Quale giurisdizione per i migranti bloccati sulla rotta del Mediterraneo centrale ?

di Fulvio Vassallo Paleologo

L’Italia è stata più volte condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo per avere effettuato respingimenti collettivi vietati dal Quarto protocollo allegato alla CEDU e dall’art. 19 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, e per avere violato il divieto di trattamenti inumani o degradanti sancito dall’art. 3 della CEDU, oltre che per non avere riconosciuto effettivamente i diritti di difesa previsti dall’art. 13 della CEDU e dall’art. 47 della stessa Carta dei Diritti fondamentali UE. Si ricordano in particolare i casi Hirsi (2012), Sharifi (2014), Khlaifia ( 2016), Richmond Yaw ( 2016). In tutti questi casi le difese dei differenti governi italiani hanno cercato di eludere la giurisdizione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, giungendo persino a contestare l’esistenza dei ricorrenti o l’autenticità delle procure conferite dai ricorrenti agli avvocati. In molti casi queste sentenze di condanna non hanno avuto esecuzione da parte del governo. Nel caso della sentenza sul caso Khlaifia la decisione definitiva della Grand Chambre escludeva la violazione diretta del divieto di tortura o di altri trattamenti inumani o degradanti. Ma restava la condanna per la prolungata detenzione senza titolo nel Centro di prima accoglienza e soccorso ( oggi Hotspot) di Contrada Imbriacola a Lampedusa, uno spazio nel territorio italiano che si è cercato di sottrarre alla giurisdizione ed alla stessa applicazione delle normative vigenti, come si sta verificando ancora in questi giorni.

Malgrado le condanne definitive da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che ha riaffermato la sua giurisdizione anche nel caso di  violazioni commesse in acque internazionali, e nonostante il peggioramento della situazione politica e militare nei paesi di transito, come è ormai ampiamente documentato da numerosi rapporti internazionali, l’attuale governo italiano ha chiesto ed ottenuto, con la Conferenza di Malta del 3 febbraio 2017, un sostanziale avallo da parte dell’Unione Europea, e un consistente supporto economico, per esternalizzare i controlli di frontiera e trasferire sui paesi di transito i poteri di arresto e respingimento che in passato sono stati esercitati dalle autorità italiane in modo non conforme ai Trattati ed alle Convenzioni internazionali. Oggi la politica europea in Africa, ed in Libia in particolare, basata sulla deterrenza delle migrazioni, con la copertura degli aiuti economici, appare in crisi. Sembra non rimanga altra opzione che quella militare.

Per ottenere il risultato che non si poteva più conseguire eseguendo direttamente respingimenti collettivi e praticando detenzioni arbitrarie in spazi sottratti a qualsiasi giurisdizione, nei quali le persone trattenute non potevano fare valere i più elementari diritti di ricorso, si sono creati, dopo i CIE ( oggi definiti Centri per i rimpatri – CPR) , gli Hotspot, fulcro della Roadmap presentata dall’Italia alla Commissione Europea nel 2015. Tutte le politiche europee incentrate sul blocco dei migranti stanno avendo un costo molto più alto del previsto, non solo in termini di vite umane violate o clandestinizzate, ma anche in termini puramente economici. L’Unione Europea, se insisterà in queste politiche di contrasto dell’immigrazione, si avvia al dissesto economico, sarebbe bene che i suoi cittadini, tanto preoccupati della “sicurezza” dei confini, lo comincino a percepire. Adesso lo ammette anche il Presidente della Commissione Europea Juncker.

Si è fatto ricorso agli accordi bilaterali con i paesi di transito per affidare alle forze di polizia di questi paesi, nei quali non esisteva evidentemente alcuna garanzia di stato di diritto, né tanto meno la possibilità di ottenere uno status di protezione, il compito di arrestare, respingere e detenere quelli che venivano genericamente definiti come “migranti illegali”, anche quando erano evidentemente portatori di istanze di protezione o soggetti vulnerabili. Nei confronti di tutti gli operatori umanitari che non hanno assecondato queste politiche, si è fatto ricorso ad una criminalizzazione violenta che ha alimentato campagne di stampa e movimenti di opinione pubblica, nella direzione di negare i più elementari diritti della persona umana definita come “illegale”. Una volta rese “illegali” le persone, con la distinzione tra migranti economici e potenziali richiedenti asilo, è stato facile dichiarare illegali le attività di soccorso e di assistenza.

