difesa dei confini. In ogni caso deve prevalere il superiore valore della salvaguardia della vita umana in mare. Secondo il Considerando 8 del Regolamento n.656 del 2014, quindi secondo una fonte normativa europea primaria, “durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della convenzione europea per la salvaguar dia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti“.

Per quanto riguarda in particolare la Convenzione di Amburgo (SAR) per la salvaguardia della vita umana in mare del 1971, al punto 3.1.7 dell’Annesso alla Convenzione, si prevede che “Ciascuna Parte dovrebbe autorizzare i propri centri di coordinamento di salvataggio a fornire, su richiesta, l’assistenza ad altri centri di coordinamento di salvataggio ed in particolare a mettere a loro disposizione navi, aeromobili, personale o materiale”.

Secondo il punto 3.1.9 delll’Annesso, «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve empo ragionevolmente possibile».

La difesa di Salvini, sostenuta dai media più vicini, ha cercato di giustificare il rifiuto arbitrario nella indicazione del porto di sbarco e il prolungato trattenimento a bordo di Open Arms in acque nazionali, contestando le attività di ricerca e soccorso svolte al tempo dei fatti, nell’agosto del 2019, dalla nave umanitaria in acque internazionali. Da ultimo la difesa ha chiesto di utilizzare addirittura un filmato dei primi soccorsi in acque internazionali girato da un misterioso sommergibile italiano, spuntato fuori durante l’audizione del Capo dipartimento del ministero dell’interno Mancini, su circostanze del tutto ininfluenti sull’accertamento delle responsabilità dell’imputato, che aveva negato la indicazione di un porto di sbarco sicuro, in contrasto con quanto previsto dal Diritto internazionale. Ma sull’omissione degli obblighi di coordinamento che spettavano in quella circostanza a qualunque unità navale militare in acque internazionali è stata recentemente presentata, da parte del team legale di Open Arms, una denuncia alla Procura del Tribunale di Roma. Le norme europee impongono del resto precisi obblighi di intervento per la salvaguardia della vita umana in mare, alle unità militari presenti anche in acque internazionali, pure se impegnate in attività di “law enforcement” ( contrasto delle attività criminali).

Il Conisiderando 15 del Regolamento Frontex n.656 del 2014, stablisce che “Gli Stati membri dovrebbero ottemperare all’obbligo di prestare assistenza alle persone in pericolo conformemente alle pertinenti disposizioni degli strumenti internazionali che disciplinano le situazioni di ricerca e soccorso e ai requisiti relativi al rispetto dei diritti fondamentali. Il presente regolamento non dovrebbe pregiudicare gli obblighi delle autorità preposte alla ricerca e al soccorso, compreso quello di assicurare che il coordinamento e la coo perazione siano effettuati secondo modalità che consentono alle persone tratte in salvo di essere trasferite in un luogo sicuro. Finalità che certamente esulava dal comportamento del comando del sommergibile italiano che, presente in zona anche all’insaputa del ministro della difesa Trenta, si limitava a filmare la scena dei soccorsi per “incastrare” la nave soccorritrice, in base ad una erronea valutazione delle condizioni di navigabilità del natante soccorso, piuttosto che attivare prontamente i soccorsi avviando le attività di coordinamento imposte dalle Convenzioni internazionali e dal Piano SAR nazionale del 1996.

Nel corso delle udienze dibattimentali sembra così svanire il principale capo di accusa a carico dell’imputato, il senatore Salvini, che è stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio e sequestro di persona. Un reato che, nella prospettazione dell’accusa, si sarebbe perfezionato quando la nave si trovava in acque territoriali italiane, e qui si coglie bene il tentativo elusivo della difesa di Salvini che da mesi cerca di spostare il focus del processo su quanto avvenuto nei giorni dei primi soccorsi in acque internazionali. Si deve ricordare al riguardo che il reato di sequestro di persona non richiede un dolo specifico, essendo invero sufficiente il dolo generico “consistente nella consapevolezza di infliggere alla vittima la illegittima restrizione della sua ibertà fisica,intesa come libertà di locomozione”(Cass.Pen.,sez.V,n.19548/2013). Quali erano i reali intenti del ministro Salvini quando occupava la poltrona del Viminale e vietava l’ingresso della Open Arms nel porto di Lampedusa ? Voleva davvero costringere altri paesi europei ad accogliere quote di naufraghi, o prevaleva la finalità politica mentre il governo si incagliava su una crisi irreversibile e le elezioni anticipate sembravano una prospettiva sempre più vicina? Di tutto questo sembra che al processo Salvini-Open Arms non si debba parlare, ed i diversivi messi in atto dalla difesa hanno fin qui permesso di capovolgere il ruolo delle parti processuali e di mettere sotto accusa i comportamenti della ONG Open Arms per la condotta delle operazioni di soccorso in acque internazionali.

2. La falsa giustificazione del Tavolo tecnico interministeriale del 2019. Le determinazioni amministrative non prevalgono sulle convenzioni internazionali per effetto degli articoli 10 e 117 della Costituzione

Non si può ritenere che a seguito del “Tavolo tecnico” tenutosi presso il Ministero dell’interno del 12/2/2019, a differenza di quanto previsto in passato, il rilascio di un porto sicuro di sbarco, per cui si indicava la competenza del ministero dell’interno, fosse consentito “soltanto dopo che si fossero attivate le interlocuzioni con la Commissione Europea per la redistribuzione dei migranti tra i vari paesi dell’UE”. A questo proposito, in numerose dichiarazioni pubbliche lo stesso Salvini aveva riconosciuto che il trattenimento dei naufraghi a bordo della Open Arms avrebbe dovuto costituire un’arma di pressione per vincere le resistenze di altri paesi europei nella redistribuzione dei migranti. Metodo di “persuasione”, o di “trattativa”, da sempre respinto dall’Unione Europea, anche con la bocciatura del cd. preaccordo di Malta del settembre 2019, evocato dalla difesa ma comunque successivo ai fatti oggetto del processo di Palermo.

3. Perchè è falso affermare che le attività di soccorso svolte senza il coordinamento di uno Stato richiesto che non risponde giustificherebbero il divieto di sbarco nel porto sicuro più vicino

Secondo le linee guida emanate dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), agenzia delle Nazioni unite, si prevede che il primo Comando centrale di Guardia costiera (MRCC) che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R.ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR –Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004). Secondo l’ Annesso alla Convenzione SAR del 1979 Paragrafo 3.1.9 – Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile. Se le autorità marittime e politiche degli Stati costieri non rispondono alle richieste di coordinamento dei soccorsi loro rivolte dai comandanti delle navi, la prosecuzione delle attività di soccorso delle navi delle ONG in acque internazionali, ed eventuali successivi trasbordi, non violano alcuna Convenzione internazionale, e tantomeno, per difetto di giurisdizione, alcuna norma dell’ordinamento nazionale. Viene in rilievo semmai, in questi casi, una precisa responsablità delle stesse autorità degli Stati costieri per omissione di soccorso e rifiuto ingiustificato di atti di ufficio, quando ignorano le richieste di coordinamento o le smistano sulle autorità di paesi come la Libia e la Tunisia, che secondo i parametri delle Convenzioni internazionali non possono offrire porti sicuri di sbarco (place of safety). Si tratta infatti di paesi che non garantiscono una effettiva attuazione della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, ed eseguono operazioni di trattenimento arbitario e di respingimento collettivo anche a danno di potenziali richiedenti asilo.

