di Fulvio Vassallo Paleologo
Il 19 settembre scorso il Tribunale di Trapani, sezione per il riesame delle misure cautelari, con un provvedimento depositato il successivo 22 settembre, ha respinto il ricorso presentato dalla Ong tedesca Jugend Rettet, contro il sequestro della nave “Iuventa” disposto il 2 agosto di quest’anno dal Giudice delle indagini preliminari su richiesta della Procura di Trapani, per avere costituito il mezzo con cui si sarebbe realizzato il reato di agevolazione dell’immigrazione clandestina previsto dall’art. 12 del Testo Unico del 1998 n.286 in materia di immigrazione. Una vicenda giudiziaria, e prima ancora politica, sulla quale solo adesso si sta cominciando a diffondere una informazione corretta.
Il 18 settembre, dunque un giorno prima dell’adozione del provvedimento da parte del giudice trapanese, veniva pubblicato sulla rivista “Questione Giustizia” un intervento del Sostituto Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma, dal titolo “ Il sequestro della Iuventa: ONG e soccorso in mare”. Alla stessa pubblicazione era allegata copia del decreto di sequestro preventivo del GIP di Trapani del 2 agosto. Il contributo conteneva interessanti considerazioni su importanti questioni di diritto internazionale ed interno che, al di là delle deduzioni che presenteranno i legali della Ong Jugend Rettet nel ricorso per Cassazione, meritano un approfondimento, proprio al fine di verificare come si possano conciliare i principi dell’intervento di ricerca e salvataggio in mare, con il quadro di legalità che tutti auspicano.
Lasciando ai lettori la verifica delle posizioni espresse dal Sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Roma , di quelle espresse successivamente dal Tribunale del riesame di Trapani, e già in precedenza di quanto affermato a fondamento del decreto di sequestro della nave dalla Procura e dal GIP di Trapani, cercheremo di approfondire alcuni passaggi che meritano particolare attenzione, non solo con riferimento alla singola vicenda processuale, ma anche nell’ambito più ampio della regolamentazione giuridica degli interventi di ricerca e salvataggio ( Search and Rescue –SAR) prevista dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa nazionale ed europea.
Non si può innanzitutto escludere che le navi delle ONG avessero il diritto-dovere di svolgere attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali al limite delle acque territoriali libiche. L’art. 17 della Convenzione di Montego Bay del 1982 (UNCLOS) prevede che le navi di tutti gli Stati, costieri o privi di litorale, godono del diritto di passaggio inoffensivo attraverso il mare territoriale. La Convenzione disciplina in modo tassativo le condizioni di esercizio di tale diritto. In particolare, il passaggio deve essere “continuo e spedito” (art. 18 UNCLOS). Tuttavia, “[i]l passaggio consente (…) la fermata e l’ancoraggio, […] se questi […] sono finalizzati a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo o in difficoltà”. Il passaggio delle navi private, e dunque anche di quelle appartenenti alle ONG, attraverso il mare territoriale di qualunque Stato, non può essere considerato quale recante “pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero” (art. 19.1 UNCLOS). L’art. 19.2.e UNCLOS prevede esplicitamente che l’imbarco e lo sbarco di persone al solo fine di ottemperare agli obblighi di salvare la vita in mare sono attività ricomprese nella nozione di passaggio inoffensivo. E’ altrettanto noto che sconfinamenti per ragioni di soccorso all’interno delle acque territoriali non integrano alcun illecito penale, anche se per ragioni di urgenza non sono autorizzati preventivamente dalla autorità SAR competente o dalle autorità del paese costiero. Esiste comunque un obbligo di avviso rispetto a queste autorità, quando si proceda ad un intervento di soccorso maturato sulla base di una visione diretta o di una chiamata telefonica che dia certezza del luogo e delle condizioni di urgenza del soccorso da operare. La circostanza che non sia possibile accertare la provenienza della telefonata di soccorso, ne i suoi autori, quando invece corrisponda al vero quanto segnalato – trovarsi una imbarcazione in una situazione di distress in un punto preciso individuato da coordinate geografiche- non esclude l’obbligo immediato di ricerca e soccorso.
Il fulcro del processo di Trapani è sulla circostanza che l’equipaggio della Juventa, non meglio identificato, dopo il provvedimento di sequestro eseguito a Lampedusa, sembrerebbero raggiunti da avviso di garanzia soltanto il Comandante della nave e un operatore umanitario responsabile del soccorso sul gommone di servizio della nave, avrebbe agevolato l’”immigrazione clandestina”, ubicandosi al limite delle acque territoriali libiche, in qualche caso, secondo l’accusa ( che però non ha fornito prove di tale circostanza) spingendosi all’interno delle acque territoriali (dodici miglia dalla costa) per realizzare quelle che negli atti dei giudici trapanesi vengono definite “consegne concordate”.
Per ricostruire il quadro accusatorio ancora a carico di ignoti, ma già sufficiente a costituire presupposto del decreto di sequestro, sono state ritenute determinanti le testimonianze e le riprese fotografiche di due operatori della “security” della nave Vos Hestia di Save The Children, che in realtà, oltre ad essere dipendenti di una società di sicurezza privata legata a quest’ultima ONG da un rapporto contrattuale, erano ex agenti di polizia, che però operavano in contatto con lo SCO, uno dei servizi di sicurezza dello stato italiano. Uno di loro avrebbe operato addirittura sotto falso nome. I provvedimenti che autorizzano tale attività “sotto copertura” sono tuttavia successivi al verificarsi dei fatti contestati, e le dichiarazioni, come la documentazione fotografiche fornite dagli stessi vengono assunte come prove inattaccabili, quando invece presentano numerosi aspetti equivoci e sono in parte smentite da diverse testimonianze già acquisite agli atti del processo. Le fotografie relative ai fatti di asserita “collusione” di non meglio identificati operatori della Juventa con persone ritenute come “trafficanti”, solo perché intente a trafugare un motore da uno dei mezzi soccorsi, o a rimorchiare alcuni mezzi usati dai migranti, vengono assunte come indizi di reato, se non di colpevolezza, tali da giustificare il sequestro della Juventa. Tutto l’impianto accusatorio si regge su una ricostruzione dei fatti che appare orientata a “costruire” profili di responsabilità penale sulla base di circostanze anche banali, come l’innalzamento di una bandiera di cortesia, o segni di saluto rivolti dai pretesi “trafficanti”, non all’indirizzo dell’equipaggio della Juventa, ma apparentemente verso le persone ancora a bordo del gommone in fase di soccorso.
