di Fulvio Vassallo Paleologo
1. Dopo la lettera-appello rivolta da diversi esponenti di associazioni umanitarie al Presidente del Consiglio Draghi non ci sono state risposte significative, ma il ministro dell’interno Lamorgese ha ribadito il suo sostegno in favore della sedicente Guardia costiera “libica”, che in questi giorni ha bloccato in acque internazionali numerosi barconi carichi di persone migranti in fuga dalla Libia. Come avviene del resto da tempo. E prosegue la politica dei fermi amministrativi delle navi umanitarie che hanno salvato vite nel Mediterraneo centrale. Non si ritiene necessario riconoscere le decisioni dei Tribunali amministrativi (TAR) che hanno sospeso questi provvedimenti in attesa che si pronunci la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ?
Continuano anche gli sbarchi autonomi a Lampedusa, centinaia gli arrivi oggi, a conferma che non è certo la presenza delle ONG al largo delle coste libiche che costituisce un fattore di attrazione (pull factor) delle partenze. Semmai questo incremento esponenziale di tentativi di traversate, che si sono concluse anche tragicamente, è da valutare sulla base dei diversi rapporti di forza tra le milizie libiche, che rimangono strettamente legate alle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani. Come è confermato dalla reintegrazione del Comandante/trafficante Milad-Bija nella Guardia costiera di Zawia. Una postazione strategica dalla quale si può controllare, oltre al contrabbando di petrolio dalla raffineria Eni contigua al porto, la movimentazione delle persone migranti in partenza verso le coste europee, ed in reingresso forzato, dopo essere state intercettate in mare. Dal porto di Zawia queste persone vengono poi riportate nei centri di detenzione in mano a milizie che sono composte anche da trafficanti in divisa, e quindi sottoposte ad altre torture per l’estorsione di quella somma di danaro che consentirà loro un’altro tentativo di fuga. Una realtà che tutti conoscono, ma che si cerca di mettere nel dimenticatoio mentre si rilanciano le false informazioni su una pretesa normalizzazione della Libia. Che le recenti mosse del generale Haftar, proprio a sud di Tripoli, smentiscono, dimostrando per l’ennesima volta che le autorità di Tripoli non controllano che una parte del territorio libico, ancora infestato da migliaia di mercenari e di combattenti, anche stranieri, che non hanno nessuna intenzione di deporre le armi. Questo spiega come il numero delle persone in fuga da quel paese sia di nuovo in aumento, e comprenda anche libici che non hanno più prospettive di sopravvivenza nei loro territori di origine, dopo essere stati espulsi dalle loro case e dalle loro città. E per molti migranti subsahariani l’unica via di fuga passa da un porto tunisino.
Le istituzioni europee e gli stati che si affacciano nel Mediterraneo centrale, piuttosto che cooperare per una soluzione politica del conflitto libico, ormai nelle mani di americani, russi, turchi ed egiziani, e creare missioni di soccorso in mare per coloro che sono costretti alla fuga, si accaniscono contro i naufraghi abbandonati in acque internazionali e contro chi li assiste, senza riconvertire a funzioni di soccorso, pure imposte dal diritto internazionale, gli assetti navali ed aerei europei presenti nel Mediterraneo centrale. Si consente ai libici di intercettare un numero crescente di imbarcazioni in acque internazionali, anche se tutti sanno che la Libia, nella sua attuale frammentazione politica e militare, non è in grado di garantire porti sicuri di sbarco. L’8 gennaio 2020, Joseph Borrell, Alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione Europea, rispondendo ad un’interrogazione parlamentare ha negato che siano mai state fornite informazioni da Frontex alla Guardia costiera libica nell’ambito delle operazioni di sorveglianza previste dal regolamento UE (n. 656/2014) ed effettuate dagli Stati membri alle loro frontiere esterne in cooperazione con l’Agenzia. “Ciò si è verificato tuttavia nell’ambito dell’Eurosur Fusion Service — Multipurpose Aerial Surveillance (MAS)”, ha ammesso il commissario Borrell. “Durante l’attività di sorveglianza aerea MAS nell’area di pre-frontiera – dal 2017 sino al 20 novembre 2019, quando Frontex ha individuato situazioni di pericolo nella regione SAR libica, l’Agenzia informato in 42 casi il Centro di coordinamento delle ricerche dello Stato membro più vicino, Eunavfor MED così come le autorità libiche”.