4. Perchè in acque internazionali non esiste un divieto di soccorsi successivi

Nessuno Stato costiero può vietare i soccorsi multipli, soprattutto se le autorità marittime nazionali sono avvertite tempestivamente, come nel caso dell’Italia, delle attività di salvataggio in acque internazionali delle ONG, ma poi, come avvenuto nel caso Open Arms oggetto del processo di Palermo, non comunicano immediatamente di assumere il coordinamento delle attività SAR, continuando a negare la ricorrenza di una situazione di distress o nascondendosi dietro i conflitti di competenza con Malta o dietro la responsabilità SAR delle autorità libiche. Prassi costantemente seguite dalle autorità italiane ai tempi del governo giallo-verde, dal 2018 al 2019. Queste prassi delle autorità italiane risultano in contrasto con le Convenzioni internazionali, vincolanti nel nostro paese per effetto del richiamo che ne fa l’art.117 della Costituzione. E quindi non possono essere invocate dalla difesa dell’imputato Salvini sotto processo a Palermo.

Secondo l’art. 9 del Regolamento europeo n. 656 del 2014, “gli Stati membri osservano l’obbligo di prestare assistenza a qualunque natante o persona in pericolo in mare e durante un’operazione marittima assicurano che le rispettive unità partecipanti si attengano a tale obbligo, conformemente al diritto internazionale e nel rispetto dei diritti fondamentali, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica dell’interessato o dalle circostanze in cui si trova”. Sono dunque gli Stati membri e non le ONG i principali soggetti obbligati ad adempiere agli obblighi di soccorso, tanto nelle acque del mare territoriale, quanto in acque internazionali, altrimenti definite “alto mare”. Se gli Stati ritirano i loro assetti di soccorso dalle acque internazionali non possono imporre limiti alle attività di ricerca e salvataggio, operate in queste stesse acque, da navi inviate dalla società civile che svolgono attività di ricerca e salvataggio in modo continuativo.

In acque internazionali gli stati costieri al di fuori delle zone SAR di propria competenza non possono imporre alle navi umanitarie obblighi di notifica che non siano già previsti dalle Convenzioni internazionali. Le navi che compiono soccorsi “non occasionali”, le navi delle ONG, sono le uniche a salvare vite che altrimenti potrebbero perdersi, in assenza degli assetti militari statali, e per questa ragione non si possono disapplicare, solo a loro danno, e a danno delle persone che potrebbero salvare, norme poste alla salvaguardia della vita umana in mare. Non si può ordinare a queste stesse navi civili e soltanto a loro, di abbandonare la scena dei soccorsi, magari in situazioni in cui è nota la presenza di altre imbarcazioni da soccorrere. In caso di altri soccorsi che si rendano necessari, per salvaguardare la vita umana in mare è lecito, anzi doveroso, che il comandante della nave provveda ai soccorsi ulteriori, senza curarsi dell’eventuale ritardo nel raggiungimento del porto di sbarco sicuro, ammesso che giunga una indicazione in tal senso da parte dello Stato costiero.

Quanto deciso recentemente con il Decreto legge n.1 del 2023, sull’obbligho del comandante della nave civile che opera un soccorso in acque internazionali di chiedere immediatamente il coordinamento SAR ad una autorità marittima di uno Stato costiero,che si individua anche nello Stato italiano, se appare di dubbia legittimità con riferimento ai parametri costituzionali ed internazionali, per quanto concerne il divieto di soccorsi successivi, riconosce tuttavia un obbligo di coordinamento da parte dello Stato richiesto, che non può essere evidentemente nè la Libia, nè la Tunisia, nè Malta, obbligo di coordinamento che smentisce uno dei principali assunti della difesa del ministro Salvini nel processo di Palermo. Che sosteneva a spada tratta la competenza primaria dello Stato di bandiera della nave. E non si potrà certo parlare in questo caso di disposizioni non retroattive, perchè non costituiscono altro che una parziale, e talora distorta, applicazione del diritto internazionale e di Regolamenti europei già vigenti al tempo della vicenda del blocco del porto di Lampedusa nell’agosto del 2019. Anche il governo Meloni, con un suo decreto legge, ha dovuto ammettere principi basilari sui soccorsi in mare derivanti dal diritto internazionale, come la responsabilità degli Stati costieri richiesti della indicazione di un place of safety (POS) per lo sbarco, che invece i divieti di ingresso frapposti da Salvini alle richieste di un porto sicuro di sbarco da parte di Open Arms, nel caso oggetto del processo di Palermo, contraddicevano in modo frontale,con gravi conseguenze sulle condizioni di trattenimento dei naufraghi a bordo.

5. Perchè non si può giustificare il trattenimento arbitario a bordo della Open Arms con la responsabilità primaria dello Stato di bandiera nella indicazione di un porto di sbarco.

La competenza degli Stati di bandiera non si può anteporre alle competenze degli Stati costieri richiesti di un POS e in grado di indicare un porto di sbarco nel place of safetypiù vicino. La difesa del ministro Salvini non può giustificare i divieti di ingresso impartiti alla Open Arms nel caso oggetto del processo di Palermo, adducendo che sarebbe toccata alla Spagna, Stato di bandiera della nave, la tempestiva indicazione di un porto di sbarco.

Secondo quanto rilevato da autorevoli esponenti della Guardia costiera italiana, in linea con le posizioni adottate fino al 2017 dai diversi governi italiani, anche se “non c’è obbligo di sbarco nel Paese di bandiera”, comunque «in questo momento l’Italia non può fare molto per il semplice motivo che gli accordi sono tutti concentrati sul Paese di primo approdo”. L’autorità SAR “competente” per il coordinamento dei soccorsi e quindi per l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro è soltanto l’autorità SAR ( dunque la Centrale di coordinamento- MRCC della Guardia costiera) di un paese che può garantire porti di sbarco sicuri. Se per “autorità competenti” dalle quali si dovrebbe attendere il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio, fino alla indicazione del porto di sbarco sicuro, non si intendono le autorità bandiera o quelle di paesi che non possono garantire place of safety (POS) o si rifiutano di offrire porti di sbarco sicuri, l’Italia, come paese di primo contatto deve garantire il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio e la indicazione di un porto di sbarco sicuro.

