Dagli accordi con i libici fuoco su migranti e pescatori

di Fulvio Vassallo Paleologo

1. Ancora colpi di arma da fuoco contro i pescherecci siciliani operanti nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Sembra che alcuni colpi abbiano raggiunto gli scafi ma non sono state diffuse riprese con foto o video, mentre i media si affrettano a precisare che non ci sono feriti o danni alle persone. Insomma sembra quasi un incidente, ancora una volta un incidente, guai a mettere in discussione i rapporti con i libici. Stavolta le motovedette, partite quasi certamente da un porto della Cirenaica, non avrebbero avuto autonomia per arrivare fino a Bengasi dalla Tripolitania, hanno preso di mira il ‘Salvatore Mercurio e il ‘Luigi Primo’, due motopesca iscritti al Compartimento marittimo di Catania. Le due imbarcazioni si trovavano a nord di Bengasi per la pesca del tonno e del pesce spada, in acque internazionali che i libici, però, riconoscono, in maniera unilaterale, come zona di protezione della pesca (Zpp) o zona di esclusivo interesse economico (ZEE). Sono stati “tre quarti d’ora di inferno, ci sparavano addosso e volevano speronarci. Siamo salvi solo grazie alla nave della Marina Militare italiana che è intervenuta”, ha dichiarato un membro dell’equipaggio ai cronisti. Il pronto intervento della fregata Grecale ha evitato il fermo dell’imbarcazione ed un possibile sequestro.

Malgrado i tentativi di ridimensionamento dell’accaduto, successivamente operato dai principali media, occorre porsi alcune domande, anche perchè si tratta di episodi frequenti. Come è possibile che dopo tutti gli accordi stipulati con le diverse autorità libiche, e dopo il ruolo di coordinamento italiano svolto in favore dei guardiacoste tripolini, i controlli sulle attività di pesca in acque internazionali, come sui soccorsi in alto mare, si debbano concludere con l’uso delle armi? Chi controlla davvero le unità che si autodefiniscono come “Guardia costiera libica” davanti alle coste della Cirenaica, da Misurata a Tobruk? Con chi tratta davvero il governo italiano quando invia risorse economiche ed attrezzature in Tripolitania, o si fa mediare dai rappresentanti ENI in Cirenaica, in particolare nel golfo di Sirte, per garantire al nostro paese l’agibilità degli impianti e dunque le forniture di petrolio?

Lo ammette anche il ministro dell’interno Lamorgese, “ ora in Libia non c’è un governo nella pienezza di poteri, politicamente parlando, è una situazione geopolitica molto difficile”. L’ammissione di un fallimento se si pensa a quanto dichiarava lo stesso ministro lo scorso anno, all’indomani di una strage di migranti al largo di Al Khoms, nella quale perdevano la vita 130 persone e dal Viminale arrivava una dichiarazione in difesa della sedicente Guardia costiera libica, con “la piena disponibilità dell’Italia a sostenere progetti di collaborazione e a sollecitare l’Unione europea a prestare al governo di Tripoli il massimo e più concreto sostegno” . Al “governo di Tripoli”? Forse lo scorso anno il “governo di Tripoli” disponeva di un maggiore controllo del territorio nazionale rispetto ad oggi? Quanto è pesata l’assenza di una politica europea rivolta ai paesi della sponda sud del Mediterraneo, e quando finirà la politica estera europea, basata principalmente sul contrasto della mobilità delle persone migranti ?

Eppure lo stesso ministro Lamorgese, ed i governi che si sono succeduti nel tempo, sono ben consapevoli della frequenza degli attacchi portati dalle motovedette libiche ai pescherecci italiani che operano al limite (e spesso all’interno) delle acque che i libici si sono attribuiti, dopo gli accordi bilaterali stipulati con l’Italia, con Malta, con la Grecia e con la Turchia, all’insegna del contrasto di quella che viene definita immigrazione “illegale”. Anche se in realtà, nella maggior parte dei casi, sui barconi si trovano potenziali richiedenti asilo in fuga dalla Libia, che cercano di raggiungere la frontiera di un paese sicuro, come non lo sono i paesi africani, per presentare una istanza di protezione internazionale. La normativa emergenziale adottata per il diffondersi della pandemia da Covid 19 ha ulteriormente aggravato gli sbarramenti delle frontiere marittime europee, con un contrasto sempre più evidente con il diritto di accesso al territorio per presentare una istanza di protezione, garantito sulla carta dalla Convenzione di Ginevra del 1951