Le intese e gli accordi stipulati tra gli Stati dell’Unione europea e i Paesi terzi devono essere valutati in considerazione degli effetti che producono, al di là delle affermazioni formali di rispetto dei diritti umani e delle Convenzioni internazionali, con particolare riguardo al diritto alla vita, all’ integrità fisica e psichica ed alla libertà personale di quanti ne subiscono le conseguenze. Basi pensare agli accordi con l‘Egitto, con la Nigeria e con il Sudan per cogliere immediatamente la portata devastante di quelle intese, spesso allo stato di Memorandum ( MoU) neppure approvate dal Parlamento nazionale, sulla vita e sui corpi dei migranti che ne sono oggetto. Adesso sembra che i rimpatri in Sudan ed in Nigeria siano stati sospesi, ma gli effetti che hanno già prodotto costituiscono una macchia indelebile per il nostro paese.

Le conseguenze di questi processi di esternalizzazione , condensati nel Processo di Khartoum, e nei vertici di Malta del 2015 e del 2017, sono stati assai gravi in tutti i paesi di transito, basti pensare all‘Egitto ed al Sudan, ed ancora più gravi potrebbero essere in futuro se si pensa agli accordi in corso di definizione con il Niger, con il Mali ed in prospettiva con l’Etiopia ed altri paesi dell’Africa subsahariana. Su questo terreno le responsabilità europee, sotto la guida, o il ricatto dei paesi del Gruppo di Visegrad ( Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia), ai quali presto potrebbe aggiungersi l’Austria, stanno superando le responsabilità dell’Italia, che ha innescato processi che adesso non appare più in grado di controllare e dalle conseguenze imprevedibili, soprattutto in territorio libico e nel Mediterraneo centrale.  Le conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo implicano una precisa assunzione di responsabilità sulle politiche di morte che l‘Unione Europea sta intensificando proprio con riguardo alla rotta del Mediterraneo centrale ed ai rapporti con le diverse autorità libiche. Una politica di cui potrebbe essere proprio l’Italia a pagare il prezzo più alto.

Nel caso degli accordi con le milizie libiche, perché con le milizie si è trattato sotto il paravento degli accordi con i sindaci, e non solo a Sabratha, come se i sindaci delle città libiche potessero restare un solo giorno al loro posto senza il supporto delle milizie che controllano le stesse città.

Si è trattato con le autorità di Tripoli e di altre città della Tripolitania con la piena consapevolezza che queste autorità costituite sul territorio  non rappresentavano una entità statale unica, che di fatto si è dissolta da anni, rendendo improprio e illegittimo l’esercizio di un potere negoziale che ha prodotto una inversione dei rapporti di forza sui territori e una definitiva disintegrazione dell’entità statale Libia. Ne è seguito un drastico peggioramento delle condizioni di vita dei migranti intrappolati nei tanti centri di detenzione, sia in quelli controllati dalle autorità ufficiali, che quelli, definiti “informali” sotto il controllo esclusivo delle milizie. Milizie foraggiate con i soldi italiani ed europei, che talvolta sono diventate guardie di frontiera.

Questo capovolgimento  di fronti è stato possibile per il supporto economico e logistico offerto dall’Unione Europea, sia con risorse economiche sempre più ingenti, che con le attività di formazione e di contrasto in mare affidate all’operazione Sophia di Eunavfor Med ed all’agenzia Frontex, adesso definita Guardia costiera e di frontiera europea, dopo il Regolamento n.1624 del 2016. Nel caso della fascia mediterranea della Tripolitania è stato determinante l’apporto della Marina italiana, ormeggiata con  una delle sue navi nel porto di Tripoli per curare la manutenzione delle motovedette libiche e presente con altri assetti aeronavali al largo delle acque territoriali libiche, in funzione di protezione delle piattaforme petrolifere offshore, diventate nuovo punto di riferimento delle rotte sempre più lunghe seguite dalle imbarcazioni che i trafficanti continuavano comunque a fare partire. Ed i migranti continuano a morire, malgrado qualcuno proclami la chiusura della rotta libica.