Una ricostruzione parziale dei fatti che corrisponde alla vulgata “sparata” a ripetizione dai media contro le ONG per tutta l’estate. Le stesse fotografie agli atti del processo, relative a circostanze di soccorso abituali in decine di operazioni SAR ai limiti delle acque territoriali libiche, incluse quelle alle quali partecipava direttamente la stessa Guardia Costiera italiana, sono state spacciate dai media come prova finale di accusa, se non di condanna anticipata, di operatori umanitari che erano intervenuti con l’esclusiva finalità di soccorrere vite umane in mare. Chiunque avesse messo in mare quelle persone, e qualunque fosse la sorte dei mezzi e dei motori che ne avevano permesso l’arrivo in acque internazionali, quelle persone andavano salvate con priorità assoluta.
Secondo gli ex agenti di polizia infiltrati a bordo della nave di Save The Children, e dunque secondo i giudici che li hanno ritenuti attendibili, si sarebbe invece realizzata una collusione avente ad oggetto vere e proprie “consegne concordate” di migranti, una intesa operativa tra i trafficanti libici e gli operatori umanitari a bordo della nave, battente della ONG tedesca ma con bandiera olandese, al fine di portare in salvo e trasbordare su altre navi migranti fatti partire dalla costa libica proprio in vista del successivo intervento di soccorso da parte della Juventa. Si contesta pure che, in un paio di casi componenti dell’equipaggio della Juventa avrebbero “restituito” le imbarcazioni usate dai migranti a non meglio identificati “trafficanti” presenti nella zona dei soccorsi con altri piccoli mezzi. Come se un piccolo gommone di servizio con un motore di appena quindici cavalli potesse rimorchiare per molte miglia un barcone pesante diverse centinaia di chili. Addirittura “verso le coste libiche”.
E’ rimasta invece sullo sfondo la circostanza che in molti di questi eventi SAR era ben presente sulla “scena del crimine” anche qualche mezzo della sedicente Guardia Costiera libica, circostanza della quale pure la Procura di Trapani dà conto. Come sono rimaste fuori dalle valutazioni dei giudici trapanesi le prove evidenti di collusione tra trafficanti, milizie e Guardia costiera libica, oggetto di diversi rapporti e denunce, ed il trattamento riservato ai migranti riportati a terra dopo essere stati soccorsi ( meglio ripresi) dalle unità navali libiche. Dopo gli articoli di alcuni coraggiosi giornalisti e dopo le controdeduzioni della difesa della Jugend Rettet, sembra invece che attività di indagine siano rivolte nei confronti di uno dei più importanti testi dell’accusa.
Dal punto di vista del sequestro della nave Juventa eseguito nel porto di Lampedusa il 3 agosto 2017 si pone poi il problema della giurisdizione e della competenza. Già in questo contesto più limitato nel quale non si sono riscontrate incriminazioni individuali, non appare possibile equiparare la nave Juventa battente bandiera olandese alle imbarcazioni prive di una bandiera nazionale, o con bandiere di comodo che trasportano i migranti vicino alle coste italiane ( le cd. navi madre) per poi lasciarli a bordo di barchini più piccoli che raggiungono la riva. Si deve anche ricordare che la nave “Iuventa” è di proprietà della fondazione “Stichting Jugend Rettet NL”, la quale, rispetto ai fatti contestati, è terzo estraneo rispetto ai reati ipotizzati dalla Procura di Trapani. Si potrebbero profilare dunque nel tempo anche possibili ricorsi alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo per la lesione del diritto di proprietà sulla nave.
La Convenzione di Montego Bay ( UNCLOS) afferma, anche da un punto di vista penale, la giurisdizione dello stato di bandiera, fino a quando la nave si trova in acque internazionali. Ed è bene ricordare che prima del sequestro la nave Juventa si trovava sempre in acque internazionali ed era stata costretta ad entrare in porto Lampedusa a, dove poi veniva eseguito il sequestro, solo perché un ordine in tal senso era giunto dal Comando centrale della guardia costiera di Roma (IMRCC) allo scopo di perfezionare una operazione di soccorso e di sbarcare in quell’isola tre naufraghi soccorsi da altra nave e quindi fatti imbarcare proprio sulla Juventa per poi costringerla ad entrare in acque territoriali italiane. An che se i migranti erano poi stati sbarcati nel porto di Trapani da altre navi, in particolare dalla Vos Hestia di Save The Children, mai la Juventa aveva fatto scalo, negli episodi contestati, in un porto italiano.
La pretesa “collusione” tra membri dell’equipaggio della Juventa e non meglio identificati trafficanti libici, sempre che se ne fornisca almeno un principio di prova, si sarebbe dunque realizzata in un area sottratta alla giurisdizione italiana, ne si può sostenere che al momento della realizzazione dell’attività di soccorso in acque internazionali il comando della Juventa potesse in alcun modo prevedere in quale porto sarebbero state sbarcate le persone soccorse. E’ infatti notorio che la destinazione finale di sbarco di tutte le persone soccorse sulla rotta del Mediterraneo centrale e condotte in Italia viene stabilita dal Ministero dell’interno che dà al riguardo disposizioni al Comando centrale della Guardia Costiera che è l’autorità responsabile per gli interventi di ricerca e salvataggio, o almeno lo era fino al mese di giugno di quest’anno. Successivamente infatti gli interventi di soccorso e le attività di sbarco a terra sono state coordinate dalla guardia costiera riferibile al governo di Tripoli e dalla Guardia costiera italiana, sulla base degli accordi firmati il 2 febbraio 2017. Con gravi profili di responsabilità per il coinvolgimento in veri e propri respingimenti collettivi “coordinati” che in questa sede non sarà possibile approfondire. E sarà presto da verificare con quali milizie sono stati stretti gli accordi che hanno portato ad un forte rallentamento delle partenze nei mesi di luglio ed agosto. Con una netta ripresa in settembre. A quali costi umani e con quali conseguenze sui processi di riconciliazione in Libia, che appare oggi sempre più dilaniata dalla guerra civile.