Anche lo scorso anno, ma già dal 2017, da quando si tentava di delegare ai libici i respingimenti collettivi in acque internazionali, era evidente a tutti, anche se ben nascosto dai media, dietro la campagna diffamatoria contro le ONG, che in Libia non ci fosse un unico governo in grado di controllare l’intero territorio nazionale, inclusi porti ed acque territoriali. Come era ampiamente documentato da numerosi rapporti internazionali, ed anche dall’Unione Europea e dalle Nazioni Unite, che i Guardiacoste libici agissero con le armi per fare valere pretese di controllo sulle acque internazionali che, in violazione del Diritto internazionale, erano state avallate dal governo Gentiloni quando nel 2017 aveva sostenuto l’invenzione di una zona di ricerca e salvataggio (SAR) “libica, all’esclusivo scopo di dissuadere i soccorsi umanitari e delegare ai libici i respingimenti collettivi, per cui l’Italia era stata condannata nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo (caso Hirsi), e per tenere lontane le ONG. Eppure, malgrado quella condanna, nei faldoni di indagine, dopo i soccorsi operati dalle ONG, si arrivava a partale di “sottrazione di migranti” alla Guardia costiera “libica”. A quale Guardia costiera? Forse a quella stessa Guardia costiera “libica” che era collusa con i trafficanti ed accompagnava i battelli carichi di migranti fino al limite delle acque interazionali, come si è verificato in almeno uno dei tre casi di soccorso contestati nel processo Iuventa a Trapani ? Evidentemente i corsi di formazione sui diritti dei rifugiati, gestiti dalle Nazioni Unite e rivolti ai componenti della Guardia costiera libica, non hanno ancora ottenuto i risultati sperati. Ma forse occorrerebbe ricordare che la Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Aumenta intanto il numero delle persone che scompaiono nel buco nero dei centri di detenzione dopo essere state intercettate in mare. E da Tripoli si stringono nuovi accordi con i paesi di origine, anche ad alto rischio, per facilitare le deportazioni forzate.

Dopo il fallimento del Codice di condotta Minniti del 2017, rimasto senza copertura legislativa, e dopo il disastro causato dal Decreto sicurezza bis n.53 del 2019 imposto da Salvini, con una impennata di stragi in mare e di inchieste nelle procure siciliane, oggi in gran parte archiviate, il governo “libico” (di Tripoli) adottava il Decreto del 14 settembre 2019, in vigore ancora oggi, specificamente rivolto alle ONG, che riproduceva molti punti dei documenti di Minniti e Salvini, in netto contrasto con il diritto internazionale. In base all’art. 4 del Decreto, “Il Dispositivo della Guardia Costiera e Sicurezza dei porti si occupa di:
● Gestione dell’area di ricerca e soccorso nelle acque Libiche
● Comando delle operazioni di ricerca e soccorso nella Zona dichiarata.
Il Centro di ricerca e soccorso marittimo LMRCC coordina le operazioni di ricerca e salvataggio marittimo nellaregione.

Secondo l’art. 5 del Decreto “ Le organizzazioni interessate ad operare nella ricerca e soccorso in mare nell’area gestita dal Dispositivo, devono presentare una domanda di autorizzazione che alleghiamo al presente regolamento, secondo il modello (T.T.A./019). Il Dispositivo si occupa della trasmissione della domanda alle autorità marittime libiche per il rilascio dell’autorizzazione di lavoro a seconda delle normative”. E ancora secondo l’art.8 dello stesso Decreto “ Le unità marittime affiliate alle organizzazioni sono obbligate a lavorare nel rispetto del principio di collaborazione, supporto, e senza ostacolare le operazioni di ricerca e salvataggio marittimo attuate dalle autorità autorizzate dentro l’area dichiarata e a lasciargli la precedenza d’intervento”.