L’eliminazione, non soltanto l’allontanamento, delle ONG che operavano soccorso umanitario nelle acque del Mediterraneo centrale è stato un passaggio fondamentale di questa strategia di sbarramento. Occorreva fare uscire senza troppi testimoni le motovedette libiche dalle loro acque territoriali in modo che potessero raggiungere e bloccare le imbarcazioni cariche di migranti, anche sotto il controllo complice del Comando centrale della Guardia costiera italiana (IMRCC). Per questo si è fatto e si continua a fare di tutto per allontanare quelle navi che, nel pieno rispetto delle leggi e delle Convenzioni internazionali, svolgevano attività di ricerca e salvataggio, dopo che gli stati europei avevano imposto la fine dell’operazione mare Nostrum ed avevano ritirato dalla rotta del Mediterraneo centrale la maggior parte delle navi coinvolte nell’operazione Triton di Frontex. Si tratta di fatti che assegnano precise responsabilità per omissione, che nessuno potrà escludere, alle autorità europee ed agli organi statali che li hanno determinati come alle autorità militari che vi hanno dato esecuzione. Di certo, dopo l’allontanamento di quasi tutte le navi umanitarie delle ONG,  non basterà assegnare alle navi commerciali funzioni di ricerca  e soccorso che non sono in grado di affrontare continuativamente.

Come si è fatto in territorio libico anche nelle acque  territoriali e poi nelle acque internazionali si sono create zone sottratte a qualsiasi giurisdizione, spazi nei quali i diritti e le vite delle persone potevano essere impunemente violati senza che nessuno dei decisori politici o dei vertici militari che quelle violazioni producevano fossero passibili di una qualsiasi attribuzione di responsabilità. Oggi in Libia ci sono le fosse comuni con i cadaveri delle persone senza nome recuperate in mare, questo va detto, perché tutti lo nascondono. Chi pagherà per quelle vittime ? Ancora colpa delle ONG che non ci sono piu’?

Tutto questo è avvenuto con il consenso di una consistente parte dell’opinione pubblica che ha salutato con favore il trattenimento in Libia nei centri di detenzione di una moltitudine di persone, uomini, donne, bambini, che erano e rimangono evidentemente sottoposti ad ogni sorta di abusi, con un numero imprecisato di corpi abbandonati nelle fosse comuni in territorio libico. E non sono mancati anche elogi per il ministro Minniti che a partire da agosto, da quando ha fatto fuori le navi umanitarie con l’utilizzo strumentale di un “Codice di condotta” che oggi nessuno ricorda più, e con accordi con le milizie libiche e con la Guardia costiera di Tripoli, ha ridotto del 70 per cento i soccorsi in mare nelle acque del Mediterraneo centrale, mentre il numero delle vittime è rimasto assai vicino ai dati terribili dello scorso anno. Sono più di 2600 le vittime accertate nei primi dieci mesi dell’anno, che non si è ancora concluso, e soltanto oggi dobbiamo aggiungere a questo elenco almeno altre sette persone morte a bordo di un gommone soccorso in acque internazionali.

Ma non basta. Gli accordi e protocolli operativi, richiamati dal Memorandum d’intesa firmato da Gentiloni il 2 febbraio scorso, stipulati con precedenti autorità libiche che, a differenza di quelle attuali, controllavano l’intero territorio nazionale, instaurano diversi livelli di coordinamento nelle attività di contrasto dell’immigrazione irregolare che estendono al governo italiano la responsabilità delle gravissime violazioni commesse ai danni dei migranti bloccati in mare e ricondotti nei centri di detenzione, come quello di Zawiya, ed in altri centri sotto il controllo diretto ed esclusivo del governo di Tripoli. Mentre appare ben funzionante il sistema di coordinamento nelle attività di contrasto di quella che si definisce soltanto come “immigrazione illegale” non sembrano operativi protocolli concordati che prevedano lo sbarco delle persone soccorse in “place of safety”, in porti sicuri, come sarebbe imposto dal Diritto internazionale del mare,a partire dalla Convenzione SAR diel 1979 e dalla Convenzione UNCLOS delle Nazioni Unite del 1982.

Le autorità navali e statali che coordinano le attività di soccorso in coordinamento con la sedicente Guardia costiera libica non possono ignorare l sorte che subiscono i migranti che ancora in numero consistente vengono “soccorsi” in acque internazionali  e riportato in un territorio dal quale non potranno fuggire se non dopo avere subito altri abusi ed altre violenze. Per questo motivo , se è vero che la Guardia costiera libica o le milizie libiche perpetrano ogni sorta di abusi sulle persone sottoposte alla loro potestà, in assenza di qualsiasi garanzia giurisdizionale o di un qualsiasi sistema giudiziario o amministrativo che in Libia sanzioni quegli abusi, non si può che imputare alle autorità italiane ed europee che quegli accordi hanno concluso, finanziato ed eseguito, una precisa responsabilità. Una responsabilità da valutare nelle sedi competenti, per concorso  nei reati commessi ai danni dei migranti, prima che possano entrare nel territorio dell’Unione Europea, allo scopo, sempre più spesso raggiunto, di impedire loro l’accesso al territorio  di un paese UE, e dunque la possibilità di fare valere una domanda di protezione internazionale. Chi spara contro una nave che soccorre persone in mare va sanzionato, e se non interviene lo stato e gli stati che dovrebbero garantire il soccorso in mare, vanno sanzionati anche questi. Gli attacchi contro le navi umanitarie non sono mai cessati, anche per colpa di chi non ha più fornito loro adeguata copertura.