2. Si può attendere che con il miglioramento delle condizioni meteorologiche le partenze dalla Libia si moltiplichino e che in Italia ed in Europa ritorni l’ondata speculativa dei partiti di destra che sollecitano impossibili “blocchi navali” ed una ulteriore risposta giudiziaria di criminalizzazione generalizzata di tutti coloro che si sforzano di salvare vite umane in mare. Vittime di un abbandono sistematico da parte delle autorità marittime che avrebbeo il compito di coordinare i soccorsi. Intanto i tempi delle indagini giudiziarie aperte da anni si allungano ancora, alimentando un clima di perenne sospetto, senza che un solo organo giudicante riesca a fare chiarezza sulle accuse.
Da parte dei governi di Italia e Malta arrivano soltanto dichiarazioni di riconoscimento per le attività della Guardia costiera libica che sta riuscendo ad intercettare un numero crescente di persone a bordo di barconi in acque internazionali, per l’elevato grado di coesione con gli assetti aerei europei di vigilanza delle frontiere e per il coordinamento che si è creato tra le principali agenzie della sicurezza europea operanti in quell’area sotto l’egida di EUROSUR ( Frontex, la missione IRINI di Eunavfor MED, EMSA, EUBAM), le autorità marittime statali ( gli MRCC) e le unità della Marina militare impiegate nel Mediterraneo centrale, con la missione Mare Sicuro e con l’operazione Nauras. Missione italiana che prevede ancora oggi una nave della Marina militare nel porto di Tripoli, con funzioni di asistenza e manutenzione delle motovedette “libiche” donate dall’Italia. Tutto questo permette alle autorità marittime italiane di rispondere alle chiamate di soccorso che le motovedette libiche interverranno nelle acque internazionali rientranti nella cd. zona SAR libica, “on behalf”, su incarico delle stesse autorità italiane.
Soltanto dopo due anni di inerzia forzata per ordine politico, ieri, una imbarcazione della nostra Marina militare è intervenuta per una operazione di ricerca e salvataggio nella stessa zona in cui si sono verificati troppi naufragi per abbandono, ma si tratta di un episodio ancora isolato, probabilmente derivante dal nuovo Piano SAR nazionale, adottato con decreto del 4 febbraio scorso dall’ex ministro delle infrastrutture De Micheli. Nel comunicato della Marina la conferma della presenza stabile di una nostra unità militare nel porto di Tripoli. In latri cominicati, in passato, si dichiarava un elevato livello di cooperazione con la sedicente Guardia costiera “libica” e questo spiega come negli ultimi anni, dopo il ritiro delle unità della Guardia costiera italiana, seguito ai caso Diciotti e Gregoretti, gli assetti navali della nostra Marina militare abbiano preferito collaborare con le autorità libiche, piuttosto che con le navi delle Organizzazioni non governative, senza operare direttamente interventi di soccorso nel Mediterraneo centrale. La conferma di questa scelta di schieramento nei comunicati ufficiali della Marina militare e in molte comunicazioni dirette dalla Centrale di coordinamento della guardia costiera (MRCC )alle navi delle ONG ad ogni segnalazione di un evento di soccorso. Di certo negli ultimi due anni gli interventi di ricerca e salvataggio operati dalla Marina militare impegnata nel Mediterraneo centrale nella missione Mare Sicuro si sono ridotti praticamente a zero. Ed è mancata la collaborazione con le navi delle ONG che invece era prassi quotidiana fino all’inizio del 2017. Vediamo chi riuscirà a dimostrare il contrario. I comunicati ufficiali non si cancellano.
