Stefano Galieni
Nei nostri articoli parliamo spesso e quasi esclusivamente di Mediterraneo come se fosse il centro del pianeta anche per quanto riguarda le vicende attinenti ai rifugiati e ai richiedenti asilo. In attesa di contributi che provengono direttamente da coloro che in prima persona sono impegnati dall’altra parte del pianeta, proponiamo alcune riflessioni a partire da suggerimenti che ci sono stati offerti e di cui ringraziamo le persone a noi vicine. E per questo proviamo a parlare della difficile situazione al confine fra Pakistan e Afghanistan
« Le cifre ufficiali parlano di almeno 1 milione e mezzo di persone ma secondo le mie fonti andrebbero almeno triplicati». A Parlare è Sabika Shah Povia, giornalista e blogger italo – pakistana da sempre interessata a quanto avviene nel paese di origine della sua famiglia. E racconta di come sia difficile avere un numero anche approssimativo. « La zona di confine fra Pakistan e Afghanistan è stata solo recentemente militarizzata. Si tratta di “zone tribali, di province autogestite che non sono di fatto sotto il controllo del governo centrale pakistano. Lì l’accesso è difficile per chiunque, sia giornalisti che militari. Le persone vanno e vengono attraverso il confine. C’è chi parla pashtun ( la lingua più parlata in Afghanistan) e chi urdu, lingua pakistana ma parlata anche dai tanti afghani cresciuti in Pakistan.» La storia è lunga e complessa, affonda le sue radici in una guerra iniziata nel 1979 con l’invasione sovietica, proseguita con i governi dei mujaheddin prima e dei talebani poi, del conflitto con le forze occidentali guidate dagli USA dopo l’attentato alle Torri Gemelle e di fatto non si è mai interrotta. Ad ogni offensiva le persone reagivano chi combattendo contro il nemico di turno, chi dovendo fuggire e cercare futuro in altri paesi. «Gli afghani in Pakistan soffrono come i rifugiati palestinesi nei campi in Libano o in Giordania – continua Sabika Shah Povia – Vivono in un altro paese anche da generazioni ma vogliono essere definiti “palestinesi”.
Durante il regime talebano molte persone avevano attraversato il confine e molti avevano cercato riparo in Europa convinti che magari avendo prestato servizio come interpreti per gli eserciti alleati avrebbe loro garantito una corsia preferenziale per la richiesta di asilo. Molti ad oggi sono bloccati in Turchia o nei paesi balcanici con il rischio di essere rimpatriati mentre le loro famiglie continuano a subire ritorsioni.
Fra coloro che si erano invece fermati in Pakistan, la maggior parte, in tanti avevano cominciato a costruirsi una vita stabile. In tanti avevano ripreso a realizzare tappeti, considerati nel mondo pregiati. Ma la guerra aveva già prodotto un cambiamento significativo. I tappeti rappresentano, con i loro disegni raffinati la storia di un paese o di una famiglia. Un tempo raffiguravano campi, fiori, montagne, nei primi anni duemila venivano disegnati i ricordi degli attentati, i carri armati, i droni e i bombardieri, erano cambiati i colori e i ricordi segno di una cicatrice che sarà difficile sanare. È stato coniato anche un nome per questi tappeti che mantengono la raffinatezzza del lavoro artigianale e la potenza evocativa, li chiamano war rugs i giornali mondiali ne hanno parlato con un certo risalto in passato, come di testimoni di una guerra infinita che verrà tramandata per generazioni anche attraverso questi manufatti.
Ora l’Afghanistan è considerato “paese sicuro” tanto è che molti paesi UE rifiutano di concedere asilo a chi entra nei confini dell’Unione. Una situazione paradossale se solo si pensa che da una parte si finanziano le missioni militari in quel paese, si mantiene una forte presenza militare, si ha a che fare con ampie zone del paese ancora controllate dai talebani ma in cui contemporaneamente si ritiene “normale” rimpatriare chi da quelle persecuzioni fugge. Si salvano per ora i minori inespellibili ma anche il loro destino è appeso ad un filo.
Da alcuni anni si sta tentando di rimandare “volontariamente” i cittadini afghani presenti in Pakistan a casa, anche lì prevale il “mandiamoli a casa loro” magari definendo insieme alle autorità afghane e all’UNHCR, programmi di reinserimento (case e lavoro fondamentalmente), e cercando di incentivare in questa maniera il reimpatrio volontario. L’obbiettivo dichiarato è quello far rientrare, entro il dicembre 2017, almeno 600 mila persone. Ma senza sufficienti aiuti un simile movimento provocherebbe il collasso per un paese che sta faticando a ricostruirsi. Si è molto parlato in occidente della vicenda di Sharbat Gula, resa celebre dalla foto scattata nel 1985 dal fotografo Steve McCurry che l’ha immortalata su una copertina del National Geographic. All’epoca aveva 12 anni e due occhi verdi che con uno sguardo raccontavano tutta la brutalità di una vita in guerra. Ritrovata e ancora fotografata ormai madre nel 2002 dallo stesso fotografo che ne aveva fatto una icona, nell’ottobre del 2016 Sharbat è stata arrestata per possesso di documenti falsi con cui viveva in Pakistan e ne è stato disposto il rimpatrio. Si mobilitarono in molti, soprattutto in occidente, per impedire che ciò avvenisse nel timore di una punizione esemplare ma i due governi non cedettero. Da una parte il governo pakistano doveva dimostrare di non poter cedere alle pressioni esterne per un “simbolo” che avrebbe di fatto reso più complesso deportare gli altri meno famosi, dall’altra il governo afghano dovette assicurare di non comminarle una punizione troppo severa ( è stata condannata a 12 giorni di carcere e ad una multa) ma, per enfatizzare la volontà di voler provvedere a chi tornava, le venne fatto dono di una casa, di una macchina da cucire e di un aiuto per la famiglia.