Rimane sempre più incerta la questione della suddivisione delle zone SAR  nel Mediterraneo.e delle responsabilità di intervento dei paesi che ne sono titolari, che sarebbero obbligati a stipulare ed a attuare accordi operativi tesi a salvare vite umane in mare, piuttosto che respingere lontano dalle proprie coste persone che cercano soltanto la salvezza, per sé e le proprie famiglie. Malgrado quanto dichiarato dopo gli accordi con l’Italia,  o meglio malgrado quanto dichiarato dal governo di Tripoli, La Libia non ha ancora dichiarato ufficialmente una zona SAR, riconosciuta a livello internazionale, ammesso che si possa ancora parlare di un unico stato libico, e Malta è titolare di una vastissima zona SAR nella quale però non riesce a garantire attività di ricerca e soccorso, al punto che ne affida generalmente il coordinamento alla Guardia costiera italiana ( Comando centrale – IMRCC). Ma con qualche eccezione, almeno così è stato dichiarato in occasione della strage dell’8 ottobre scorso 40 miglia al largo dell’isola tunisina di Kerkennah, quando si è detto che il naufragio sarebbe avvenuto in zona SAR coordinata dalle autorità maltesi.

La questione delle zone SAR non va confusa con la confinazione delle acque territoriali, a 12 miglia dalla costa, o delle cd. zone contigue, fino a 24 miglia dalla costa, che peraltro la Libia non ha mai dichiarato.  Le questioni della giurisdizione vanno risolte sulla base delle regole generali dettate dalle Convenzioni internazionali e dal diritto penale nazionale. Diverse procure italiane hanno chiesto l’archiviazione per reati contestati ad autorità militari italiane adducendo, tra gli altri argomenti, il difetto di giurisdizione. E processi importanti, come quello per la strage dell’11 ottobre 2013 sembrano destinati all’archiviazione. Quale giustizia per le vittime ed i loro parenti ?  Come se per i reati commessi in acque internazionali fosse sempre da escludere la giurisdizione nel caso di processi per omissione di soccorso a carico di navi militari, e invece  la stessa giurisdizione risultasse scontata nel caso di navi umanitarie che operavano in acque internazionali attività di ricerca e soccorso, sotto il coordinamento della Guardia Costiera italiana (IMRCC), ma senza entrare nei porti italiani. Come sembra incerta la suddivisione delle zone SAR, sembra sempre più incerta la questione della giurisdizione. Di certo non dovrebbero valere due pesi e due misure a seconda dei reati e degli imputati. O del vento politico che tira.

Il tentativo del governo italiano e più in generale delle autorità di governo dell’Unione Europea è quello di sottrarre alla giurisdizione le persone che, sia in mare che in terra, in Africa come in Europa, sono “oggetto” delle procedure di respingimento, internamento e riammissione, ricorrendo a zone extraterritoriali o con l’accordo con stati nei quali non si può esercitare una giurisdizione in base al diritto interno. Stati spesso caratterizzati da una diffusa corruzione, che si estende dal traffico di migranti al traffico di armi o materie prime ( come il petrolio). Una corruzione che lambisce anche il territorio europeo, basti pensare a Malta ed alla Sicilia. Quando si sottolinea la necessità di collaborare con i paesi terzi extra UE nella lotta contro l’immigrazione che viene definita “illegale , molto spesso si alimentano proprio le filiere che quella immigrazione favoriscono e da cui traggono risorse economiche. Per questa ragione occorre adottare una valutazione dei fatti denunciati che tenga conto delle categorie giuridiche formali, utilizzabili a livello interno o internazionale, ma che riesca anche ad andare alla sostanza delle violazioni subite dalla popolazione migrante in transito dalla Libia e ne individui possibili fonti di responsabilità e condanna. Qualcuno sta indagando sui tentativi di sequestro in acque internazionali da parte di motovedette libiche, che si sono verificati negli ultimi mesi ai danni di navi delle ONG, che anche per questa ragione sono state costrette a ritirarsi ? . Cosa sta facendo la missione europea EUBAM Libia presente da anni in quel paese ?