Si riscontra in definitiva una serie causale ben diversa da quella che ricorre nei casi esaminati in precedenza dalla Giurisprudenza ( a partire dalle note sentenze di Cassazione n.814/2014 e n. 1609/2014, fino alla sentenza della Cassazione n. 11165 del 22.12.2015. Secondo questa giurisprudenza, “la competenza del giudice italiano per il reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998 art.12 si determina prima facie in base all’art. 6 c.p., essendosi
nelle acque territoriali e sul territorio nazionale verificato l ‘ingresso e lo sbarco dei
migranti, cioè l ‘evento del reato”). Alla stregua di questa giurisprudenza, “la condotta posta in essere in acque extraterritoriali si lega idealmente a quella da consumarsi in acque territoriali, dove l ‘azione dei soccorritori nella parte finale della concatenazione causale può definirsi l ‘azione di un autore mediato, costretto ad intervenire per scongiurare un male più grave (morte dei clandestini), che così operando di fatto viene a realizzare quel risultato (ingresso di clandestini nel nostro paese) che la previsione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12 intende scongiurare. Il nesso di causalità non può dirsi interrotto dal fattore sopravvenuto (intervento dei soccorritori) inseritosi nel processo causale produttivo dell’evento poiché non si ha riguardo ad evento anomalo, imprevedibile o eccezionale, ma a fattore messo in conto dai trafficanti per sfruttarlo a proprio favore e provocato”. E’ la tesi interpretativa dell’”autore mediato”, cioè del soggetto che si rende responsabile del reato di agevolazione dell’ingresso di “clandestini” anche se ha posto in essere in acque internazionali un frammento delle attività finalizzate all’ingresso degli stessi in territorio italiano.
Nei casi esaminati dalla giurisprudenza che ha ricostruito questa teoria, che meriterebbe in altra sede una riflessione critica ben più articolata, la finalità e le modalità dell’ingresso agite dai trafficanti erano clandestine, mentre nel caso dell’ingresso nel territorio italiano delle persone soccorse dalla nave Juventa negli eventi contestati dalla Procura di Trapani, tale ingresso avveniva per ragioni di soccorso, senza che gli operatori di nave Juventa si proponessero un ingresso di immigrati irregolari, ma a seguito della dichiarazione di un evento SAR da parte di IMRCC ed a bordo di mezzi di altre ONG, che non sembrano, per queste medesime attività SAR, avere ricevuto avvisi di reato. In altri casi, le persone soccorse dalle ONG ai limiti delle acque territoriali libiche, nelle medesime circostanze di fatto contestate alla nave Juventa, venivano trasbordati sui mezzi della Guardia Costiera e della Marina italiana. Non si può in alcun modo sostenere che la richiesta di soccorso in mare costituisse uno strumento previsto e voluto, in comune dai trafficanti e da componenti della ONG Jugend Rettet, per conseguire il risultato prefisso dello sbarco e dell’ingresso in territorio italiano. Non risultano provati nei casi contestati (peraltro ad ignoti) in occasione del sequestro della nave Juventa, che le richieste di soccorso poi trasmesse alla nave Juventa provenissero da appartenenti al sodalizio criminale che gestiva le partenze dalla Libia. E la nave Juventa ha sempre agito sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana, come emergerà in dibattimento, se ci si arriverà, dopo che il giudice del riesame di Trapani ha ritenuto irrilevante la documentazione fornita al riguardo dalla difesa della Jugend Rettet. Altre circostanze di fatto che sembrerebbero provare la “collusione” tra i trafficanti libici e componenti dell’equipaggio della Juventa appaiono del tutto banali e penalmente irrilevanti. Un gesto di saluto, diretto non si comprende bene a chi, dalle foto diffuse sembrerebbe ai migranti ancora a bordo del gommone, o una bandiera di cortesia issata sul pennone di poppa, come peraltro prescritto dalle norme internazionali non possono certo ritenersi elementi indiziari tali da costituire fumus commissi delicti ai fini del sequestro preventivo della nave umanitaria. In alcuni dei casi contestati, addirittura, l’intervento della Juventa si era verificato dopo l’ordine di intervenire inviato dal Comando centrale della Guardia costiera italiana che aveva raccolto, o al quale erano state inoltrate le chiamate di soccorso.
Si deve poi richiamare l’art. 27 comma 5 della stessa Convenzione di Montego Bay per sostenere che lo Stato costiero ( in questo caso l’Italia) potrebbe comunque procedere a sequestro della nave qualora essa “entri in acque interne”. Ma solo se la nave proviene da un “porto straniero”. Se invece la nave proviene da un “porto nazionale” il sequestro può avvenire già nelle acque “territoriali”. Il richiamo a questa norma nel caso del sequestro operato dalle autorità italiane nel porto di Lampedusa non appare pertinente perché per acque interne, secondo il Glossario del Mare (Caffio) sono da intendere “Le acque comprese tra la costa e le linee di base (v.) del mare territoriale (v.) costituiscono le acque interne (GINEVRA I,5,1; UNCLOS 8,1). Condizione perché esse esistono è dunque la circostanza che le linee di base non coincidano con la linea di bassa marea della costa, fermo restando, comunque, che sono giuridicamente tali anche gli specchi e le vie d’acqua esistenti sulla terraferma, quali laghi, fiumi e canali” . Nel caso del sequestro della nave Juventa avvenuto nel porto di Lampedusa non sembra dunque utilizzabile la nozione di acque interne, anche alla luce della circostanza facilmente dimostrabile che l’ingresso nel porto di Lampedusa e prima nelle acque territoriali italiane, non è avvenuto per scelta del comandante della nave ma per ordine imposto dal Comando centrale della Guardia costiera italiana (IMRCC) nell’ambito di una attività SAR, un ordine dunque al quale, in base al diritto internazionale ed alla Convenzione SAR del 1979, il comandante della nave Juventa non si poteva sottrarre
Anche se si volesse fare riferimento al luogo di consumazione del reato, meglio del reato che si presuppone a fondamento del decreto di sequestro, e su questo nulla dice la Convenzione di Montego Bay (UNCLOS) , la prescrizione dell’art. 97 della stessa Convenzione, ha una formulazione nella quale il termine “incidente di navigazione nell’alto mare, che implichi la responsabilità penale del comandante della nave o di qualunque altro membro dell’equipaggio” , nei confronti dei quali non possono essere esercitate azioni penali se non da parte dello stato di bandiera o di cui hanno la cittadinanza, non si riferisce ad incidenti nel senso adottato nella lingua italiana, ma a qualunque evento che possa comportare una responsabilità penale.