6. Perchè la Libia e la Tunisia non possono garantire “place of safety”(POS) dove sbarcare i naufraghi soccorsi in acque internazionali

E’stato ormai accertato in diversi procedimenti penali, conclusi con l’archiviazione delle accuse contro le ONG, come gli Stati costieri della sponda sud del Mediterraneo e Malta rifiutino di assegnare un porto di sbarco sicuro, anche ammesso che i loro porti di attracco possano essere considerati sicuri per i naufraghi soccorsi in acque internazionali, quando gli interventi di ricerca e salvataggio (SAR) si sono svolti al di fuori delle loro acque territoriali, che hanno estensione molto più ridotta (12 miglia dalla costa) delle enormi zone SAR che si sono attribuiti nel tempo. Le autorità marittime libiche, al pari di quelle tunisine o maltesi rifiutano di fare entrare nelle loro acque territoriali navi civili che abbiano svolto attività SAR senza ottenere, malgrado reiterate richieste, alcun coordinamento statale. Allo stesso modo, per evitare obblighi di intervento, o di successivo sbarco nel territorio nazionale, le autorità italiane rifiutano generalmente di assumere il coordinamento dei soccorsi al di fuori della zona SAR che si è riconosciuta il nostro Paese. Esiste tuttavia, in base alle Convenzioni internazionali, un preciso dovere di intervento e di coordinamento dei soccorsi a carico dello Stato contattato o informato dell’evento di soccorso (Stato di primo contatto), quando gli Stati che sarebbero competenti in base alla ripartizione delle zone SAR in acque internazionali, registrata presso l’IMO di Londra, non assumono il coordinamento degli interventi di salvataggio o comunicano di non avere mezzi da inviare a distanze tanto elevate da rendere del tutto inefficaci le risposte alle chiamate di soccorso.

La difesa di Salvini, andando fuori dal tema del processo di Palermo, ma autorizzata dal presidente del Tribunale, ha lungamente insistito, nell’interrogatorio della Capo-missione di Open Arms, sulla circostanza che l’evento di soccorso del primo agosto 2019 non fosse “coordinato” dalle autorità italiane che pure erano state tempestivamente avvertite. Occorre ricordare a tale riguardo che in base al diritto internazionale, a prescindere dall’assunzione o meno del coordinamento – lo Stato costiero non possa in ogni caso rifiutare lo sbarco in quanto, anche con specifico riferimento alla situazione in Libia e in Tunisia, che non sono qualificabili “paesi terzi sicuri”, come conferma la Corte di Cassazione nel caso Vos Thalassa. Alla stregua di questa giurisrudenza, il prolungato divieto di ingresso nelle acque territoriali, come l’intimazione a lasciare le acque territoriali nelle quali la nave già si trova, potrebbe costituire un caso di respingimento collettivo, vietato dall’art. 4 Protocollo n. 4 alla CEDU come interpretato dalla Corte EDU nella pronuncia Hirsi e altri c. Italia.

Sul punto si è espresso in modo inequivocabile il Tribunale di Napoli, condannando il comandante del rimorchiatore italiano ASSO 28, che dopo avere effettuato un soccorso in acque internazionali aveva effettuato lo sbarco dei naufraghi in un porto libico, con le note conseguenze che poi queste persone avrebbero subito appena riprese dai miliziani libici. Si dovrebbe dunque affermare, in capo ai naufraghi soccorsi in acque internazionali, seppure nella zona SAR, impropriamente attribuita al governo provvisorio di Tripoli, che ancora oggi non è neppure rappresentativo dell’intera Libia, un diritto allo sbarco in un place of safety (POS)di nello Stato costiero europeo più vicino, almeno per consentire la presentazione delle domande di protezione internazionale in conformità alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. Sono queste le ragioni che nel mese di agosto del 2019 inducevano il comandante della Open Arms a chiedere un porto di sbarco sicuro all’Italia, per tutti i naufraghi che aveva soccorso in tre distinte operazioni in acque internazionali, al di fuori della zona SAR italiana, e sono queste le ragioni che di converso rendono ingiustificato il rifiuto di Salvini nella indicazione del porto di sbarco sicuro, anche in considerazione del fatto che la nave umanitaria, dopo la sospensione del divieto di ingresso pronunciata dal Tar Lazio si trovava legittimamente davanti al porto di Lampedusa in condizioni che non le permettevano di raggiungere altro porto di sbarco, come successivamente accertato dalla Procura di Agrigento che, dopo una ispezione, procedeva al sequestro della nave per fare scendere a terra i naufraghi ancora bloccati a bordo.

Come ricorda la Corte di cassazione con la sentenza n. 6626, 16/20 gennaio 2020, al fine della individuazione del cd. Place of safety (POS) “è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui “la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un sicuro criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”. Il mero recupero a bordo della nave soccorritrice delle persone in pericolo o dei naufraghi, non determina dunque la conclusione delle operazioni S.A.R., perché le operazioni possono considerarsi terminate solo con lo sbarco di dette persone in un luogo sicuro (place of safety o P.O.S.)

Il Tribunale di Agrigento, dopo la pronuncia della Corte di Cassazione del 16/20-2-2020, ha archiviato definitivamente le accuse contro Carola Rackete escludendo la competenza primaria dello Stato di bandiera nella indicazione di un porto sicuro di sbarco (POS). Una conferma di quanto già deciso nel 2019 dal Giudice delle indagini preliminari di Agrigento. 

I divieti di ingresso nei porti italiani dopo azioni di ricerca e soccorso sono dunque privi di fondamento giuridico. Le navi di soccorso non possono essere considerate a tempo jndeterminato come “place of safety” temporaneo, magari per trattative a livello UE o per la mancanza di posti nei sistemi di prima accoglienza.

7. Perchè è falso affermare che la mancata risposta alla richiesta di coordinamento dei soccorsi e di indicazione di un porto di sbarco escluderebbe la responsabilità dello Stato costiero rischiesto. La mancata adesione di Malta agli emendamenti alla Convenzione SAR del 2004.

Secondo le Convenzioni internazionali gli Stati costieri hanno l’obbligo di organizzare e mantenere un “servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima” (articolo 92.2 UNCLOS) e l’autorità marittima che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio “deve immediatamente provvedere al soccorso” o, se non può intervenire direttamente, coordinando le unità più vicine all’evento di soccorso,, deve “darne avviso ad altre autorità che possano utilmente intervenire” (articolo 69 del codice della navigazione).

Nelle sue linee applicative il Piano SAR italiano del 2009, come il successivo piano adottato nel 2020, fa riferimento alle metodologie tecnico-operative di ricerca e soccorso contenute nel manuale IAMSAR adottato dall’ Imo nel 1999 ed alla Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione SOLAS) che obbliga il comandante di una nave che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione [Capitolo V, Regola 33(1)]. Spetta poi ai governi ed alle relative autorità marittime e militari, in particolare ai Centri di Coordinamento del soccorso il completamento degli obblighi posti a carico dei comandanti delle navi in mare, assicurando nelle rispettive aree di responsabilità S.A.R.un’efficiente organizzazione dei servizi di ricerca e salvataggio (Marittime Rescue Coordination Centre o M.R.C.C.), in grado di gestire le comunicazioni di emergenza e di coordinare le operazioni in modo tale da garantire il salvataggio delle persone ed il loro sbarco in un luogo sicuro Lo stesso principio è poi specificato dal paragrafo 3.6.1 del Manuale IAMSAR, Vol. 1, dove si prevede che un RCC (Rescue Coordination Center) dopo la ricezione di una chiamata di soccorso, diventa responsabile nella gestione delle relative operazioni SAR, fino a quando altra autorità competente non assuma il coordinamento.