“L’Operazione Mare Sicuro, avviata il 12 marzo 2015 a seguito dell’evolversi della crisi libica, prevede il dispiegamento di un dispositivo aeronavale per garantire attività di presenza, sorveglianza e sicurezza marittima nel Mediterraneo centrale e nello Stretto di Sicilia, in applicazione della legislazione nazionale e degli accordi internazionali vigenti. Con la delibera del Consiglio dei Ministri del 28 dicembre 2017, dal 1 gennaio 2018, i compiti della missione sono stati ampliati a ricomprendere le attività di supporto e di sostegno alla Guardia Costiera e alla Marina Militare libiche per il contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani. Sono assegnati all’Operazione fino a 6 mezzi navali, (dal DM2018 “con l’impiego di 6 mezzi navali, di cui uno dedicato all’assistenza tecnica della Marina/ Guardia Costiera libica e di 5 mezzi aerei”) impiegati prevalentemente nelle attività di presenza e sorveglianza in Mediterraneo Centrale, ed un’Unità navale ausiliaria impiegata per il supporto alla Guardia Costiera e Marina Militare libiche. Le unità d’altura incluse nel dispositivo aeronavale operano in un’area di mare di circa 160.000 km quadrati, situata nel Mediterraneo centrale, che si estende al di fuori dalle acque territoriali di stati terzi ed è delimitata a sud dal limite delle acque territoriali libiche, mentre l’unità ausiliaria opera prevalentemente rimanendo ormeggiata in porto a Tripoli. Solo in caso di esplicita richiesta della controparte libica, una o più unità d’altura del dispositivo aeronavale possono essere impiegate all’interno delle acque territoriali e interne libiche, per la protezione dei mezzi del Governo di Accordo Nazionale (GNA), impegnati nel controllo e contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani o nella condotta di eventi di Ricerca e Soccorso (SAR).“
Malta continua a negare la propria competenza, tanto nel coordinmento dei soccorsi che nella indicazione di un porto di sbarco sicuro, non avendo mai firmato gli emendamenti del 2004 alla Convenzione SAR di Amburgo del 1979. Che invece l’Italia ha sottoscritto , restando perciò vincolata ad intervenire in attività di ricerca e salvataggio anche nelle vastissime zone SAR libica e maltese, quando le autorità marittime di coordinamento di questi Stati non inviino loro mezzi. Si dovrebbe anche ricordare al riguardo come la Convenzione di Amburgo (SAR) del 1979, pur non precisando quali debbano essere i limiti spaziali delle zone SAR, ponga in risalto, in linea con la Convenzione Unclos, che deve esservi un rapporto tra l’estensione delle zone SAR e le capacità dei servizi SAR del Paese responsabile (su questo aspetto si veda U. Leanza, F. Caffio, Il Sar mediterraneo, in Rivista Marittima, Giugno 2015, consultabile al sito www.fondazionemichelagnoli.it). Un principio che non giustifica neppure il mantenimento dell’attuale zona SAR “libica”, a fronte delle continue dichiarazioni delle autorità libiche, ripetute anche di recente, di non potere garantire interventi SAR in questa zona senza l’assistenza ed il coordinamento delle autorità europee. E per la stessa ragione andrebbe ridimensionata la immensa zona SAR maltese.
Ancora in queste ore decine di persone vengono abbandonate in mare all’interno della zona SAR maltese. Per quanto tempo le autorità maltesi potranno continuare a rifiutare il coordinamento di attività di ricerca e soccorso (SAR) in una zona SAR enorme che viene riconosciuta a quel piccolo Stato solo per ragioni economiche? Che valore si puo’ riconoscere agli accordi di respingimento collettivo conclusi tra La Valletta e Tripoli ? Come osservava in occasione dell’inaugurazione dell’anno gudiziario 2019 il Procuratore Generale di Roma Giovanni Salvi, “La dichiarazione di una zona Search And Rescue (SAR) libica, avvenuta nel 2017, non fa venire meno l’obbligo delle nazioni delle SAR vicine, innanzitutto Italia e Malta, di salvare le persone in pericolo, anche in zone di non diretta attribuzione, coordinando gli sforzi dei soccorsi e intervenendo direttamente, se del caso. Se la fase del soccorso è certamente diversa da quella della individuazione del porto sicuro, violare quell’obbligo, che discende dalle Convenzioni internazionali e prima ancora dalla Legge del mare, può esporre a responsabilità penale.”
Nel caso della Libia, manca ancora una Centrale unificata di coordinamento (MRCC) e già solo questa omissione, frutto della perdurante divisione politica e militare del paese, che determina la mancata risposta ad una parte delle chamate di soccorso, o il mancato invio di mezzi idonei per i soccorsi, costituirebbe ragione per una revoca immediata della finta zona SAR “libica” che il governo di Tripoli si è autoriconosciuto nel 2018, dopo il Memorandum d’intesa firmato con il governo Gentiloni il 2 febbraio 2017. Come è dimostrato da recenti eventi tragici, i libici non sono neppure in grado di recuperare i corpi del naufraghi annegati ed abbandonati in alto mare.