Infatti secondo l’art. 97 della UNCLOS, “In the event of a collision or any other incident of navigation concerning a ship on the high seas, involving the penal or disciplinary responsibility of the master or of any other person in the service of the ship, no penal or disciplinary proceedings may be instituted against such person except before the judicial or administrative authorities either of the flag State or of the State of which such person is a national.” E conseguentemente si aggiunge, al terzo comma dell’art. 97, che “No arrest or detention of the ship, even as a measure of investigation, shall be ordered by any authorities other than those of the flag State. La prescrizione del terzo comma dell’art. 97 costituisce una disposizione di chiusura e non sembra derogabile neppure nel caso di navi che incorrano in incidenti diversi da quelli di navigazione. Del resto tanto l’art.8.2 della Convenzione di Montego Bay, quanto l’art.12comma 9 quinquies del D.L. 298 del 1998 subordinano il diritto al sequestro di un mezzo che batte una bandiera nazionale all’autorizzazione del Paese di bandiera da richiedere tramite il ministero degli esteri. Le prescrizioni relative alle operazioni TRITON di Frontex ed Eunavfor Med ( da ultimo si rinvia al Regolamento Europeo n.1624 del 2016) non prevedono deroghe alle norme di diritto internazionale del mare sopra richiamate, aggiungendo semmai l’obbligo di distruzione delle imbarcazioni utilizzate dai trafficanti, con un precetto che appare rivolto soprattutto ai mezzi militari appartenenti alle missioni in oggetto e non certamente riferibile ad attività di Search and Rescue svolte da navi private o di ONG come quelle di cui si tratta, che peraltro erano coordinate dal Comando centrale della Guardia Costiera italiana e dalla nave Vos Hestia di Save The Children, nella qualità di Coordinamento SAR su indicazione dello stesso Comando (IMRCC).
Per due anni, dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum, ed il progressivo ritiro dei mezzi di Frotex, tutte le navi umanitarie avevano operato attività di ricerca e soccorso al limite delle acque territoriali libiche sotto il coordinamento della guardia costiera italiana, senza destare alcun problema di rilevanza penale.
Prima di procedure al sequestro della nave Juventa le autorità italiane avrebbero dovuto quindi verificare se effettivamente le condotte contestate alla stessa nave fossero davvero anomale, come asserito dagli agenti infiltrati a bordo della nave Vos Hestia. Inoltre le stesse autorità inquirenti, prima di procedere al sequestro, avvenuto grazie all’ordine imposto alla Juventa di fare rotta su Lampedusa dopo avere caricato a bordo tre naufraghi soccorsi in precedenti operazioni SAR da altre navi, avrebbero dovuto chiedere l’autorizzazione delle autorità olandesi perchè una diversa interpretazione della prima parte della norma porterebbe alla sostanziale disapplicazione di quanto previsto secondo una lettura complessiva dell’art. 97 della Convenzione UNCLOS . Il caso dei marò perseguiti dalle autorità indiane dopo l’”incidente” occorso a bordo della Enrica Lexie non viene in aiuto perché in quel caso le autorità indiane sostenevano che l’incidente si era svolto nelle acque territoriali ( indiane), mentre nel caso della nave Juventa, malgrado contrarie affermazioni degli agenti infiltrati a bordo della nave Vos Hestia, risulta pacifico, anche nella ricostruzione della procura di Trapani, che le attività contestate agli operatori umanitari della Juventa si erano svolte in acque internazionali, come risulterà agevole provare in base alle comunicazioni ed ai tracciati in possesso dello stesso equipaggio e del Comando centrale della Guardia costiera italiana (IMRCC).
Né sembra possibile assimilare alle attività di soccorso, operate da nave Juventa in acque internazionali, sotto il coordinamento del Comando centrale della Guardia costiera italiana, alle attività criminose condotte in acque internazionali da navi prive di una bandiera nazionale che, nei pressi delle acque territoriali italiane erano solite mettere in acqua barche più piccole sulle quali fare salire i migranti da fare arrivare poi sulle coste italiane ( la tecnica delle cd. “navi madre”). Mentre in quest’ultimo caso i trasbordi erano finalizzati allo scopo criminoso di introdurre in Italia immigrati privi di visto di ingresso e/o di documenti di soggiorno, nel caso dei trasbordi effettuati dalla nave Juventa su altre navi umanitarie, o della stessa Guardia Costiera italiana, si trattava di attività SAR coordinate e dirette dal Comando centrale della stessa Guardia costiera con il costante intervento di controllo da parte del Ministero dell’interno e in molti casi dell’agenzia europea Frontex presente presso la sede dell’IMRCC a Roma. Anche la sentenza richiamata dai giudici trapanesi nel decreto di sequestro (Cassazione n. 11165/2015 ) è relativa ad un caso assai diverso, vale a dire quello in cui i migranti si trovavano a bordo di una nave priva di bandiera e quindi di nazionalità). Occorre dunque fare riferimento alle diverse disposizioni della Convenzione sul Diritto del Mare firmata a Montego Bay il 10.12.1982 e ratificata dall’Italia con l. 2.12.1994, n. 689.
L’art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del Mare (Unclos) prevede al riguardo quanto segue: “Ogni Stato impone che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nei limiti del possibile e senza che la nave, l’equipaggio ed i passeggeri corrano gravi rischi: a) presti assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare; b) vada il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà se viene informato che persone in difficoltà hanno bisogno d’assistenza”.Non appena il comandante di una nave viene a conoscenza della presenza di un imbarcazione in pericolo di affondare, per visione diretta o per richiamo da parte delle autorità competenti a cooordinare le attività di ricerca e salvataggio nelle zone SAR (IMRCC), è obbligato ad intervenire in soccorso, avvertendo quanto prima il Comando della Guardia Costiera a Roma.
Come è noto, gli obblighi di fonte internazionale costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base all’art.11 della Cost., il diritto internazionale e le convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro paese non possono essere derogate da scelte discrezionali dall’autorità politica o giudiziaria. Occorre ricordare come le Convenzioni internazionali possono avere una diretta efficacia in Italia, secondo quanto previsto dalla Costituzione italiana, ma hanno comunque efficacia prevalente ( anche rispetto al diritto interno) al di fuori del territorio dello stato in conformità con gli obblighi assunti dallo stato italiano con l’atto di ratifica.