Non si può tuttavia cotinuare a ripetere, come fa la difesa di Salvini ad ogni udienza, che i migranti soccorsi nella zona SAR maltese avrebbero dovuto essere sbarcati a Malta, magari con quelli soccorsi in precedenza nella cd. zona SAR “libica”. Su questo, nel corso di precedenti udienze dibattimentali, ha già testimoniato, non senza qualche contraddizione, il capo della Guardia costiera italiana. L’ammiraglio Liardo ha smascherato, forse senza rendersene pienamente conto, il gioco sporco fatto nell’agosto del 2019 dalle autorità italiane e maltesi sulla pelle dei naufraghi raccolti dalla Open Arms. Che Open Arms non abbia chiesto il porto di sbarco a Malta, dopo i due soccorsi effettuati nella zona SAR maltese, come ha affermato la difesa, non corrisponde al vero. Il governo di La Valletta aveva dato una disponibilità soltanto per una piccola parte dei naufraghi, negandola per quelli soccorsi nei primi due salvataggi. Quanto dichiarato a SIT (sommarie informazioni testi) al Tribunale dei ministri da altri esponenti della Guardia costiera e della Guardia di finanza confermavano quanto dichiarato dal comandante di Open Arms circa il rischio che si sarebbe corso, e che avrebbero corso le persone, già esasperate dopo due settimane di attesa in mare senza la indicazione di un porto di sbarco sicuro da parte dei governi italiano e maltese, se fosse stato proposto loro soltanto lo sbarco di una parte a Malta.

Malta non ha ratificato l’emendamento alla Convenzione SAR di Amburgo contenuto nella Risoluzione IMO 167-78 del 2004 e dunque non può essere consderata come un paese al quale il comandante della nave che effettua un salvataggio nella vastssima zona SAR attribuita alle autorità di La Valletta, possa essere obbligato a rivolgersi per chiedere coordinamento di soccorsi operati in acque internazionali o l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro. La risposta negativa da parte delle autorità di La Valletta, nel caso di soccorsi operati dalle ONG è infatti scontata, come non si può dimenticare il rifiuto frapposto dalle autorità maltesi nel 2020 allo sbarco dei naufraghi della Maersk Ethienne, tenuti a bordo della nave ben 37 giorni, prima che in presenza di uno stato di necessità evidente, fossero trasbirdati sul rimorchaitore Mare Ionio della ONG Mediterranea e portati a terra. Il processo ancora aperto a Ragusa e le speculazioni che ha alimentato contro i soccorsi umanitari sono da mettere in relazione con una interpretazione distorta delle norme internazionali, come se la nave soccorritrice potesse costituire un place of safety a tempo ondeterminato, in assenza del coordinamento tra gli Stati costieri limitrofi nella indicazione di un porto di sbarco sicuro. Eppure che Malta non potesse garantire un porto di sbarco sicuro era ben noto da tempo ai vertici delle autorità marittime italiane, e non poteva dunque essere ignorato dal ministro dell’interno.

Come ricordava nel 2019 l’ Ammiraglio Liardo, in una audizione parlamentare, “Riguardo allo specifico scenario del Mediterraneo Centrale, occorre rilevare che ad oggi (2019) l’unico Stato che pur avendo provveduto a ratificare la convenzione SAR del 1979, non ha tuttavia dichiarato formalmente la sua specifica area di responsabilità SAR rimane solo la Tunisia; l’Egitto che invece non ha ratificato la Convenzione di Amburgo si è però dotata di una organizzazione SAR ed ha dichiarato una propria regione di responsabilità ai fini della ricerca e del soccorso marittimo. La Libia ha ratificato la Convenzione ed ha formalmente dichiarato la propria area di responsabilità SAR il 14 dicembre 2017. Tale area di responsabilità è stata riportata sul Global Integrated Shipping Information System (GISIS) dell’International Maritime Organization11 (IMO), il 27 giugno 2018” .In quell’occasione lo stesso LIARDO affermava che “Ovviamente, non avendo tutti gli Stati costieri ratificato la convenzione, né provveduto ad organizzare una propria specifica organizzazione S.A.R., allo scopo sempre di tutelare il principio di integrità dei servizi S.A.R., le discendenti linee guida emanate dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) un’agenzia delle Nazioni unite, in base a quanto espressamente previsto dalle citate convenzioni, prevedono che il primo MRCC che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R. ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Ciò almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR – Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004). Ciò determina la certezza, per ciascun navigante, di individuare l’Autorità responsabile per il soccorso della vita umana in mare”. In quell’occasione l’Ammiraglio LIARDO aggiungeva che “L’obbligo del S.A.R. prescinde dai limiti della piena giurisdizione marittima di uno Stato costiero (non è neppure limitato, alla specifica area di responsabilità S.A.R., che comunque non è un’area di giurisdizione e, pertanto, si estende di norma ben oltre le acque territoriali e l’eventuale zona contigua), mentre l’attività di polizia, “law enforcement”, al di fuori delle acque territoriali è soggetta a ben precisi limiti, stabiliti dalla normativa nazionale e nel rispetto di quella internazionale. La conseguenza pratica di ciò è che se un’imbarcazione carica di migranti localizzata al di fuori delle acque territoriali di uno Stato costiero è ritenuta versare in una situazione di potenziale pericolo (caso S.A.R.), scatta l’obbligo di immediato intervento e, quindi, del successivo trasporto a POS delle persone soccorse.

Il governo maltese ha stretto da tempo accordi (MoU) che prevedono l’ingresso delle motovedette libiche nella sua vasta zona SAR e non accetta i naufraghi soccorsi dalle ONG in acque internazionali, garantendo loro un porto di sbarco sicuro. Come sarebbe obbligato a fare in base alle Convenzioni internazionali, in quanto Stato resposabile della zona SAR che gli viene riconosciuta. Lo stesso governo omette sistematicamente le attività di coordinamento delle attività SAR in questa vasta zona che, per ragioni storiche ed economiche, si è attribuita da tempo, ed ha anche utilizzato mezzi privati con base a Malta per effettuare respingimenti in Libia, come è emerso drammaticamente nel 2020 in occasione della strage di Pasquetta 2020. Le inchieste giornalistiche hanno svelato che anche in occasione di quella strage erano coinvolti personaggi legati ad organizzazioni criminali che agivano in acque internazionali operando respingimenti collettivi per conto del governo. Persino il difensore dei diritti umani nominato all’interno dell’agenzia FRONTEX ha criticato severamente queste prassi.