Recenti inchieste giornalistiche, basate prevalentemente su testimonianze dirette, oltre a smentire i ricorrenti tentativi di criminalizzazione delle ONG, hanno messo in evidenza l’elevato livello di sinergia tra le autorità europee e quelle libiche nelle attività di intercettazione dei barconi in acque internazionali. Una collaborazione che conta un numero esponenziale di vittime invisibili, nei centri di detenzione, nei quali vengono ricondotti i naufraghi, oltre alle persone che muoiono direttamente in mare durante gli interventi violenti delle motovedette libiche, che nel caso di Zawia sono direttamente controllate dalle stesse organizzazioni criminali che gestiscono i centri di detenzione e le partenze dei migranti verso l’Europa. Se non è così attendiamo smentite, magari dall’ambasciata italiana a Tripoli, che non può non essere a conoscenza dalle missioni della Marina militare italiana, delle attività più recenti del comandante/trafficante Bija reintegrato per un provvedimento del ministro della giustizia di Tripoli nella Guardia costera di Zawia. Esattamente quella Guardia costiera che si è distinta nei respingimenti violenti di questi ultimi giorni.
Al di là delle testimonianze dirette raccolte dai giornalisti d’inchiesta che si sono occupati di traversate del Mediterraneo centrale si può reperire una valanga di documenti, dal 2016 ad oggi, che permette di ricostruire anno dopo anno il raggiungimento di un elevato grado di coesione tra le attività dei guardiacoste libici e delle milizie da cui dipendono, e le attività di Frontex e di Eunavfor Med, strettamente connesse, soprattutto dopo il 2018, con le attività di contrasto dell’immigrazione, che si vuole definire come “illegale”, operate dagli Stati più esposti e dall’Italia in particolare.
3. Sono numerosi i documenti raccolti negli archivi del Parlamento italiano, in particolare negli atti delle Camere e della Commissione Schengen, dove nel 2017 vennero allo scoperto i primi teorici della criminalizzazione dei soccorsi nel Mediterraneo centrale. Già allora si dovevano eliminare tutti i testimoni scomodi di intese politico-militari e di prassi operative che cozzavano con il diritto internazionale del mare e con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. Si doveva realizzare l’aggiramento della sentenza di condanna dell’Italia emessa nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’Uono sul caso Hirsi. Si tratta di documenti che inchiodano le autorità italiane e Frontex a tutte le loro responsabilità per come hanno gestito i rapporti con il governo di Tripoli all’esclusivo scopo di bloccare le partenze dei migranti, senza la minima preoccupazione per la sorte di uomini, donne e bambini condannati a fare naufragio nel Mediterraneo o ad essere riportati nei campi di tortura libici. Nessuno può riconoscere che le attività di intercettazione in acque internazionali operate dai libici siano attività di salvataggio, come sostiene Frontex e come è sfuggito anche al nostro premier Draghi. La Libia non garantisce porti sicuro di sbarco in linea con gli standard dettati dalle Convenzioni internazionali e le autorità europee hanno il dovere di attivare tutte le forme di coordinamento previste dalle stesse Convenzioni e ribadite nel Regolamento Frontex n.656 del 2014, per operare soccorsi in mare anche in quella che si ritiene una zona di ricerca e soccorso “libica”. Perchè i libici, sia in mare che in terra, non sono in grado di garantire l’incolumità fisica e i diritti fondamentali delle persone intercettate in alto mare e riportate a terra.
Sotto questo profilo si deve distinguere, prima e dopo la dichiarazione di una zona SAR ( di ricerca e salvataggio) da parte della Libia. Come sosteneva nel 2017, nel corso di un aaudizione parlamentare, il Comandante generale delle Capitanerie di Porto, l’ammiraglio Vincenzo Melone. “La Libia non ha mai dichiarato l’area Sar, quando finisce l’area di responsabilità italiana c’è solo un enorme buco nero. E chi ha la responsabilità di intervenire? Chiunque abbia notizia di una situazione di pericolo ha l’obbligo di prestare soccorso e di condurre le persone salvate nel porto più sicuro. Un obbligo che ha qualsiasi comandante di qualsiasi nave. Ecco allora che l’area Sar di competenza italiana si amplia dai 500 mila chilometri quadrati previsti dagli accordi a un milione e centomila chilometro quadrati, praticamente la metà del Mediterraneo. È ovvio che da sole le unità navali a nostra disposizione non ce la fanno e dunque dobbiamo chiamare a raccolta chiunque navighi in vicinanza di un evento Sar, mercantili e navi e delle Ong. Voglio aggiungere che gli scopi sociali di chi mette in mare una nave in quell’area sono del tutto ininfluenti in uno scenario di soccorso”. Queste considerazioni andrebbero tenute presenti anche nell’ambito dei procedimenti penali IUVENTA a Trapani e Open Arms a Ragusa, relativi a fatti contestati anteriori alla data di istituzione di una zona SAR “libica”, creata soltanto nel mese di giugno del 2018, quando persino i magistrati che chiedevano l’incriminazione ddgli operatori umanitari ed il sequestro delle loro navi, riconoscevano che di fatto le motovedette libiche erano coordinate dalle autorità marittime e militari italiane.