La Convenzione di Montego Bay ( UNCLOS) del 1982 costituisce la fonte primaria del diritto internazionali del mare. Tra le norme che non possono essere oggetto di deroga da parte degli Stati anche mediante accordi con altri Stati va richiamato anzitutto l’art. 98 della Convenzione di Montego Bay che abbiamo appena richiamato. Altre convenzioni internazionali, tutte in vigore in Italia insieme all’Unclos, costituiscono un completamento della norma ora citata. Non ci si può limitare dunque alla mera considerazione della Convenzione di Montego Bay (UNCLOS). Le Convenzioni internazionali si devono interpretare con un metodo che ne integri la portata normativa, senza omissioni di alcun genere, soprattutto per quanto concerne le molteplici previsioni degli obblighi di soccorso.
In primo luogo, secondo l’art. 10 della Convenzione del 1989 di Londra sul soccorso in mare: ”Ogni comandante è obbligato, nella misura in cui ciò non crei pericolo grave per la sua nave e le persone a bordo, di soccorrere ogni persona che sia in pericolo di scomparsa in mare. Gli Stati adotteranno tutte le misure necessarie per far osservare tale obbligo”.
La Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione Solas) impone gli interventi di soccorso al comandante di una nave “ che si trovi nella posizione, di essere in grado di prestare assistenza”. In altri termini chi si trovi più vicino al mezzo in difficoltà, per il quale è giunta una chiamata di soccorso, ha l’obbligo di avvertire le competenti autorità SAR e di attivarsi immediatamente seguendo le istruzioni fornite dal Comando centrale della Guardia Costiera (IMRCC). Una prescrizione che non sempre è stata adempiuta tempestivamente, soprattutto quando sono venute in gioco questioni di competenza che ritardavano l’avvio delle azioni di soccorso, come nel caso, attualmente all’esame del Tribunale di Roma, della strage avvenuta a sud di Malta l’11 ottobre 2013.
La terza Convenzione internazionale che viene in considerazione riguarda anch’essa la ricerca ed il salvataggio marittimo. La Convenzione SAR (1979)8 impone un preciso obbligo di soccorso eassistenza delle persone in mare “…senza distinguere a seconda della nazionalità o dello stato giuridico, stabilendo altresì, oltre l’obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un “luogo sicuro”. La Libia non può essere considerata in alcun caso un “porto di sbarco sicuro”. L’obbligo di proteggere la vita umana in mare si applica in qualsiasi spazio marittimo, a prescindere dalla sua condizione giuridica (acque marine interne, mare territoriale, alto mare). L’obbligo di proteggere la vita umana in mare riguarda la vita di tutti gli uomini, indipendentemente dalle attività, lecite o illecite, in cui essi siano impegnati.
Il Protocollo ONU sul contrasto del traffico di esseri umani allegato alla Convenzione contro il crimine transnazionale firmata a Palermo nel 2000 potrebbe costituire un pretesto per giustificare un sequestro non autorizzato dallo stato di bandiera se si provasse, quanto meno a livello indiziario, o di fumus commissi delicti, che esista un qualsiasi collegamento con una attività criminosa che sia ricollegabile ad una organizzazione transnazionale. Occorre dunque fornire almeno un principio di prova dell’esistenza di una organizzazione criminale transnazionale con la quale gli operatori della Juventa avrebbero colluso, ma di questa prova non risulta traccia nei verbali di interrogatorio e nelle registrazioni telefoniche dei contractor imbarcati a bordo della nave di Vos Hestia di Save The Children e del medico di bordo della stessa nave, poi assunte a base dell’inchiesta.
Non si vede dunque in base a quale indizio di reato sia stato attuato il sequestro preventivo della nave Juventa. La serie di fotografie sulle quali si è impiantata l’accusa della riconsegna delle imbarcazioni utilizzate dai migranti a persone a bordo di imbarcazioni prive di segni di riconoscimento, asseritamente “trafficanti libici” non chiarisce il tipo di rapporti intercorrenti tra i diversi soggetti ritratti nelle immagini e non prova nulla sull’esistenza di una organizzazione criminale transnazionale, nè fornisce alcuna certezza sulla identità e provenienza delle persone che riprendevano i barconi per riportarli probabilmente verso la costa libica. Attività che comunque non si sarebbe certo svolgere da parte del gommone di servizio alla nave Juventa per evidenti ragioni di autonomia e di leggerezza del mezzo rispetto ai barconi che si assume avrebbe rimorchiato. Le stesse attività imputate al gommone di servizio della nave Juventa venivano realizzate anche da un gommone di servizio appartenente alla nave Vos Hestia di Save the Children, ma scambiato, nella prima fase delle indagini, per un gommone appartenente alla Juventa. Attività di routine che rientravano nell’esigenza di sgomberare il percorso della nave umanitaria in movimento dopo l’espletamento del soccorso, da mezzi che, trovandosi alla deriva, costituivano veri e propri pericoli per la navigazione.
L’obbligo di distruggere i mezzi sui quali erano imbarcati i migranti soccorsi in alto mare, se incombe ai mezzi militari delle missioni Eunavfor Med e Frontex, non può certo ascriversi a mezzi privati, carichi fino all’inverosimile ed impegnati in successive operazioni di soccorso coordinate dalla Guardia costiera italiane. Non si comprende sulla base di quale giustificazione etica e giuridica gli operatori umanitari della Juventa avrebbero dovuto ritardare operazioni di soccorso di gommoni in procinto di affondare per indugiare a dare fuoco ed attendere magari l’affondamento dei mezzi già svuotati dei migranti che li occupavano. E’ del resto fatto notorio che nel periodo dei fatti contestati agli operatori della Juventa le imbarcazioni venivano fatte partire dalle coste libiche a decine, anche nel lasso di qualche ora. E dunque in acque internazionali occorreva provvedere al salvataggio del maggiore numero possibile di migranti, piuttosto che trascorrere il tempo dando fuoco, ed ovviamente a quel punto seguendo l’affondamento, perché altrimenti ne sarebbe derivato un pericolo ancora maggiore, di imbarcazioni ormai vuote di persone.