8. Perchè risulta infondata la difesa che accusa Open Arms di non avere fatto rotta verso la Spagna, paese di bandiera della nave

Sembra pure pretestuosa la ricorrente affermazione della difesa del senatore Salvini, secondo cui la Open Arms, anche dopo l’ingresso nelle acque territoriali italiane, avrebbe dovuto fare rotta verso la Spagna, in quanto questo paese, di cui la nave soccorritrice batteva bandiera, dopo settimane di trattative, avrebbe indicato un porto di sbarco sicuro. La prima disponibilità ad indicare un POS dalla Spagna, infatti arrivava solo il 18 agosto 2019, quando la Open Arms si trovava già da tre giorni alla fonda davanti il porto di Lampedusa,, quattro giorni dopo che il Tribunale amministrativo del Lazio sospendeva il divieto di ingresso disposto dal Viminale e due giorni dopo l’apertura delle tutele dei minori stranieri non accompagnati, da parte del Tribunale dei minori di Palermo. Quindi tutte le persone soccorse a bordo dela Open Arms erano evidentemente sotto la giurisdizione delle autorità italiane. Risultano inoltre agli atti del processo le dichiarazioni di altri esponenti della Guardia costiera italiana e della Guardia di finanza che confermano che la Open Arms in quegli stessi giorni non era in grado di spostarsi da Lampedusa ad un porto spagnolo, oltre che per le condizioni del mare, anche per la situazione di estremo disagio psico-fisico dei naufraghi.

Dalle indagini svolte dal Tribunale dei ministri di Palermo emergeva che “il POS (indicato ad Algeciras ovvero, successivamente alle osservazioni trasmesse dalla Guardia Costiera italiana, presso le Isole Baleari) offerto dalla Spagna – peraltro solo in data 18.8.2019, quando la nave si trovava già da tre giorni alla fonda in prossimità delle coste di Lampedusa – non rispondeva, già in astratto, alle esigenze tutelate dalla normativa internazionale; in base al par. 6.18 della Risoluzione MSC 167-78, infatti, la nave soccorritrice ha diritto di ottenere l’autorizzazione allo sbarco dei migranti in un luogo che implichi il minimo disagio per la nave stessa, gravando specularmente sui responsabili l’obbligo di tentare di organizzare delle alternative ragionevoli per questo scopo (v. par. 6.13 ris. cit, secondo cui la nave deve essere comunque sollevata da questa responsabilità non appena possono essere presi accordi alternativi); sotto questo profilo, sia il porto di Algeciras, ubicato addirittura sullo stretto di Gibilterra, che quello di Palma di Maiorca, nelle Isole Baleari, distante circa 590 miglia nautiche da Lampedusa, erano entrambi troppo lontani dalla posizione della nave per poter essere considerati idonei a salvaguardare le esigenze in rilievo”.

Una nave che interviene per fornire soccorso non può essere considerata come “place of safety”,per un tempo tanto prolungato da mettere a rischio i diritti fondamentali della persona, o da determinare trattamenti inumani o degradanti, in quanto essa non è dotata dei servizi e dell’equipaggiamento adatti per assistere a tempo indeterminato ed in maniera adeguata le persone soccorse. Per tale ragione: “even if a ship is capable of safely accommodating the survivors and may serve as a temporary place of safety, it should be relieved of this responsibility as soon as alternative arrangements can be made. A place of safety may be on land, or it may be aboard a rescue unit or other suitable vessel or facility at sea that can serve as a place of safety until the survivors are disembarked to their next destination” (par. 6.13 e 6.14 delle Linee guida contenute nella Risoluzione MSC 167-78,).

Anche per la Commissione Europea non esiste una competenza primaria dello Stato di bandiera nella individuazione di un porto sicuro di sbarco, che secondo le Convenzioni internazionali dovrebbe essere raggiunto “nel tempo più breve ragionevolmente possibile”, e dunque non può certo trovarsi nel paese di bandiera della nave. Quanto asseriva il Viminale ancora di recente, sulla competenza dello stato di bandiera della nave soccorritrice, che l’operato delle ONG in acque internazionali non fosse “in linea con le norme europee”, è stato smentito frontalmente da tutti gli stati europei e dalle autorità di Bruxelles, dopo che i decreti rivolti da Piantedosi alle due navi delle ONG fatte entrare nel porto di Catania all’inizio di novembre dello scorso anno, citavano un Regolamento europeo (n.1624 sel 2016) che era stato abrogato nel 2020 e linee guida internazionali dell’IMO che affermavano l’esatto opposto. In passato la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna, e la Germania avevano respinto le richieste italiane di assumere la responsabilità di coordinamento dei soccorsi per garantire lo sbarco a terra dei naufraghi in un porto indicato. dallo Stato di bandiera.

Un recentissimo documento dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ribadisce che le procedure per la richiesta di protezione possono svolgersi soltanto dopo lo sbarco delle persone in un porto sicuro e che le richieste di asilo non possono essere inoltrate al comandante della nave, e per suo tramite allo Stato di bandiera, ma vanno indirizzate alle autorità del paese di sbarco. La questione della redistribuzione dei naufraghi, o meglio dei richiedenti asilo, verso altri paesi UE, secondo quanto previsto dal vigente Regolamento Dublino III (n.604 del 2013), o da eventuali accordi a livello europeo, non può avvenire che dopo lo sbarco a terra e la formalizzazione delle volontà individuali tendenti a richiedere uno status di protezione.

Per l’UNHCR, l’assistenza richiesta agli Stati di bandiera, in particolare nel caso di navi commerciali o altre navi private i cui comandanti non agiscono sotto il controllo diretto dello Stato di bandiera interessato in qualità di suo agente, non comprende un obbligo specifico di indicare un porto di sbarco sicuro,al di là degli obblighi di cui sopra per coordinare e cooperare per garantire uno sbarco tempestivo e sicuro e per adottare misure appropriate per proteggersi dalle violazioni dei diritti umani, incluso il respingimento ” senza però assumersi la responsabilità in prima istanza di accogliere le persone soccorse, accettandole in un procedura di asilo o protezione internazionale sul loro territorio .Gli Stati di bandiera, in base all’art. 94 dell’UNCLOS, devono esercitare efficacemente [la loro] giurisdizione e controllo in materia amministrativa, su questioni tecniche e sociali inerenti sulle navi battenti le loro bandiere. Gli Stati di bandiera devono adottare misure adeguate per garantire l’esercizio di tale giurisdizione e il controllo è coerente con i loro obblighi internazionali in materia di diritto marittimo internazionale, di diritto dei rifugiati e di diritto dei diritti umani, in particolare per quanto riguarda il non respingimento e il diritto di chiedere asilo. Sebbene lo Stato di bandiera di una nave che presta assistenza, in virtù della sua giurisdizione ai sensi dell’articolo 92, paragrafo 1, dell’UNCLOS sulle navi in ​​alto mare di cui ha la responsabilità primaria, non possa essere dichiarato esclusivamente titolare dell’obbligo di concedere asilo territoriale alle persone soccorse, deve cooperare con altri Stati per garantire modalità di sbarco e accesso all’asilo conformi al diritto internazionale. …. Secondo quanto richiama nel suo ultimo documento l’UNHCR, al di là delle questioni legali e giurisdizionali, da un punto di vista politico e per mantenere il sostenibilità del sistema di ricerca e soccorso, è indesiderabile a parità di tutto il resto localizzare responsabilità primaria per l’asilo senza riserve sugli Stati di bandiera. Gli Stati di bandiera dovrebbero, tuttavia, esserle pronti a partecipare a misure di ripartizione delle responsabilità insieme ad altri Stati per garantire un rapido sbarco e accesso all’asilo”.