Il 3 maggio del 2017, in una audizione al Comitato Schengen del Parlamento italiano, il Contrammiraglio Nicola Carlone affermava che ” Il Corpo della Capitaneria di porto-Guardia costiera opera sotto la direzione del Ministero degli interni, Direzione centrale dell’immigrazione delle polizie di frontiera, in sinergia con le forze di polizia in mare e la Marina militare, secondo le modalità di dettaglio disciplinate a livello operativo mediante l’apposito accordo tecnico. Partecipa con proprio personale, mezzi e componente aeronavale anche alle operazioni marittime pianificate dall’Agenzia Frontex, oggi Agenzia per la Guardia di frontiera e costiera europea, sia nel Mediterraneo nell’operazione Triton, sia nelle altre aree con l’operazione Poseidon in Egeo, in quanto a tali attività partecipano non solo le guardie di frontiera, ma anche le guardie costiere nella misura in cui svolgono operazioni di sorveglianza dei confini marittimi e qualsiasi altro compito di controllo delle frontiere. Grazie alla sua competenza trasversale, partecipa anche alle operazioni cosiddette «multifunzione», pianificate in sinergia tra le varie agenzie europee (Frontex, EFCA per il controllo pesca, EMSA per la sicurezza degli inquinamenti marini)”. Secondo il Contrammiraglio Carlone, con riferimento alla Convenzione SAR di Amburgo del 1979, ” non avendo tutti gli Stati costieri ratificato la convenzione, né provveduto ad organizzare una propria specifica organizzazione SAR allo scopo sempre di tutelare il principio di integrità dei servizi SAR, le discendenti linee guida emanate dall’Organizzazione marittima internazionale, un’agenzia delle Nazioni Unite, in base a quanto espressamente previste dalle citate convenzioni, prevedono (attiro la vostra attenzione su questo concetto) che il primo Centro di coordinamento del soccorso marittimo che riceve notizia di una possibile situazione di emergenza, di ricerca e soccorso ha la responsabilità di adottare le prime, immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori dalla propria specifica area di responsabilità. Ciò almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro Centro di coordinamento e di soccorso marittimo, in particolare quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza”.
A partire dal mese di giugno del 2018, con la istituzione riconosciuta dall’IMO di una zona SAR “libica”, le responsabilità europee diventano più evidenti, per il ritiro degli assetti navali delle operazioni Frontex, che negli anni precedenti avevano contribuito a salvare decine di migliaia di persone, sotto il cooordinamento esclusivo della Centrale di coordinamento della Guardia costiera italiana. Responsabilità che diventavano ancora più gravi per l’intensificarsi dei rapporti di collaborazione con la sedicente Guardia costiera “libica” frutto dell’attuazione del Memorandum d’intesa tra Italia e Libia del 2 febbraio 2017 e delle nuove funzioni di formazione e di informazione assegnate alle missioni europee di Eunavfor Med e Frontex in favore dei guardiacoste libici. In base alle Conclusioni del Consiglio Europeo del 28 giugno 2018 lo sforzo di cooperazione avrebbe dovuto essere rivolto al soccorso dei naufraghi, piuttosto che alla collaborazione nei respingimenti con le autorità libiche. Infatti, secondo questa decisione del Consiglio Europeo, “coloro che vengono salvati, a norma del diritto internazionale, dovrebbero essere presi in carico sulla base di uno sforzo condiviso e trasferiti in centri sorvegliati istituiti negli Stati membri, unicamente su base volontaria; qui un trattamento rapido e sicuro consentirebbe, con il pieno sostegno dell’UE, di distinguere i migranti irregolari, che saranno rimpatriati, dalle persone bisognose di protezione internazionale, cui si applicherebbe il principio di solidarietà”. La stessa decisione sottolineava tuttavia “la necessità che gli Stati membri assicurino il controllo efficace delle frontiere esterne dell’UE con il sostegno finanziario e materiale dell’UE…e inoltre…l’esigenza di intensificare notevolmente l’effettivo rimpatrio dei migranti irregolari. Riguardo a entrambi gli aspetti, il ruolo di sostegno svolto da Frontex, anche nella cooperazione con i paesi terzi, dovrebbe essere ulteriormente intensificato attraverso maggiori risorse e un mandato rafforzato“. Da allora si sono moltiplicati i contatti diretti tra Frontex e la guardia costiera libica e si sono moltiplicati i respingimenti collettivi su delega.