In ogni caso anche il Protocollo addizionale contro il traffico di esseri umani in questione impone un preventivo coinvolgimento del paese di cui batte bandiera la nave sottoposta a misure ispettive o cautelari. Non risulta che siano state chieste allo Stato di bandiera della nave “Iuventa” (l’Olanda) le necessarie autorizzazioni di cui all’art. 8, par. 2 del citato Protocollo addizionale e dunque anche sotto questa angolazione il sequestro preventivo operato dal GIP di Trapani appare illegittimo. Come non sembra ricorrere la giurisdizione italiana, in assenza di una autorizzazione dello stato di bandiera della nave inquisita, non si vece come possa radicarsi la competenza del Tribunale di Trapani quando la decisione del luogo di sbarco dei naufraghi soccorsi dalla Juventa e poi trasbordati su altre navi, della Guardia costiera o delle ONG, non rientrava certo nei procedimenti decisionali della ONG Jugend rettet, risalendo piuttosto ad una scelta del Ministero dell’interno e del comando centrale della Guardia costiera (IMRCC).
Passando poi al presunto rilievo penale delle attività svolte in operazioni SAR da nave Juventa e, più in generale, da molte altre navi delle ONG che hanno operato per mesi nel Mediterraneo centrale, di fronte alla costa libica, ma in acque internazionali, sotto il Coordinamento della Guardia Costiera italiana (IMRCC) con le stesse identiche modalità, si deve osservare che anche a volere ritenere applicabile soltanto al territorio nazionale la specifica esimente da responsabilità costituita dall’art. 12 comma 2 del Testo Unico 286 del 1998 in materia di immigrazione ( avere agito senza finalità di lucro), non si possono trascurare le esimenti generali dettate dal Codice penale agli articoli 51 (Ordine impartito dall’autorità) e 54 ( Stato di necessità).
Il fondamento della scriminante umanitaria prevista dall’art. 12 comma 2 del T.U. e cioè quello di consentire il soccorso e l’assistenza a chi si trovi in una condizione di irregolarità può valere anche per chi si trovi in acque internazionali, dunque ma anche fuori dal territorio italiano quando, a seguito di una attività di soccorso e assistenza umanitaria, le persone soccorse si trovino soggette alla potestà esclusiva di autorità dello stato italiano ( come nel caso dei soccorsi operati dalle ONG) il Comando centrale della guardia costiera (IMRCC) ed il ministero dell’interno che, quando ancora la nave si trova in acque internazionali, decide il porto di destinazione della stessa, o di quella sulla quale sono stati effettuati i trasbordi. Se si dovesse ritenere infondata l’eccezione sulla giurisdizione in ordine al blocco della nave Juventa, sarebbe illogico affermare, da una parte la giurisdizione italiana, e contestualmente negare l’operatività della scriminante per fatti posti in essere fuori dalle acque territoriali italiane, ma in area SAR rimessa alla competenza esclusiva delle autorità italiane e subdelegata da IMRCC con compiti di coordinamento alla nave Vos Hestia di Save The Children.
L’interpretazione fornita dai giudici trapanesi, e prima dalla procura che aveva chiesto il sequestro della Juventa, è basata sull’esclusione dell’esimente prevista dall’art. 51 del Codice penale, senza che analoga esclusione sia riferita all’art.54 dello stesso Codice penale che pure potrebbe avere una portata applicativa considerevole.
Il richiamo alle misure operative Fontex e delle operazioni PESC come Eunavfor Med appare del tutto incongruo per modificare il quadro di riferimento offerto dal diritto internazionale con riferimento ad operazioni SAR condotte da navi private sotto il coordinamento dell’autorità SAR competente ( nel caso di specie la Guardia Costiera italiana). Dovrebbero essere a tutti note le diverse interpretazione degli obblighi di salvataggio, che portarono anche ad una pronuncia della Corte di Giustizia nel 2012 e quindi alla formulazione del Regolamento europeo 656 del 2014 che ribadisce anche per le operazioni Frontex l’assoluta preminenza dei doveri di soccorso nel rispetto delle Convenzioni internazionali. Appare del resto evidente che, se per attività di polizia internazionale, come quelle di Frontex o di Eunavfor Med, si stabilissero determinati parametri per gli interventi di ricerca e soccorso (SAR), questi non potrebbero ritenersi vincolanti per le navi private impegnate nelle medesime attività. Come appare evidente la possibilità di profilare una precisa responsabilità penale a carico di quei mezzi militari o di Frontex che non si attivassero immediatamente dopo una chiamata di soccorso, a prescindere dalla verifica delle condizioni di navigabilità del mezzo per il quale scatta l’intervento di soccorso. Punto che era stato oggetto di contestazione dopo l’improvvida adozione di un Regolamento europeo nel 2010, che limitava i doveri di soccorso di Frontex ai casi di imminente pericolo di naufragio, poi spazzato via dalla pronuncia della Corte di Giustizia del 2012 e sostituito dal Regolamento, tuttora vigente, n.656 del 2014.
Il carattere di eccezionalità e di tassatività delle cause di giustificazione dettate dal codice penale italiano non permette di escludere in radice una valutazione del comportamento delle ONG impegnate ( fino a qualche mese fa) in attività SAR che almeno tenga conto, oltre che dell’esimente dettata dall’art. 51 del Codice penale ( adempimento di un ordine legittimo), dell’esimente costituita dallo stato di necessità, dunque dall’art.54 del Codice penale, valutazione che appare completamente omessa, tanto negli atti fin qui prodotti dai giudici trapanesi, quanto dai primi commentatori.
Il provvedimento di sequestro adottato nei confronti della nave Juventa asserisce, con argomentazioni che dovranno essere verificate in sede dibattimentale, con l’escussione dei testi dell’accusa, e sulla base di risultanze documentali, che le attività della nave Juventa si svolgevano al di fuori delle operazioni coordinate dal Comando centrale della Guardia costiera, ma non dedica neppure un rigo alla circostanza di stato di necessità nella quale avvenivano le attività di soccorso in alto mare, che pure avevano portato in passato proprio a Trapani all’assoluzione di scafisti imputati per il reato di agevolazione ex art. 12 T.U. n.286 del 1998, circostanza che avrebbe dovuto portare quanto meno ad una verifica della applicabilità ( o meno) anche nel caso della Juventa dell’esimente di portata generale prevista dall’art. 54 del Codice penale (stato di necessità). Il giudice del riesame giunge addirittura a qualificare come “eventi migratori” attività che andavano sicuramente valutate come rientranti in operazioni SAR di ricerca e salvataggio. La ricostruzione di un “rafforzamento del proposito criminoso dei concorrenti” imputata agli operatori umanitari della Juventa, avrebbe dovuto confrontarsi quanto meno con la situazione oggettiva nella quale si trovavano i migranti al momento del soccorso.