9. Perchè è falso affermare che le trattative in corso con altri paesi UE possono consentire il trattenimento dei migranti a bordo della nave soccorrirtice, anche quando questa è già entrata nelle axque territoriali in base ad una specifica autorizzazione per ragioni di soccorso

 Occorre ricordare la mancata partecipazione del ministro Salvini alla riunione dei ministri dell’interno dell’Unione Europea, tenutasi a Parigi il 21 luglio 2019, pochi giorni prima del caso Open Arms. In quella sede il Presidente francese Macron aveva affermato: “Dobbiamo rispettare le regole umanitarie e del diritto marittimo internazionale. Quando una nave lascia le acque della Libia e si trova in acque internazionali con rifugiati a bordo deve trovare rifugio nel porto più vicino. È una necessità giuridica e pratica. Non si possono far correre rischi a donne e uomini in situazioni di vulnerabilità”. Malgrado i risultati del vertice di Parigi avessero ottenuto l’adesione di 14 Stati europei Salvini lo definiva un flop ed innescava un confronto con i principali leader europei che comprometteva le possibilità di collaborazione ai fini della ricollocazione. Come veniva definitivamente provato dal successivo vertice di Malta del 23 settembre 2019, fortemente voluto dal governo italiano, nel quale si adottava una bozza di Piano di ricollocazione che raccoglieva soltanto l’adesione di sei paesi UE e restava successivamente del tutto privo di effetti, tanto da scontentare anche i sostenitori dello stesso Salvini. Evidente quindi il fine politico e personale perseguito da Salvini quando nel mese di agosto del 2019, pochi giorni dopo la conversione in legge del Decreto sicurezza n.53 del 2019, proprio quando si profilava la possibilita di una crisi di governo e di elezioni anticipate, dimostrava al suo elettorato ed all’Unione europea tutta la sua fermezza nel “chiudere” i porti italiani alle navi di soccorso delle ONG.

La posizione contraria della Commissione europea sulla individuazione dei porti di sbarco proposta dal governo italiano, del resto, era nota da tempo. Come riferiva La Repubblica il 26 agosto 2018, in un articolo di Alberto d’Argenio, nei giorni del caso Diciotti, ” per il commissario Ue alle Migrazioni, Dimitri Avramopoulos,“I politici italiani devono mettere fine al gioco delle accuse, attaccare l’Ue significa spararsi nei piedi. Alcuni responsabili di governo per ragioni di politica e consenso interno si comportano in modo poco responsabile mentre sui migranti è necessario andare avanti tutti insieme, oppure il progetto europeo è a rischio”. Secondo la Commissione europea, al tempo dei fatti oggetto del processo di Palermo (agosto 2019), in definitiva, “la priorità per tutti, Italia inclusa, dovrebbe essere quella di assicurare che le persone sulle navi siano sbarcate”. Una posizione che è stata confermata ancora di recente di fronte al tentativo del governo Meloni di stravolgere unilateralmente, prima con direttive ministeriali in via amministrativa, e poi con un decreto legge (n.1 del 2023), le regole vincolanti delle Convenzioni internazionali richiamate dal Regolamento europeo n.656 del 2014. Le reazioni europee a questi tentativi smentiscono alla base le linee difensive proposte dalla difesa di Salvini nel processo di Palermo e privano di qualsiasi giustificazione il trattenimento prolungato dei naufraghi a bordo della Open Arms, almeno dalla data della sospensiva adottata dal Tar Lazio (14 agosto 2019) fino al momento dello sbarco, avvenuto sei giorni dopo, soltanto per effetto del sequestro della nave disposto dalla Procura di Agrigento.

10. Perchè non era legittimo il rifiuto della indicazione di un porto sicuro di sbarco dopo l’ordinanza del TAR Lazio e come ne derivava una ingiusta limitazione della libertà personale, anche con riferimento alla condizione dei minori non accompagnati

A fronte di quanto affermato in dibattimento dal testimone Mancini, Capo Dipartimento del Ministero dell’interno, sulla “normale” durata del trattenimento dei migranti a bordo delle navi soccorritrici, anche per una settimana, occorre ricordare le sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo, 1° settembre 2015 e 15 dicembre 2016, Khlaifia e altri c. Italia, ove si è ritenuta la violazione da parte dell’Italia dell’art. 5, par. 1, CEDU (che consente la limitazione della libertà personale, per finalità di gestione del fenomeno migratorio, solo in presenza di base legale nel diritto interno) in ipotesi di trattenimento forzoso presso i centri di soccorso e di prima accoglienza (di cui all’art. 10ter t.u.). Se questo vale all’interno degli Hotspot, lo stesso principio non può non valere a bordo di navi battenti bandiera straniera ma legittimamente presenti nelle acque territoriali italiane, ormai sotto la piena giurisdizione delle autorità taliane che esercitano nei loro confronti poteri di imperio, corrispondenti all’esercizio della sovranità nazionale, nei casi di mancata indicazione di un porto di sbarco, anche con riferimento alla peculiare situazione dei minori stranieri non accompagnati, che in base al nostro ordinamento non sono respingibili in frontiera (art.19 T.U. n.286/98).

In base alla Costituzione italiana (art.13) ed alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo (art.5), quaunque forma di limitazione della libertà personale operata per effetto di atti amministrativi va prevista dalla legge (riserva di legge) e sottoposta a convalida giurisdizionale ( riserva di giurisdizione). Nel caso Open Arms, oggetto del processo di Palermo, questa ingiusta limitazione della libertà personale a cui metteva fine soltanto il provvedimento di sequestro della nave adottato dalla Procura di Agrigento, si verificava a bordo della nave Open Arms nei giorni successivi al provvedimento del Tar Lazio, sospensivo del divieto di ingresso in acque territoriali. Già precedentemente il Tribunale per i Minorenni di Palermo aveva chiesto chiarimenti ai Ministri competenti e, per loro, al Governo, sottolineando che “le convenzioni internazionali a cui l’Italia aderisce…impongono il divieto di respingimento alla frontiera o di espulsione dei minori stranieri non accompagnati”. Diritti che “vengono elusi” nel momento in cui i minori non fossero autorizzati a sbarcare e dunque rimanessero a bordo della nave in condizioni di evidente disagio fisico e psichico. Anche in quella sede i magistrati minorili avevano argomentato come la situazione creata dalle autorità italiane equivaleva “ad un respingimento o diniego di ingresso ad un valico di frontiera” vietato dalla normativa italiana (si veda, al riguardo, l’art. 19, d.lgs. 286/98). Il decreto cautelare monocratico del Tar Lazio, Sezione Prima Ter, n. 5479/2019, sottolineava a sua volta, in merito al provvedimento governativo, il plausibile “travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso, nella misura in cui la stessa amministrazione intimata riconosce, nelle premesse del provvedimento impugnato, che il natante soccorso da Open Arms in area SAR libica – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in “distress”, cioè in situazione di evidente difficoltà (per cui appare, altresì, contraddittoria la conseguente valutazione effettuata nel medesimo provvedimento, dell’esistenza, nella specie, della peculiare ipotesi di “passaggio non inoffensivo” di cui all’art. 19, comma 1 [recte, comma 2], lett. g), della legge n. 689/1994)”.