Il Regolamento 2019/1896 dell’Unione Europea, relativo alla guardia di frontiera e costiera europea, che abroga i regolamenti (UE) n. 1052/2013 e (UE) 2016/1624, ma non il Regolamento 656/2014 sui soccorsi in mare e sui correlati diritti fondamentali, da tutelare, che duque rimane pienamente efficace, prevede che le informazioni di Eurosur possano essere condivise con terzi paesi, da Stati membri o da Frontex, con una chiara eccezione per coloro che cercano protezione internazionale o sotto il rischio di subire tortura o altri diritti violazioni. In base all’art. 28 del regolamento si prevede espressamente che l’Agenzia (Frontex)coordina i servizi Eurosur per la fusione dei dati, al fine di fornire ai centri nazionali di coordinamento, alla Commissione e a sé medesima informazioni sulle frontiere esterne e sulla zona pre-frontaliera su base regolare e in modo affidabile ed economicamente efficiente. Si prevede inoltre che “Su domanda di un centro nazionale di coordinamento, l’Agenzia gli fornisce informazioni sulle frontiere esterne
dello Stato membro a cui appartiene tale centro e sulla zona pre-frontaliera, che possono essere ottenute tramite:
a) monitoraggio selettivo di porti e coste del paese terzo designato che, tramite analisi dei rischi e informazioni, risultino essere punti di imbarco o di transito di imbarcazioni o altri mezzi utilizzati per l’immigrazione illegale o la criminalità transfrontaliera;
b) localizzazione in alto mare di imbarcazioni o altro mezzo e di aeromobili utilizzati, o che si sospetta siano utilizzati,per l’immigrazione illegale o la criminalità transfrontaliera, anche nel caso di persone in pericolo in mare, allo scopo di trasmettere tali informazioni alle pertinenti autorità competenti ai fini delle operazioni di ricerca e soccorso;
c) monitoraggio di aree designate nel settore marittimo al fine di individuare, identificare e localizzare imbarcazioni e altri mezzi utilizzati, o che si sospetta siano utilizzati, per l’immigrazione illegale o la criminalità transfrontaliera, anche nel caso di persone in pericolo in mare, allo scopo di trasmettere tali informazioni alle pertinenti autorità competenti ai fini delle operazioni di ricerca e soccorso”;
Eppure il Regolamento dell’Unione europea n.656/2014, ancora in vigore, definisce con precisione i casi di distress nelle situazioni di ricerca e soccorso, imponendo interenti immediati, senza attendere le trattative tra gli Stati titolari di zone SAR contigue, e poi afferma all’art.4 che “nessuno può, in violazione del principio di non respingimento, essere sbarcato, costretto a entrare, condotto o altrimenti consegnato alle autorità di un paese in cui esista, tra l’altro, un rischio grave di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura, alla persecuzione o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, o in cui la vita o la libertà dell’interessato sarebbero minacciate a causa della razza, della religione, della cittadinanza, dell’orientamento sessuale, dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale o delle opinioni politiche dell’interessato stesso, o nel quale sussista un reale rischio di espulsione, rimpatrio o estradizione verso un altro paese in violazione del principio di non respingimento”. Nello stesso Regolamento, si prevede, sempre all’art.4, che ” eventuali scambi con paesi terzi di dati personali ottenuti durante un’operazione marittima ai fini del presente regolamento sono strettamente limitati a quanto assolutamente necessario e sono effettuati a norma della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (1), della decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio (2) e delle pertinenti disposizioni nazionali sulla protezione dei dati. Lo scambio con paesi terzi di dati personali riguardanti persone intercettate o soccorse, ottenuti durante un’operazione marittima, è vietato qualora sussista un serio rischio di violazione del principio di non respingimento”.