Un fermo immagine del video diffuso dalla Polizia di Stato, 02 agosto 2017. Sono tre gli episodi sui quali indaga la procura di Trapani e per i quali il gip ha disposto il sequestro preventivo della nave Iuventa della Ong tedesca Jugend Rettet. Il procedimento è a carico di ignoti ed il reato ipotizzato è il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
ANSA/POLIZIA DI STATO
Si sarebbe dovuto stabilite se questi si fossero trovati in pericolo di vita, o meno, per attività riferibili alla stessa nave soccorritrice, o per la sua stessa presenza in acque internazionali ( la nota diatriba sul pull factor), e se il mancato intervento della Juventa ne avrebbe potuto comunque causare il naufragio. In altri termini, accertata la presenza di imbarcazioni sul luogo del soccorso probabilmente riferibili agli scafisti, questa circostanza avrebbe dovuto, o potuto, bloccare le attività di soccorso consistente nel (più rapido possibile) imbarco a bordo della Juventa delle persone in situazione di grave pericolo per la vita ? Le condizioni di galleggiabilità delle fatiscenti imbarcazioni soccorse avrebbe consentito una prosecuzione della loro rotta senza apprezzabili pericoli per la vita delle persone a bordo, magari in attesa di un intervento della cd. Guardia costiera libica ? Si poteva prevedere, almeno al tempo dei fatti, che in assenza di un intervento della nave Juventa, i migranti a bordo delle imbarcazioni ormai in acque internazionali avrebbero potuto essere soccorsi da unità libiche ? Si poteva escludere uno stato di necessità rispetto a persone che seppure soccorse in mare, una volta riportate a tetta sarebbero state oggetto di abusi di ogni tipo, anche da parte di appartenenti delle stesse forze militari libiche che avevano provveduto al soccorso in mare ? Domande alle quali si poteva e si doveva fornire una risposta. Sulla base di rilievi ufficiali, come quelli provenienti dall’OIM e dall’UNHCR, agenzie delle Nazioni Unite. Per non fare riferimento alle numerose e concordanti circostanze di fatto, sulla sorte dei migranti intrappolati in Libia o riportati in quel paese, che erano agevolmente dimostrabili in base ai Rapporti internazionali ed alla documentazione fotografica diffusa anche sui media da parte di tutte le ONG, come MSF, impegnate negli ultimi anni in attività di ricerca e salvataggio a nord delle coste libiche.
Non risultano neppure provate, neppure con un principio di prova, le “consegne concordate” dai trafficanti (rectius scafisti) all’equipaggio della Juventa, che peraltro agiva sotto il coordinamento “a vista” della nave Vos Hestia di Save The Children, nominata dal Comando centrale della Guardia costiera italiana come SAR Coordinator. Manca la prova di un qualsiasi accordo preventivo in ordine alle consegne che sarebbero state concordate in acque internazionali al limite delle acque territoriali libiche, ed apparenti ceni di saluto, successivi all’operazione di soccorso, o l’innalzamento ( abituale ai limiti di acque territoriali di un paese straniero) della “bandiera di cortesia” non possono certo valere come prova di una precedente collusioni tra l’organizzazione “transnazionale” dei trafficanti e singoli membri della ONG Jugend Rettet, anche perché sono gli stessi giudici trapanesi che escludono l’esistenza di uno scopo di lucro o intese volte espressamente alla condivisione di un medesimo progetto criminale da realizzare in forma associata.
La posizione della Corte di Cassazione che ritiene rilevante ai fini della configurazione del reato di agevolazione dell’ingresso di clandestini ( art. 12 T.U. 286/1998), anche quando ricorra soltanto “una condizione, anche non necessaria, teleologicamente connessa al potenziale ingresso illegale” (così Cassazione 22 maggio 2014 n. 28819) si deve interpretare alla stregua del principio di legalità e di tipicità dell’illecito penale. In particolare, con sentenza del 28 febbraio 2014 la Corte di Cassazione ha riconosciuto la sussistenza della giurisdizione dello Stato italiano quantomeno laddove, nel caso di immigrazione clandestina, gli immigrati siano abbandonati in acque extraterritoriali su natanti del tutto inadeguati, onde provocare l’intervento del salvataggio in mare e far sì che i trasportati siano accompagnati nel tratto di acque territoriali dalle navi dei soccorritori. Una fattispecie che però differisce in modo sostanziale da quanto avviene normalmente nelle operazioni di ricerca e soccorso operate dalle ONG ( almeno sino a qualche mese fa). In queste operazioni se i trafficanti abbandonavano i migranti in acque internazionali, o li scortavano fino alle acque internazionale all’evidente finalità di farle soccorrere dalle navi delle ONG, non si può configurare alcun disegno criminoso comune con i trafficanti, che agiscono per evidente scopo di lucro, in coloro che operano attività di soccorso per effettuare successivamente trasbordi su navi che arrivano poi i territorio italiano, ma sotto il controllo del Comando centrale del Corpo della Guardia Costiera (IMRCC) e per prevalenti finalità di soccorso, in adempimento agli obblighi SAR ( di ricerca e salvataggio) derivanti dalle Convenzioni internazionali.
E se rileva il “profilo teleologico” la serie causale di una operazione di ricerca e salvataggio coordinata dalla Guardia costiera italiana, o da navi che ne ricevono delega, come la Vos Hesta, non è certo assimilabile alle attività di trasporto e trasbordo poste in essere da navi madre, rispetto ad imbarcazioni più piccole che poi raggiungono la costa ( casi sui quali si era formata la giurisprudenza della Corte di Cassazione, richiamata nel decreto di sequestro della nave Juventa).