11. Chi viola la legge impedendo la conclusione delle operazioni di ricerca e salvataggio, con lo sbarco nel porto sicuro più vicino. Perchè non si possono considerare come “eventi di immigrazione clandestina” le attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali.

In base all’art.11 comma 1 ter del D. Lgs. 286/1998 non si può vietare l’ingresso in porto di una nave che chieda di potere sbarcare naufraghi soccorsi in mare in quanto tale ipotesi configura un “passaggio inoffensivo” ai sensi dell’art.18 della Convenzione UNCLOS, e non già quella contemplata dall’art. 19 lettera g della stessa Convenzione che, nel richiamo ai “passaggi non inoffensivi”, deve riferirsi ai soli casi di immigrazione irregolare non connessi ad una operazione di soccorso in alto mare. La classificazione di un evento di ricerca e salvataggio (SAR) come evento di immigrazione clandestina, che poi è la sostanza della qualificazione come “evento migratorio”, non può permettere agli Stati costieri, ed in particolare all’Italia, di eludere gli obblighi di ricerca e soccorso imposti dalle Convenzioni internazionali. Obblighi che, come si è visto in precedenza, includono la indicazione di un porto di sbarco sicuro (POS) e il trasferimento finale dei naufraghi a terra nel più breve tempo ragionevolmente possibile. A partire dai decreti sicurezza di Salvini le autorità italiane hanno rifiutato di assegnare un Place of safety (POS) alle navi di soccorso della società civile, negando che si trattasse di veri eventi SAR (Search and Rescue), con riferimento a persone in situazione di distress, ed assegnando, nei casi in cui veniva consentito l’ingresso nelle acque territoriali, un porto di destinazione (POD) e non un porto di soccorso (POS). In modo da esporre la nave ed il suo equipaggio a successivi provvedimenti sanzionatori di natura penale ed amministrativa contestando la violazione di leggi in materia di soccorso in mare o di immigrazione. Nel caso Open Arms/Salvini oggetto del processo di Paleemo, si era però verificata una situazione ancora piu grave perché in presenza di un provvedimento del Tar Lazio che sospendeva il divieto di ingresso nelle acque territoriali, il ministro, agendo in contrasto con gli altri componenti del governo, reiterava il divieto di ingresso e negava la indicazione del porto di sbarco., determinando una prolungata violazione della libertà personale dei naufraghi trattenuti a bordo della nave.

il GIP del Tribunale di Agrigento disponeva nel 2019 la restituzione (dissequestro) della nave della Ong spagnola. osservando che “non sussistono, dopo l’evacuazione e il soccorso dei migranti, esigenze probatorie anche in considerazione del fatto che non si ascrive all’organizzazione e all’equipaggio alcuna responsabilità”. Una valutazione che in altri procedimenti è stata condivisa anche da diversi Tribunali e dalla Corte di Cassazione. Cadeva in questo modo la principale giustificazione dei divieti di ingresso frapposti dal ministro dell’interno fino al provvedimento di sequestro adottato dalla Procura di Agrigento. Di certo non si poteva negare la legittimità delle attività di ricerca e salvataggio, pienamente qualificabili come Search and Rescue (SAR) in acque internazionali, poste in essere dalla Open Arms nei primi giorni dell’agosto del 2019.

La consolidata giurisprudenza italiana respinge il travisamento degli eventi di soccorso in”eventi migratori”. Nell’ordinanza del GIP di Agrigento del 2 luglio 2019, relativa ad un caso che aveva riguardato la Sea Watch, si richiama”«l’art. 11 comma ter del D. Lgs 286-98 (introdotto dal D. L. n. 53/2019): difatti, ai sensi di detta disposizione, il divieto interministeriale da essa previsto (di ingresso, transito e sosta) può avvenire, sempre nel rispetto degli obblighi internazionali dello Stato, solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti nello Stato Costiero, fattispecie qui non ricorrente vertendosi in una ipotesi di salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio. Peraltro, l’eventuale violazione del citato art. 11 comma 1 ter – si ribadisce sanzionata in sola via ammnistrativa – non fa venir meno l’inderogabile disposto di cui all’art. 10 ter del Dlgs 286/98, avente ad oggetto l’obbligo di assicurare il soccorso, prima, e la conduzione presso gli appositi centri di assistenza, poi».

Malgrado questa consolidata giurisprudenza, che ha trovato riscontro anche in Corte di Cassazione (Casi Rackete e Vos Thalassa), ritorna ancora oggi nel processo Salvini a Palermo la qualificazione degli eventi SAR come episodi di immigrazione clandestina, a dispetto del riferimento alla situazione di distress delle imbarcazioni su cui si trovavano le persone in pericolo di annegamento. Le prime pagine dei giornali sono puntualmente occupate dall’accanimento accusatorio utilizzato dalla difesa del ministro Salvini nel processo di Palermo, che si tenta di trasformare in un processo contro la ONG Open Arms, per giustificare il rifiuto del ministro che nel 2019, prima e dopo il Decreto sicurezza bis n.53/2019, negava per settimane l’asegnazione di un porto di sbarco sicuro alle navi umanitarie che avevano soccorso naufraghi in acque internazionali e ostacolava con tutti i mezzi lo sbarco in porto, al punto che nel caso Open Arms oggetto del processo di Palermo doveva intervenire la Procura di Agrigento con un sequestro della nave, per consentire lo sbarco dei naufraghi nel porto di Lampedusa.

Non sono state le Ong, e nel caso del processo di Palermo la Open Arms, dunque a violare la normativa sui soccorsi in mare, ma al contrario, precise violazioni di legge sono imputabili agli Stati ed ai ministri competenti, che sono venuti meno ai correlati obblighi di coordinamento dei soccorsi e di sbarco in un “place of safety” (POS). Come osservava già il Tribunale dei ministri di Palermo, il senatore Salvini, con il rifiuto di concedere un porto sicuro alla nave Open Arms nell’agosto 2019, avrebbe violato le convenzioni internazionali. Secono i giudici palermitani “l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati che non si esaurisce nel primo intervento di salvataggio e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica (…), assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna (l’art. 117 Cost. prevede infatti che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.”