Come se una “mano invisibile” avesse guidato da Roma le autorità di Tripoli nella stesura di quel documento, che andava ad “incastrarsi” nel Codice di condotta Minniti e nel Decreto scurezza bis n.53, rivelandosi assolutamente complementare. La conferma si trova nell’art.14 del decreto, che corrisponde ad uno dei capi d’imputazione allora più diffusi in Italia nelle inchieste giudiziarie contro le ONG: “Salvo le comunicazioni necessarie nel contesto delle operazioni di soccorso e, per salvaguardare la sicurezza della vita in mare, le unità marittime affiliate alle organizzazioni si impegnano a non mandare nessuna comunicazione o segnale di luce o altri effetti per facilitare l’arrivo verso di loro d’imbarcazioni clandestine”. Dunque nel caso di attività di soccorso notturne le navi delle ONG potevano infrangere quanto previsto dai libici, in sintonia con il Codice di condotta Minniti, se soltanto utilizzavano fari per facilitare i soccorsi e garantire la salvezza delle vite umane in pericolo. Anche perchè di notte la sedicente Guardia costiera “libica” dimostrava già allora una evidente incapacità di agire.

In base all’art. 16 del Decreto contro le ONG adottato dal governo di Tripoli, in evidente accordo con le autorità italiane, “In conformità alle sue competenze di controllo, il Dispositivo controlla tutte le navi e unità marittime affiliate alle organizzazioni che violano le disposizioni del presente regolamento e le conduce al porto marittimo libico più vicino”. Si legittimavano in questo modo intercettazioni e sequestri in acque internazionali operati dalla sedicente Guardia costiera “libica”. Che da quel momento si intesificavano pure nei confronti dei pescherecci, anche se questi, operando generalmente più ad est, in corrispondenza del golfo di Sirte, non erano facilmente raggiungibili dalla costa e potevano avvalersi dell’ombrello garantito dalle unità militari italiane presenti in quella zona nell’ambito dell’operazione Mare Sicuro e della missione Irini di Eunavfor Med.

Si autorizzava in definitiva la sedicente Guardia costiera “libica” ad interdire la libera navigazione in acque internazionali delle navi delle ONG anche per attività di ricerca e salvataggio, affidate allora esclusivamente alle navi umanitarie per il ritiro o per l’inerzia dei mezzi statali, all’interno della fantomatica zona SAR “libica”. Anche se ancora nel 2019, per non dire oggi, quella zona SAR restava ( e resta) priva di un adeguato sistema di soccorso e di una Centrale di coordinamento unificata, requisiti richiesti dal Diritto internazionale ( Manuale IAMSAR e Convenzioni IMO) per il riconoscimento di una zona di ricerca e salvataggio (SAR) da parte di uno Stato costiero. Da quel momento si intensificavano gli attacchi contro i pescherecci che operavano nelle acque internazionali contigue al mare territoriale spettante alla Libia.

Dal 2017 ad oggi gli episodi in cui i libici sono intervenuti in armi contro le ONG non si contano, basti pensare a quanto sta venendo fuori nel procedimento Iuventa a Trapani, ed ancora altro materiale di interesse militare e politico potrebbe diventare di dominio pubblico se il procedimento proseguisse con un rinvio a giudizio dei 21 imputati. Ma sono stati frequenti anche gli attachi armati contro pescherecci che operavano in alto mare, ai limiti della zona di interesse esclusivo che i libici hanno dichiarato, dopo il riconoscimento come zona SAR “esclusiva” di una enorme fascia di acque internazionali, 80 miglia (circa 145 chilometri) dalle coste, nella quale potevano operare indisturbati per colpire le ONG e per intercettare i barconi carichi di migranti, come sembrava consentito dal Codice di condotta Minniti (luglio 2017) e dal Memorandum d’intesa Gentiloni del 2 febbraio 2017.

La maggior parte dei “contatti” tra unità militari libiche ed ONG si verificava nel settore occidentale della zona SAR libica, corrispondente alla Tripolitania, mentre gli attacchi ai pescherecci si concentravano più ad oriente, nelle acque internazionali antistanti la Cirenaica. Con una differenza importante, che quando sotto attacco erano i pescatori intervenivano immediatamente (o quasi) le unità della missione Mare Sicuro della Marina militare italiana, anche se in qualche occasione non si è evitato il sequestro dei natanti e la loro riconduzione in un porto libico. Mentre quando intervenivano le ONG, se queste finivano sotto il fuoco delle motovedette libiche, salvo casi eccezionali (come per l’elicottero militare che seppur tardivamente interveniva su una motovedetta libica il 6 novembre 2017), gli assetti militari italiani restavano a guardare. Ed anzi, se avvertite dell’evento di soccorso, all’interno della zona SAR che nel 2017 si era attribuita il governo di Tripoli, indicavano come autorità competente per gli interventi in mare e lo sbarco a terra proprio le autorità libiche, buona parte delle quali, soprattutto nelle zone da dove avveniva la maggior parte delle partenze, erano saldamente colluse con organizzazioni criminali, come nel caso di Zawia. Quando in acque internazionali non si trovavano come target le ONG da allontanare, i libici sparavano direttamente sui barconi carichi di migranti. Ci sono prove inconfutabili.