Appare evidente che quanto sta avvenendo in questi ultimi mesi, con una intensificazione delle attività di intercettazione in acque internazionali da parte di motovedette libiche, come segnalano a più riprese con toni allarmati l’OIM ( Organizzazione internazionale delle Migrazioni) e l‘UNHCR ( Alto Comissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), con gravi refluenze anche sulla rotta tunisina, è diretta conseguenza del consistente aumento del flusso di informazioni che dalle autorità italiane ed europee vengono riversate sulle autorità riconosciute come partner in Libia. Informazioni come il tracciamento aereo dei barconi e sostegno economico che calano sul governo provvisorio di Tripoli e sulle sue agenzie esecutive, come il Dipartimento per il contrasto dell’immigrazione illegale, a tutto scapito delle persone che, una volta riportate in Libia ritornano nelle mani dei trafficanti, che il governo di Tripoli reintegra nei propri posti, come abbiamo visto a Zawia, oppure sono destinati a perire in mare, quando le autorità libiche non riescono a portare a compimento i loro “salvataggi”. Non si vuole far sapere ancora oggi quante siano effettivamente le guardie costiere libiche, da quali ministeri e soprattutto da quali milizie dipendano, come rimane oscuro il flusso finanziario che dall’Unione europea e dall’Italia raggiunge la Libia per sostenere le attività di intercettazione in acque internazionali.
4. Sono facilmente reperbili anche on-line documenti più recenti dell’Unione Europea, come il Patto sulle migrazioni del 23 novembre 2020, e la Raccomandazione (UE) 2020/1365 della Commissione del 23 Settembre 2020 sulla cooperazione tra gli Stati membri riguardo alle operazioni condotte da navi possedute o gestite da soggetti privati a fini di attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo, adottata nella stessa data, che al di là della enunciazione di principi generali astrattamente in difesa dei diritti umani, denotano una linea costante di negazione degli stessi diritti umani, a partire dall’intesa con la Turchia di Erdogan nel 2016, e poi dopo quell’errore fondamentale, con l’avallo alla collaborazione con paesi come l’Egitto o la Libia, nei quali non è garantito alcun rispetto per i diritti umani. Tutto questo si è tradotto nell’appoggio alla barbarie di chi fondava il suo potere sugli arresti indiscriminati e sulla tortura di Stato, pur di fermare, o quanto meno ridurre, l’arrivo di persone migranti in Europa, arrivando a negare, con i respingimenti collettivi su delega, persino il diritto di chiedere asilo in frontiera. Da questo punto di vista non si può davvero accettare il continuo rimpallo di responsabilità tra le autorità nazionali e le istituzioni o le agenzie europee come Frontex, che ad ogni strage in mare, ad ogni intercettazione di migranti in acque internazionali da parte dei libici, nascondono le loro responsabilità dirette e le scaricano sugli Stati. Oppure, come avviene in Italia, sono i politici di questo paese che invocano l’Unione europea come unica sede per soluzioni che potrebbero essere adottate anche a livello nazionale. A partire dal rispetto del diritto internazionale del mare, che non costituisce una scelta politica discrezionale, ma è un obbligo che i tribunali interni dovrebbero controllare, sanzionando tutte le violazioni. Sempre più spesso sono così gli Stati a rimbalzare su Bruxelles o su Frontex, che ha un autonoma personalità giuridica rispetto all’Unione Europea, la violazione degli obblighi di soccorso che le Convenzioni internazionali stabiliscono a carico delle autorità statali. E poi Frontex risponde sostenendo che le responsabilità di coordinamento delle operazioni SAR spettano agli Stati, aggiungendo che in diverse occasioni anche le ONG hanno accettato il coordinamento libico. Non si menzionano piu gli attacchi armati subiti dalle Ong mentre erano impegnate in attivita’ di ricerca e salvataggio. E così il cerchio dell’abbandono in mare si chiude.