Nessuna norma di diritto internazionale del mare, dunque, autorizza uno Stato ad esercitare poteri d’interdizione su imbarcazioni che hanno effettuato operazioni SAR ( di ricerca e salvataggio) ma che vengono accusate di trasportare migranti irregolari nelle acque internazionali. Dopo le attività di soccorso le persone soccorse vanno considerate come naufraghi, non “immigrati clandestini”. In base alla sentenza del Tribunale di Agrigento sul caso Cap Anamur “le violazioni delle norme sull’immigrazione possono costituire illeciti rilevanti per gli ordinamenti nazionali degli Stati che ne sono coinvolti (Stato di partenza o Stato di arrivo o entrambi). Ma è ovvio che qualsiasi illecito d’immigrazione clandestina si consuma soltanto dopo che le persone coinvolte sono entrate nel mare territoriale dello Stato di destinazione ( o di uno Stato di transito), e non già prima, e cioè quando la nave che li trasporta si trova ancora in alto mare”.

L’art. 19 della Convenzione Unclos prevede la libertà di navigazione in acque internazionali, ed anche nel mare territoriale (passaggio inoffensivo), e solo al secondo comma della norma si prevede una deroga che in Italia è stata utilizzata capovolgendo il rapporto regola eccezione. A tale riguardo si deve ricordare quanto richiama Irini Papanicolopulu, docente di diritto internazionale presso l’Università di Milano Bicocca, secondo cui “l’ingresso di una nave che trasporta persone soccorse in mare in adempimento dell’obbligo internazionaleassistere le persone in pericolo e di condurle in un luogo sicuro. In altri termini, la fattispecie del salvataggio in mare continua fino a quando il comandante non abbia fatto sbarcare le persone in luogo sicuro, e il suo ingresso nel mare territoriale e nei porti di uno Stato non può essere visto sotto luce diversa. Non si può quindi precludere il passaggio inoffensivo ad una nave che ha soccorso persone in pericolo, anche al di fuori del mare territoriale, qualora questa intenda entrare al fine di perfezionare il proprio obbligo di salvare la vita umana in mare.”di salvare la vita umana in mare non può considerarsi come attività compiuta in violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione, a condizione che l’obiettivo della nave sia semplicementequello di far sbarcare le persone soccorse. Infatti, l’obbligo di salvare la vita umana in mare vincola sia gli stati (ai sensi dell’art.98, par. 1 CNUDM) sia icomandanti di navi (ai sensi del Capitolo V, reg. 33 SOLAS, nonché di numerose norme nazionali, quali ad esempio l’art. 489 cod. nav.).

12. La difesa di Salvini non cancella l’obbligo primario di salvagurdia della vita umana in mare. Tutte le imbarcazioni che partono dalla Libia e dalla Tunisia sono in condizione di distress. Gli stati costieri non possono omettere per fini politici il coordinamento e la indicazione di un porto di sbarco.

In base al punto 4.4 della Convenzione di Amburgo S.A.R.’del 1979, la Centrale di coordinamento della Guardia costiera (IMRCC), e tutte le autorità italiane in conseguenza, hanno il dovere di valutare precisi elementi per l’accertamento di una situazione di distress e per la classificazione dell’evento (S.A.R. – non S.A.R.). Questi elementi sono specificati anche dal Regolamento Frontex n.656 del 2014: posizione geografica, ora dell’avvistamento, condizioni meteo-marine, dimensioni e tipologia dell’unità, suo bordo libero (galleggiamento), numero delle persone a bordo e loro condizioni fisiche, eventuale presenza tra essi di donne in stato di gravidanza, bambini, malati, traumatizzati, presenza di cadaveri nei pressi dell’unità; dotazioni di sicurezza presenti a bordo, elementi del moto, altri elementi utili a discrezione del rapportante. Nel caso dei soccorsi operati dalle ONG in questi ultimi anni e’ difficile negare la ricorrenza di questi fattori di rischio confermati dalle valutazioni della giurisprudenza italiana che nei soccorsi operati dalle Ong ha sempre riconosciuto la ricorrenza di una situazione di distress.

Non si può tollerare, per rispetto della giurisdizione, che nel corso delle successive udienze dibattimentali, e poi nei comunicati che sono stati diffusi, la difesa del senatore Salvini continui a deviare l’attenzione dalle responsabilità dell’imputato, cercando di dimostrare la natura arbitraria e illecita delle attività di soccorso operate dalle ONG, arrivando a contestare che queste attività si sarebbero rivolte in favore di persone che si trovavano a bordo di barchini “in perfetta condizione di galleggiabilità” ed addirittura dotati di due motori. Salvo poi a cadere in evidenti contraddizioni nella ricostruzioni di eventi che vengono trasformati in risultanze probatorie dai servizi di sicurezza, addirittura avvalendosi anche delle riprese fotografiche operate da un sottomarino. Atti privi di alcuna valenza ai fini dell’accertamento delle responsabilità dell’imputato sui singoli capi di accusa, ma che sono stati trasmessi dalle autorità di polizia giudiziaria a tutte le procure siciliane, per quanto fin qui emerso, ma non a quella di Palermo, forse perchè questa procura era stata l’unica ad archiviare imemdiatamente, già nel 2018, le prime denunce montate dai servizi a carico delle ONG.

In realtà, tutte le imbarcazioni che trasportano i migranti poi soccorsi da navi private delle ONG, sono unsafe, cioè prive dei requisiti di navigabilità richiesti secondo la Convenzione SOLAS che nessuno ha richiamato durante l’udienza svoltasi con la testimonianza dei figure di vertice della Guardia costiera e della guardia di Finanza. Questa condizione delle imbarcazioni sulle quali i migranti tentano la traversata del Mediterraneo non può non incidere sulla verifica di una situazione di distress.  La nozione di “distress è stabilita dalla Convenzione di Amburgo del 1979 (Annex, ch. 1, para. 1.3.11) “a)situation wherein there is a reasonable certainty that a vessel or a per-son is threatened by grave and imminent danger and requires immediate assistance”, ed è specificamente confermata dal Regolamento UE n. 656/2014. Si deve così ritenere che proprio per gli indicatori forniti dalle Convenzioni internazionali, e ribaditi da un Regolamento europeo, quindi inderogabili per le autorità nazionali, (tra i quali il carico, il bordo libero, la sicurezza del mezzo, il propulsore) già riportati nel Piano SAR nazionale del 1996, in conformità con il manuale IAMSAR e con la convenzione SOLAS, tutte le imbarcazioni sovraccariche di migranti che si trovano a navigare nelle acque internazionali (alto mare) del Mediterraneo centrale, tutte in condizioni di grave sovraccarico, siano da ritenere in una situazione di distress, ovvero di pericolo imminente. Senza attendere che la situazione a bordo, come possibili vie d’acqua o il fermo del motore, o le condizioni meteo, divengano talmente gravi da comportare la perdita di vite umane, perdite che infatti si sono verificate proprio nel corso delle “attività di valutazione” da parte delle autorità competenti come, malgrado la prescrizione dei reati, è stato accertato dal Tribunale di Roma nel processo Libra,