In realtà come non esiste una unica Guardia costiera libica, non esiste neppure una zona SAR condivisa dai due governi ( il governo provvisorio di Tripoli e il Parlamento di Tobruk, che ha nominato un premier alternativo) che in atto si contendono la Libia. Da tempo si distingue tra West, Central e East Libyan SAR Zone, e la distinzione corrisponde ai porti dai quali partono le motovedette “libiche” e alle milizie o alle unità militari straniere che li controllano, come nel caso dei turchi che hanno una base a Khoms e da lì controllano la zona centrale della cd. zona SAR “libica”. Dai Rapporti delle Nazioni Unite nel periodo 2017-2018 sembra evincersi che gli accordi tra Italia ed il governo di Tripoli sulla collaborazione nelle attivita di contrasto delle migrazioni “illegali” attraverso la cd. zona SAR “libica”, di fatto, riusltassero operativi solo con rifernimento ai settori occidentali ed occasionalmente nel settore centrale.

Le motovedette regalate dall’Italia dal 2017 in poi fanno base nel porto militare di Abu Sittah a Tripoli, dove per anni venivano coordinate dalla missione Nauras della Marina militare italiana, e risultano ancora operative nella zona SAR occidentale, fino al limite delle acque territoriali tunisine, ma anche dento la zona SAR maltese, per effetto di specifici accordi.

La situazione della zona più orientale della zona SAR “libica”, quella nella quale avvengono gli attacchi armati e i tentativi di sequestro contro i pescherecci siciliani, appare nel tempo molto più confusa, anche se dovrebbe essere ben nota agli assetti europei dell’operazione Eunavfor Med IRINI (ex Sophia) che operano proprio in quella zona, con prevalenti finalitè di contrasto del contrabbando di armi e petrolio, senza avere mai garantito una effettiva attività di ricerca e salvataggio. Anche se il Regolamento Frontex n.656 del 2014 che impone agli assetti europei di Frontex, sia aerei che navali, il rispetto degli obblighi di soccorso sanciti a carico degli Stati dalle Convenzioni internazionali, dovrebbe valere anche per loro.

In ogni caso il conflitto armato che ha dilaniato la Libia tra il 2019 e il 2020 costituisce uno spartiacque nella divisione dei poteri armati sul territorio, e dunque anche in mare, dove l’arrivo di unità di terra e di assetti navali turchi ha modificato radicalmente la situazione, inizialmente a favore del generale Haftar che era sul punto di espugnare anche Tripoli ed il suo porto militare. Ed ancora oggi la situazione potrebbe modificarsi ulteriormente, sia a terra che in mare, per effetto del conflitto in Ucraina, in base ai rapporti tra Turchia, Russia e paesi occidentali, una situazione di grande incertezza, una presenza militare “straniera” in aumento anche a mare, che potrebbe avere gravi ripercussioni sulla crisi libica modificando ancora una volta i rapporti di forza tra le milizie e tra i segmenti della Marina libica e della Guardia costiera (LYCC) che vi corrispondono. Anche unità turche come la Gaziantep, a partire dal 2020, contribuivano attivamente ai respingimenti collettivi illegali verso le coste libiche.

Certo parlare di Libia, di zone SAR e di Guardia costiera “libica” sena specificare attori coinvolti, date e luoghi degli eventi, produce una confusione generale nella quale si sono invischiate parecchie indagini giudiziarie che poi si sono risolte nel nulla. Purtroppo ritorna ad ondate la bolla mediatica sulla zona SAR “libica” che si confonde anche con la Zona di esclusivo interesse economico (ZEE), come se su entrambe i libici di diversa appartenenza potessero vantare una vera e propria sovranità territoriale.

Gli interventi di soccorso di motovedette “tripoline” ad est di Misurata erano, e rimangono, comunque eventi assai rari anche perchè la maggior parte dei punti di partenza nei quali si concentrava la presenza di migranti in fuga si trovava in Tripolitania, più vicina alle coste italiane e maltesi. Di fatto, in mare i corridoi migratori e le zone di pesca non si sovrapponevano del tutto, anche perchè i pescherecci, dopo le incriminazioni ed i processi che alcuni di loro avevano subito, fino all’assoluzione in appello, si tenevano più distanti dalle vie di fuga dalla Libia. Sovrapposizione tra rotte migratorie e campi di pesca che invece si ripresenta ogni anno sulle rotte dalla Tunisia, o dalla parte più occidentale della Libia (Zuwara)verso la Sardegna e la Sicilia.