Appare poi scarsamente attendibile la configurazione di un legame associativo con trafficanti libici non meglio identificati in una fase processuale, il procedimento di sequestro della nave Juventa, nel quale gli autori dei reati contestati vengono indicati come “ignoti”. La configurazione di un rischio di reiterazione del reato nella piena operatività di nave Juventa equivale a considerare l’attività di ricerca e soccorso come una potenziale occasioni di attività illecite, in linea con la campagna di stampa alimentata dai media dopo le prime denunce, poi parzialmente smentite da parte dell’agenzia Frontex. Per questo tutte le indagini della magistratura, quelle annunciate e quelle effettivamente avviate, malgrado le intenzioni dichiarate, hanno dato un contributo determinante alla campagna di odio verso i migranti in fuga dalla Libia e gli operatori umanitari che li assistevano in mare.
Ormai il danno prodotto dall’attacco indiscriminato alle ONG, al quale hanno certamente contributo, forse al di fuori delle loro intenzioni, esponenti degli ambienti giudiziari, ha realizzato in pieno i propri obiettivi. E non sono mancate gravi smagliature ed incapacità di gestire la situazione nei comportamenti di alcune ONG. La firma in ordine sparso del Codice di condotta Minniti ha indebolito tutti ed ha creato le premesse per la scomparsa quasi totale delle ONG dal Mediterraneo centrale. Delle grandi navi umanitarie rimane operativa soltanto Aquarius di SOS Mediterraneè, mentre le altre due navi tedesche, la See Fuchs e la Life Line sono assai piccole e non hanno consistenti capacità di carico. Aumenta invece il numero delle navi militari inviate al limite delle acque costiere libiche. Dopo gli attacchi alle navi umanitarie i mezzi della guardia costiera di Tripoli e Zawia sembrano costretti a ripiegare nelle proprie acque territoriali, forse anche in conseguenza degli scontri che dilaniano le principali città.
Quasi tutte le altre navi delle ONG sono state costrette ad abbandonare le acque del Mediterraneo centrale, anche quelle di MOAS che aveva firmato il Codice di condotta imposto da Minniti, le attività di soccorso e le partenze sono calate, non il numero delle vittime, generalmente nascoste all’opinione pubblica, inondata per mesi di ogni sorta di nefandezza attribuita alle navi umanitarie, definite taxi del mare, responsabili di avere aperto “canali umanitari privati”, di avere messo in discussione la “identità nazionale” ed il governo dei movimenti migratori solo perché agivano in acque internazionali per salvare il numero più alto possibile di vite umane.
Adesso che gli accordi con la Libia hanno dimostrato il loro effimero successo numerico, dopo la “commedia” estiva del Codice di Condotta per le ONG che è servita solo a distogliere l’attenzione dalla situazione reale nel mar libico e nella stessa Libia, c’è già chi grida vittoria ed esalta gli autori politici di quegli accordi, mentre sembra che le attività di indagine della magistratura possano estendersi quasi senza limite, fino alla creazione per via giudiziale di un vero e proprio reato di solidarietà. La condanna delle ONG da parte della maggior parte dell’opinione pubblica è già arrivata prima ancora che comincino i processi, e stanno dilagando gli attacchi contro i migranti e gli operatori umanitari che della solidarietà fanno pratica quotidiana. Non rimane che attendere qualche mese, se non qualche anno, per verificare come tutto questo possa incidere sui rapporti di convivenza oltre che sul nostro sistema giudiziario. E i processi alle navi umanitarie, adesso, oltre alla Juventa sembra che nel procedimento di Trapani sia coinvolta anche la Vos Hestia di Save The Children, potrebbero segnare una linea di confine su principi cardine per uno stato democratico come la riserva di legge e la separazione dei poteri.
Tutto questo a volere tacere dei rapporti non chiari dei principali testimoni dell’accusa con i proprietari della società di sicurezza privata che forniva loro copertura a bordo della nave di Save The Children, e della circostanza che non va trascurata, che gli stessi agenti infiltrati a bordo della Vos Hestia, prima di trasmettere i materiali ricognitivi in loro possesso alla Procura trapanese, ne fornivano copia ad esponenti politici come Matteo Salvini della Lega Nord che ne faceva uso in suoi interventi pubblici, quando si trattava ancora di materiali coperti da segreto istruttorio. Dopo tanta confusione l’attenzione sulle navi umanitarie è adesso scemata e la maggior parte di loro hanno dovuto interrompere le loro attività di soccorso nelle acque del Mediterraneo centrale. Le motivazioni addotte sono state le più diverse, e tutte fondate.
Secondo l’organizzazione MOAS non si doveva dare copertura alle nuove prassi concordate con la Guardia costiera libica che prevedevano il “soccorso” in acque internazionali operato da mezzi della guardia costiera di Tripoli e Zawia, con la certezza di trattamenti inumani o degradanti ai quali sarebbero stati esposti i migranti, donne e bambini compresi, una volta riportati in Libia. Secondo MSF invece appariva inaccettabile l’obbligo che voleva imporre il ministero dell’interno con il Codice di condotta che iimplicava l’impegno di prendere a bordo delle navi delle ONG ufficiali di polizia per seguire da vicino le attività di Search and Rescue. E assai probabilmente per proseguire nelle attività di denuncia già avviate a bordo della nave Vos Hestia di Save The Children.
Come prima appendice delle indagini che hanno portato al sequestro della nave Juventa si è giunti all’avviso di garanzia nei confronti di Don Mussie Zerai, che viene accusato di avere ricevuto e rilanciato chiamate di soccorso. Chiamate che hanno permesso di salvare la vita a migliaia di persone intrappolate in Libia o destinate a fare naufragio nel Mediterraneo centrale. Adesso Don Mussie si è presentato spontaneamente davanti ai giudici di Trapani ed al suo fianco si è mobilitato un vasto fronte di solidarietà.
La “calda” estate del 2017, con l’attuazione degli accordi con il governo Serraj, dietro lo schermo della lunga negoziazione sul Codice di Condotta imposto alle navi umanitarie, ma segnata anche da inchieste giudiziarie dagli sviluppi ancora imprevedibili. ha costituito un punto di rottura irreversibile tra le ONG e le autorità di governo italiane. Anche se in ritardo, le Nazioni Unite riconoscono che le ONG non costituivano un fattore di attrazione. Di certo, almeno nell’accertamento delle responsabilità, e nella proposta di soluzioni alternative per conciliare solidarietà e legalità, i giuristi indipendenti e gli operatori umanitari non faranno un solo passo indietro.