L’Organizzazione non governativa Sea Watch ha presentato un esposto alla Corte Penale internazionale. La migliore risposta a chi ha accusato le ONG di collusione con i trafficanti. Da queste accuse infamanti ci si difende passando al contrattacco.

The reason for the initiative of Sea-Watch, which could now potentially have legal consequences, stems from an incident on 10th May in which a patrol boat of the Libyan Coastguard dangerously cut across the bow of the Sea-Watch 2 in order to subsequently reach a wooden boat with c. 500 people on board. The captain of the patrol boat forced the refugees and migrants to stop their boat at gunpoint. Subsequently, they were brought back to Tripoli and from there to the infamous ‘Detention Centres’.“All incidents took place outside Libyan territorial waters and this represents a clear violation of the international ban on refoulement.
It would be an important step if the Prosecutor of the International Criminal Court in The Hague would investigate the crimes of the so-called Libyan Coast Guard closely.
The evidence presented by Sea-Watch is precise and concrete. Now it is up to the International Criminal Court to take the necessary action.”, says Sea-Watch lawyer Jens Janssen. “Sea Watch contacted and encouraged the International Criminal Court to investigate the incidents. The ICC examines if an investigation will be opened.”

La Corte Penale internazionale si sta interessando di quanto avviene dopo l’intervento della Guardia costiera libica. Le recenti attività della magistratura italiana, ancora concentrate sulle ONG “colluse” con i trafficanti, e la crescente difficoltà di raggiungere ed attivare i ricorsi in via di urgenza presso la Corte di Strasburgo, sembrano garantire impunità alle organizzazioni criminali ed ai loro referenti politici e militari .Che in Libia, o meglio in quello che rimane oggi della Libia, in concorso con le autorità militari e politiche degli stati dell’unione Europea, detengono illegalmente, abusano fisicamente, abbandonano in mare, riconsegnano i migranti  a gruppi paramilitari che praticano abitualmente lo stupro, la tortura a scopo di estorsione, sembra anche in qualche caso l’espianto di organi.Per chi si trova in territorio libico, o vi viene ricondotto, dopo essere stato “soccorso” in mare non ci sono speranze di rivolgersi ad una autorità giudiziaria. Centinaia di migliaia di persone sono alla mercé di bande militari, talvolta colluse con i trafficanti, altre volte nei panni di guardie di frontiera.

Per riaffermare la giurisdizione su questi veri e propri crimini contro l’umanità, di diffusione ormai generalizzata in Libia e negli altri paesi confinanti ,occorre rivedere tutti gli accordi bilaterali, e sottrarre le persone in stato di detenzione alle vessazioni delle bande paramilitari. Occorre aprire canali legali di ingresso, almeno per presentare una istanza di protezione, garantendo l’evacuazione immediata di tutti i soggetti vulnerabili, Occorrono indagini basate sulle denunce della società civile e non contro la società civile che pratica solidarietà. Sappiamo quale è il costo di questa attività di denuncia Ma la società civile, con i giornalisti ed i giuristi indipendenti, continuerà a denunciare.

Nessuno si illuda che gli sbarchi e gli arrivi in Italia cesseranno con il ricorso a misure di militarizzazione delle frontiere o ad accordi con le milizie in Libia o in altri paesi. Non ci crede neppure Frontex. Non si possono attendere i tempi di una politica più attenta ai sondaggi elettorali che al rispetto dei diritti fondamentali della persona. Occorre per questo mobilitare ed aggregare la capacità di denuncia della società civile e del mondo della solidarietà, oggi sotto attacco ma ancora in grado di reagire. Osservatori come quello nato dalla Carta di Milano, associazioni. giuristi  e giornalisti indipendenti e anche semplici cittadini solidali,sulle due sponde del Mediterraneo,  dovranno riconnettersi con quel pezzo di mondo nel quale si vorrebbe che non sia più applicabile alcuna legge o garanzia dei diritti fondamentali della persona, che spettano ad ognuno indipendentemente dalla sua condizione giuridica e dalla sua nazionalità. Anche in acque internazionali o nei territori europei, non solo in Africa. Sarà necessario raccogliere prove, ascoltare i testimoni, dare voce alle vittime con uno sforzo aggiuntivo di comunicazione e di condivisione, che saranno le armi più importanti contro i processi di rimozione, se non di mistificazione dei fatti, che oggi sembrano vincenti.