(Sergio Scandura- Radio Radicale)

2. Ma di quale “Libia” stiamo parlando oggi, e di quale Libia si sarebbe dovuto parlare negli anni scorsi, quando si rinnovavano gli accordi di collaborazione e si trasferivano motovedette, risorse logistiche, addirittura missioni militari, come NAURAS nel porto militare di Abu Sittah a Tripoli, per facilitare le intercettazioni in acque internazionali, e quindi la riconduzione dei naufraghi nei centri lager dai quali erano riusciti a fuggire? In occasione del prossimo dibattito parlamentare sul rinnovo del Memorandum d’intesa Gentiloni-Minniti, di quale “Libia” si continuerà a parlare?

Sembra comunque improprio ritenere che in Libia il governo provvisorio attualmente in carica a Tripoli controlli il territorio ed i porti della Cirenaica. Appare per questo altamente probabile che le operazioni rivolte contro i pescherecci italiani impgnati in battute di pesca al limite del golfo di Sirte (o al suo interno) possano essere state contrastate da mezzi sotto il contrllo della sedicente “Guardia costiera libica” che ha le sue basi nella Tripolitania, e che costituisce il partner di elezione delle autorità marittime e politiche italiane per delegare, in combutta con le organizzazioni criminali che gestiscono i traffici da Zawia e da Sabratha, i respingimenti collettivi e il contrasto “armato” delle attività SAR delle Organizzazioni non governative.

In realtà in Libia esistono diverse autorità marittime che si arrogano poteri di controllo in alto mare, definendosi variamente, ma tutte alle dipendenze di qualche milizia. La prova più evidente di questo assetto, frammentato ed in continua evolizione, di potere militare e politico, è nella vicenda del sequestro, e poi delle trattative per il rilascio, dei pescatori di Mazara del Vallo, intercettati e sequestrati nel 2020 davanti alle coste della Cirenaica e poi condotti a Bengasi. Che venivano rilasciati dopo mesi di inutili trattative, mediate anche dal governo di Tripoli, solo per l’intervento sul generale Haftar della diplomazia russa e dei consiglieri egiziani che sostengono l’esercito del generale, e che stanno dietro il Parlamento libico con sede a Tobruk. Tutti dovrebbero ricordare come nel settembre del 2020, quando i libici sequestrarono due imbarcazioni di Mazara, la «Medinea» e l’«Antartide» e trattennero a Bengasi tutti gli uomini degli equipaggi (18 persone in tutto), fu necessaria una trasferta lampo a Bengasi dell’allora premier Conte, con il ministro degli esteri Di Maio, per ottenerne la liberazione, dopo un incontro con il generale Haftar, a dicembre di quell’anno, a tre mesi dalla cattura. Evidentemente già allora il governo provvisorio di Tripoli non aveva riconosciuta alcuna legittimazione in Cirenaica.

Come non esiste una sola Libia, come non esiste un unico esercito “libico”, come non esiste un ordine giudiziario generalmente riconosciuto da tutti i libici, e come non esiste neppure un Parlamento libico, la cui elezione si pospone all’elezione del Presidente della Repubblica che si rinvia da anni, non esiste neppure una unica Guardia costiera “libica”. Sarebbe ben strano se si verificasse il contrario, anche se sembra ritenerlo qualche magistrato che indaga sulle ONG o qualche giornalista che ha deciso di fare uno scoop stabilendo che i colpi sparati contro i pescherecci in questi ultimi giorni sarebbero partiti da una “motovedetta donata dal governo italiano”. Con quali prove si possa scrivere questo non si vede proprio, specie considerando che l’aggressione è avvenuta a nord di Bengasi, ben lontano dai porti della Tripolitania nei quali fanno base le motovedette donate dall’Italia, almeno quelle che rimangono ancora in funzione e per le quali arrivano i pezzi di ricambio di cui necessitano molto spesso. Sotto questo profilo, e con particolare riferimento ai porti della Tripolitania, da Zuwara a Misurata, sarebbe più utile leggere sui media degli effetti prodotti dall”arrivo dei turchi, che ormai hanno il controllo della maggior parte delle strutture portuali ed una base militare a Khoms. E’ solo un caso che buona parte delle imbarcazioni cariche di migranti in fuga dalla Libia partano proprio dalle coste di Khoms (Al Khums)?