Di fronte al ripetersi di naufragi per abbandono e di intercettazioni violente da parte delle motovedette “libiche”, evidentemente coordinate a distanza dalle autorità europee, non mancano documenti recenti che smontano qualsiasi alibi venga fornito dai vertici di Frontex. Sui quali è in corso una attività di inchiesta da parte del Parlamento Europeo, anche per la destinazione dei fondi europei che direttamente, o attraverso l’Italia, si sono fatti arrivare alle milizie libiche. Ma da quegli stessi documenti emerge anche il pesante coinvolgimento delle autorità italiane ed europee che controllano, o dovrebbero controllare, i soccorsi in mare nel Mediterraneo centrale. Come mai Frontex che opera gli avvistamenti nel settore occidentale della Sar libica ( corrispondente alla Tripolitania) non comunica gli eventi di soccorso alle unità navali di Eunavfor MED- IRINI, ormai stabilmente collegata con la stessa agenzia Frontex, sotto l’egida di EUROSUR, che dispone di navi veloci che operano nel settore orientale della Sar libica. Si tratta di navi che potrebbero andare a velocità tripla rispetto a quella delle imbarcazioni delle ONG e quindi potrebbero intervenire con la massima tempestività e con dotazioni elettroniche assai sofisticate, per rintracciare le imbarcazioni in procinto di fare naufragio davanti alle coste della Tripolitania, dove si verifica la maggior parte delle traversate verso l’Europa. Ma si privilegia comunque la collaborazione con la sedicente Guardia costiera libica, ed il ricorso anche a droni al fine di segnalare gli avvistamenti, e poi la sorte dei migranti prossimi a fare naufragio non interessa più a nessuno. Su questo ci sono già interrogazioni parlamentari a livello europeo. E lo stesso coinvolgimento di unità militari italiane ed europee nelle attività della sedicente Guardia costiera “libica” emerge dalle migliaia di pagine dei brogliacci concernenti le intercettazioni di giornalisti, avvocati ed operatori umanitari, nell’ambito del procedimento Iuventa ( e altri) a Trapani. Se si andrà a processo tutte questo materiale sarà approfondito dalle indagini difensive, alla ricerca delle responsabilità di chi ha accreditato ricostruzioni palesemente falsificate ed ha abbandonato le ONG, da sole, ad affrontare situazioni di ricerca e soccorso in acque internazionali, e in rari casi, persino in acque libiche, venendo meno ai propri doveri di intervento e di coordinamento. Perché quello che è successo con il sequestro di navi umanitarie, che avrebbero potuto soccorrere migliaia di vite e che sono state bloccate in porto a marcire, non si ripeta mai più.
5. Non basta ribadire le legittime richieste di riaprire canali legali di ingresso, che vadano ben oltre i limitatissimi canali umanitari di cui si è fin qui parlato a scopo di propaganda, come non si può attendere che la cooperazione italiana presente in Libia, e finanziata dal ministero degli esteri, possa riuscire a garantire il rispetto minimo dei diritti umani, persino all’interno di quei centri di detenzione nei quali ancora oggi avrebbe diritto di fare ingresso. Gli equilibri politici che caratterizzano le attuali maggioranze di governo in Italia ed in Europa non lasciano neppure molte speranze sul riavvio di una missione di soccorso in mare, sul modello della missione italiana Mare Nostrum del 2014. Le richeste in tal senso rivolte all’Unione europea, non seguite da comportamenti e da fatti congruenti, sono destinate a cadere nel vuoto (politico) e a rimanere fugaci dichiarazioni di polemica elettorale. Alla politica degli annunci va sostituita la concretezza della individuazione delle responsabilità. Si deve per tutte queste ragioni proseguire con forza nell’attività di svelamento dei rapporti di integrazione tra le autorità europee e quelle libiche nella pratica degli abbandoni in mare e delle operazioni di push back (respingimento) su delega. Che sono al centro delle strategie individuate nei documenti europei, e poi attuate a livello nazionale, che non si vorrebbe fare conoscere all’opinione pubblica, anche per ridurre il rischio di denunce. Ed è per questa ragione che si sono messi nel mirino tutti quei soggetti, come giornalisti e avvocati, che potrebbero documentare il gioco al massacro sulla pelle dei migranti in transito nel Mediterraneo centrale, condiviso dalle autorità europee, per dimostrare la loro efficacia negli interventi di contrasto di quella che continuano a definire soltanto come immigrazione “illegale”. Ma fuori dalla legalità internazionale e dalle norme interne, anche di rango costituzionale, ci stanno tutti coloro che elaborano, e poi attuano, politiche e prassi amministrative e giudiziarie che, oltre a scontrarsi con il diritto internazionale, si pongono in netto contrasto con il riconoscimento dei diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita, che spettano a tutte le persone, da dovunque provengano, ovunque si trovino.
On 15 January 2021, Operation EUNAVFOR MED IRINI and Frontex, the European Border and Coast Guard Agency, signed a working arrangement whereby the two entities will, inter alia, exchange information about criminal activities. This exchange will take place in particular through direct contacts, the use of dedicated systems such as the Joint Operations Reporting Application, provision of the EUROSUR Fusion Services and via participation in coordination mechanisms, such as the Crime Information Cell.1. Are there cases in which information collected either by IRINI or Frontex about boats transporting migrants and personal information about migrants on board these boats is directly or indirectly given to the Libyan coastguards or other third-party actors, and, if so, to whom (including EU Member States)?2. Since 21 July 2020, how many distress calls have IRINI vessels received and how many have they responded to?3. In cases in which IRINI assets spotted potential distress situations in the Libyan Search and Rescue Zone, to which Maritime Rescue Coordination Centres (MRCCs) did IRINI send notice of these situations, and was adequate search and rescue carried out by these MRCCs? |