E’ ormai noto a tutti quali sono stati i ministri dell’interno che hanno fatto arrivare dall’Italia motovedette in Tripolitania, è certo più interessante capire chi controlla adesso queste motovedette e le altre che sono operative nel settore orientale della pretesa zona SAR “libica”, davanti alle coste della Cirenaica. Dove dovrebbe essere presente la missione europea Eunavfor Med IRINI, che sembra volatilizzata nel nulla, e della quale non si hanno notizie precise sulla realizzazione dei compiti che si prefiggeva, sconfiggere il traffico di armi e di petrolio, che di questi tempi sembra più fiorente che mai. La vicenda dei rapporti di questa missione con i governi di Tripoli e di Tobruk è davvero esemplare. Nessuno forse ricorda che ai componenti europei della missione IRINI il governo di Tripoli ha negato il visto d’ingresso, ritenendo che la missione avrebbe agevolato il Parlamento di Tobruk ed il generale Haftar. Ennesima conferma della netta “distinzione di competenze”, per non dire spartizione del potere, che sempre più spesso sfocia nello scontro aperto, tra autorità che controllano la Tripolitania ed autorità che controllano la Cirenaica. Unico dato certo, che, tanto gli assetti navali di IRINI, quanto gli assetti aerei di Frontex, altra missione europea operativa nel Mediterraneo centrale, trasmettono in tempo reale ai libici le posizioni dei barconi che avvistano in acque internazionali, salvo poi a non intervenire, ed a lasciare svolgere ai libici il “lavoro sporco”, consistente in intercettazioni violente in alto mare e in respingimenti collettivi illegali, che preludono a trattenimenti disumani in centri lager ed a deportazioni forzate verso i paesi di origine.

3. In questo scenario il ruolo dell’Italia appare sempre più marginale. in una intervista all’agenzia “Nova”, ripresa da l’Avvenire, l’ammiraglio Fabio Agostini, Comandante operativo di EUNAVFOR MED, ha dichiarato già nel mese di luglio dello scorso anno che la Guardia costiera libica non è più sotto il controllo dell’Europa e dell’Italia, aggiungendo tuttavia che dal 2016 al 2019, quando i guardacoste erano stabilmente sotto il controllo e l’addestramento italiano, si era registrato “un sostanziale cambio di passo riguardo della gestione degli eventi Sar e al trattamento dei migranti soccorsi”. L’ammiraglio si riferisce ala missione Nauras dell’operazione Mare Sicuro della Marina militare italiana. Come si legge in una relazione parlamentare presentata lo scorso anno in Senato dal Ministero della difesa, l’ Operazione “Mare Sicuro” è un’attività nazionale di presenza, sorveglianza e sicurezza marittima, avviata il 12 marzo 2015 a seguito dell’evolversi della crisi libica, al fine di tutelare gli interessi nazionali nel Mediterraneo Centrale – Stretto di Sicilia. Su specifica richiesta pervenuta al Governo italiano da parte del Governo di Accordo Nazionale (GNA) libico del 30 maggio 2017 e del 23 luglio 2017, al fine di contenere il fenomeno migratorio mediante lo sviluppo delle capacità delle Forze navali libiche necessarie a contrastare il traffico di esseri umani, il 28 luglio 2017 con Deliberazione del Consiglio dei Ministri, è stata autorizzata la missione relativa alla partecipazione italiana in supporto alla Guardia costiera libica, denominata Operazione NAURAS. Come si legge nella stessa relazione relativa all’operazione Mare Sicuro, ” A decorrere dal 1° agosto 2017, svolge altresì i seguenti ulteriori compiti, connessi con la missione in supporto alla Guardia costiera libica intesa a fornire supporto alle forze di sicurezza libiche per le attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani mediante un dispositivo aeronavale integrato da capacità ISR (Intelligence, Surveillance, Reconnaissance):

  • attività di collegamento e consulenza a favore della Marina e Guardia costiera libica
  • collaborazione per la costituzione di un centro operativo marittimo in territorio ibico per la sorveglianza, la cooperazione marittima e il coordinamento delle attività congiunte.

Che fine ha fatto la missione NAURAS della Marina militare italiana presente a Tripoli, guarda caso, proprio dal 2017, dal tempo della prima attuazione del Memorandum di’intesa Gentiloni del 2 febbraio 2017 e dell’avvio dei procedimenti penali cntro le ONG ? Non ne parla più nessuno. Un alto esponente della Marina militare italiana ha però chiarito, lo scorso anno, che in realtà, dall’estate del 2020, da quando i turchi hanno garantito la difesa di Tripoli contro gli attacchi del generale Haftar, sono i comandi turchi che controllano le attività dei guardiacoste “libici”, per la parte che corrisponde ai comandi delle autorità di governo a Tripoli, fatta sempre la tara dei rapporti che proseguono con le organizzazioni criminali, Tanto che il più noto dei comandanti della guardia costiera libica, esponente di una milizia di cui si è occupata anche la giustizia italiana, è stato nominato al vertice dell’Accademia navale libica. Lo stesso Al Milad Bija che nel 2017, dopo il Memorandum d’intesa Gentiloni-Minniti, girava indisturbato nelle stanze del Viminale e della Centrale di coordinamento della Guardia costiera italiana.,e che oggi torna a minacciare chi scrive della sua storia. Altre minacce ai giornalisti arrivano da Malta, paese pesantemente coinvolto nelle attività della Guardia costiera “libica” in acque internazionali. Di collaborazione nei respingimenti collettivi tra gli Stati costieri nel Mediterraneo centrale non se ne deve parlare.

4. La sensazione che si ricava dalle più recenti convulsioni che agitano la politica e lo scontro tra milizie non solo a Tripoli, ma sull’intero territorio libico, è che la situazione sia in continua evoluzione, anche perchè ormai è chiaro che il mandato del presidente ad interim che scade il prossimo 22 giugno è fallito miseramente senza che si potessero svolgere le elezioni, rinviate ancora una volta a data da destinarsi. Gli scontri armati tra milizie a Tripoli sono quotidiani. Nel frattempo gli attori più forti sulla scena libica, la Russia, la Turchia e l’Egitto hanno una loro diplomazia diretta che va ben oltre i timidi passi delle Nazioni Unite e dei suoi deboli rappresentanti. Una diplomazia che guarda soltanto agli interessi economici e militari, in primis petrolio e armi, che in tempi di guerra in Ucraina possono diventare una miccia esplosiva tanto sullo scenario libico che per l’intero Mediterraneo. Rimane confermata la presenza di guerriglieri siriani inviati dalla Turchia e delle forze del gruppo Wagner inviate dalla Russia. Il conflitto in Ucraina potrebbe avere ripercussioni devastati anche in Libia, anche se per ora sembra prevalere la via della diplomazia. Non si tratta solo sui migranti, ma anche sullo sfruttamento delle risorse e sull’invio di armi.

Un accordo tra Turchia e Libia sulle zone economiche esclusive (ZEE) e sulla cooperazione militare è stato firmato il 27 novembre 2019. Come si riferisce in uno studio per l’ISPI di Matteo Colombo e Giuseppe Dentice, “Il trattato bilaterale ha due obiettivi principali: definire confini delle Zee, ossia i tratti di mare in cui sarà possibile per Tripoli e Ankara sfruttare le risorse energetiche; e consentire alla Turchia di fornire assistenza militare in caso di richiesta da parte del governo libico”. E’ evidente quanto questa intesa abbia ridimensionato il ruolo dell’Italia con tutti i potenziali attori del “puzzle” Libia, anche se l’ENI per suoi canali, ben “radicati”nel territorio, e il governo italiano guidato da Mario Draghi stanno tentando di recuperare un ruolo, Che non mette certo in discussione gli accordi con le autorità di Tripoli per contrastare quella che si continua a ritenere soltanto come immigrazione “illegale” e per aumentare la capacità di intervento della sedicente Guardia costiera “libica”. Che interviene con mezzi che non è facile distinguere in base alle tipologie ed alle insegne. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti, in mare, nel Mediterraneo centrale, ed in territorio libico.

E su questo stesso scenario potrebbe utilizzarsi anche l’arma delle migrazioni forzate, se non indotte, come si è verificato alla frontierra tra Bielorussia e Polonia lo scorso anno, tenendo sempre presenti livelli di corruzione che in tutti i paesi del nordafrica arrivano fino alle autorità di governo. La minaccia di nuove partenze verso l’Europa potrebbe diventare occasione per un ricatto in pieno stile mafioso. Sulla pelle di persone innocenti che stanno già pagando un prezzo altrissimo per restare intrappolati in Libia, anche per effetto della mancanza di canali legali di ingresso in Europa. Conseguenza delle politiche di esternalizzazione delle frontiere adottate dall’Unione Europea dagli accordi con Erdogan nel 2016, e su scala più ridotta, con riferimento al Mediterraneo centrale, conseguenza degli accordi bilaterali, sul tipo del Memorandum d’intesa Italia-governo di Tripoli del 2017.

Rimane quindi una elevata imprevedibilità della situazione politica e militare delle due “Libie”, ma non si deve dimenticare neppure il Fezzan, e la conflittualità crescente alle frontiere meridionali della Libia, in tutto il bacino del Sahel. Questa incertezza si ripercuoterà anche sugli accordi che l’Eni continua a concludere con tutti i diversi attori, e con le milizie in campo nei territori, che garantiscono con le armi la sorveglianza degli impianti, accordi non solo sulla ricerca, ma sul commercio di petrolio e gas. Gli italiani si accorgeranno della spaccatura evidente della Libia non certo perchè qualche centinaio di migranti sarà riportato in un campo di detenzione, se non farà naufragio per la mancanza di soccorsi o per l’allontanamento delle odiate ONG, quanto piuttosto perchè, se si chiuderanno i rubinetti dalla Libia, tanti italiani resteranno a piedi, con la benzina alle stelle, una inflazione galoppante e le case al freddo. Magari si troveranno senza lavoro, ma a rubarglielo non saranno stati i “neri” o i “musulmani” arrivati attraversando il Mediterraneo. Il prossimo inverno molti alibi politici e molti facili capri espiatori potrebbero cadere. Non sarà l’invasione dei migranti in arrivo dal nordafrica a gettare sul lastrico milioni di famiglie italiane. Che non saranno certo aiutate dal rinnovo del supporto alla sedicente Guardia costiera libica e da una politica estera piegata ad interessi dei gruppi economici piu forti, per i quali il rispetto dei diritti umani comporta soltanto un costo eccessivo. Come la pensano Erdogan ed Al Sisi, del resto, con loro non è difficile trovare accordi economici.

5. Esistono possibilità per un diverso indirizzo politico? La questione non riguarda più soltanto le politiche migratorie. Quello che appare assai probabile è che la politica italiana, condizionata adesso anche dall’esigenza di differenziare le fonti di approvigionamento energetico, continuerà a confermare il rinnovo degli accordi con i libici, come il Memorandum d’intesa Gentiloni del 2017. Anche se, dal punto di vista del “contrasto dell’immigrazione illegale”, questi accordi sono ormai del tutto inutili, come è confermato dai cd. sbarchi autonomi, in continuo aumento e dalla diversificazione delle rotte. Aumentaranno soltanto i costi umani ed i livelli di corruzione, e di ricatto, delle diverse autorità libiche investite del potere di controllo su fasce di mare internazionale che in base al diritto internazionale non spetterebbero certo a loro. Altrettanto prevedibile è che le tragedie in acque internazionali, con altre centinaia di vittime, continueranno a ripetersi come conseguenza dell’abbandono in mare che si concretizza nell’invito ai soccorritori di rivolgersi sempre più spesso alla sedicente Guardia costiera “libica”, come si ripeteranno le intercettazioni in alto mare da parte delle motovedette libiche di diversa provenienza. Poco importa alla fine se siano quelle donate dall’Italia o dalla Turchia. Nel Mediterraneo centrale si continuerà a sparare, e ci potrebbero scappare altre vittime. Gli accordi con i libici, senza una pregiudiziale sull’assoluto rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale, continueranno a legittimare prassi omicide e violazioni diffuse dei diritti fondamentali delle persone. Sono conseguenze di cui tutto il sistema paese Italia si dovrà assumere la responsabilità, dai rappresentanti politici agli elettori che nell’urna elettorale rinnovano il loro consenso verso politiche di morte. Come ha fatto capire molto bene il Papa nelle sue più recenti dichiarazioni, censurate da buona parte dei media o presto rimosse dalle notizie di prima pagina. Oggi potranno nascondersi i responsabili, ma che si continuino a commettere “crimini contro l’umanita'” sulla rotta libica non lo potrà nascondere nessuno.