Ma in quella vasta area di confine, isolata e di montagne impervie la situazione è quanto mai caotica. Nelle zone rurali anche i cittadini pakistani non sempre vengono registrati alla nascita e molti non hanno residenza, in tanti si muovono fra un confine e l’altro per andare a trovare i parenti lontani, parlano entrambe le lingue, difficile definirli come appartenenti ad uno o ad un altro paese anche se il loro destino verrà deciso da altri, sulla base delle necessità geopolitiche.
Secondo quanto riportato in un articolo di Dimeji Akinloye le cifre sono poi ancora più alte se si tiene conto dell’intero Paese. Nel 2016 l’ONU aveva previsto 250 mila profughi, in realtà sono stati 623 mila quelli che sono stati almeno registrati a causa dei conflitti in corso.

Soltanto nelle 3 settimane successive al rapporto ONU in cui si parlava di 580 mila sfollati (il 18 dicembre) oltre 40,000 persone sono state registrate come nuovi sfollati.
L’anno peggiore per gli sfollati secondo l’IDPs (National Profile of Internal Displaced Persons in Afghanistan). Sempre secondo il rapporto circa un milion di rifugiati registrati e senza documenti sono stati forzati a ritornare nel 2016 dal Pakistan o dall’Iran. Una sfida quasi impossibile per le agenzie umanitarie in Afghanistan. Secondo l’ONU sono oltre 9 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza, sia sfollati che rimpatriati, con un incremento del 15% rispetto al 2015. Chi porta aiuti umanitari afferma che ci saranno durante l’inverno, conseguenze mortali per centinaia di migliaia di persone che non avranno assistenza sanitaria e neanche un po’di cibo durante il duro inverno afghano. Maggiori informazioni giungono leggendo il lavoro della RAWA (Revolutionary Afghanistan Woman Army) da sempre molto attiva nel paese quanto osteggiata dai fondamentalisti.
Gli sfollati interni
Altro dato terribile è quello degli sfollati interni, come riportato da un articolo di Mirabed Joyenda. Chiedendo aiuto disperato alle organizzazioni umanitarie, il Ministero per gli sfollati interni e i rimpatri ha dichiarato che sui 550 mila circa da considerare in questa categoria solo 72 mila sono potuti tornare nelle loro regioni. E questo accade durante un inverno particolarmente rigido mentre le temperature continuano a scendere. In migliaia sono alloggiati sotto tende fragili a Kabul, almeno 7000. Provengono dalle province di Kunduz, Helmand, Nangarhar, Farah, Uruzgan, Faryab, Ghazni, Sar -e -Pul, Paktia, Baghlan e Baghdis in maggior parte. Joyenda racconta anche alcune storie personali come quella di Mohammad Noor, sfuggito alcuni mesi fa da Kunduz insieme alla moglie e 8 figli. «Preghiamo Dio e nessuno ci aiuta – dice – abbiamo perso tutto quello che avevamo e i nostri figli soffrono la fame». «Usciamo per raccogliere plastica e carta che bruciamo per avere un po’ di calore»racconta Kalima una delle figlie. È caduta tanta neve sulla capitale e le tende si sono riempite facilmente d’acqua. Lì la primavera tarda ad arrivare. Ed è ancora il bollettino di RAWA a fornirci notizie più approfondite.
Cosa accadrà nel 2017?
Il governo pakistano, all’inizio di febbraio, ha rinviato la decisione di rimpatriare i profughi ma questi sono ancora sotto pressione. L’ONU è sospettata di aver predisposto un piano per accelerarne il rimpatrio in zone di guerrra mettendo le tante persone ulteriormente a rischio.Ora sembra che i profughi potranno restare in Pakistan fino alla fine del 2017. Fonti interne affermano che la decisione del primo ministro pakistano Nawaz Sharif sia arrivata in realtà dopo le pressioni dell’UNHCR, da due partiti alleati e dallo stesso governo afghano. Sharif è stato di fatto avvertito che il rapido rimpatrio avrebbe come immediata conseguenza un avvicinamento fra l’Afghanistan e l’India, il paese, “rivale” per eccellenza. Secondo Gerry Simpson, autore di un rapporto di Human Rights Watch, le continue minacce di rimpatrio in tempi brevi, servono al Pakistan per convincere i profughi ad andarsene spontaneamente.
Nel rapporto si accusa il Pakistan di violare il principio di non refoulement e quindi il diritto internazionale, costringendo i rifugiati al ritorno in un paese in cui rischiano la vita o di essere sottoposti a persecuzioni e torture. Durissima l’accusa verso l’UNHCR considerata complice perché non ha condannato le misure governative anzi ne ha sostenuto l’operato fornendo sovvenzioni in denaro. Intervistato da IRIN Simpson ha dichiarato che: «È giunto il momento per l’UNHCR di parlare in modo chiaro e di dire che quello che si intende praticare è un rimpatrio forzato». Si va riproponendo insomma quanto accaduto nel 2016, con conseguenze durissime soprattutto per i nuclei familiari e le persone più vulnerabili.
L’agenzia per i rifugiati ha respinto le accuse di HRW. «Il ritorno dei profughi – ha dichiarato Duniya Aslam Khan, portavoce UNHCR in Pakistan – non si configura come respingimento collettivo. Le sovvenzioni in denaro sono state offerte a chi, informato ha deciso di propria iniziativa di lasciare il paese». La portavoce ha riconosciuto che le condizioni per il ritorno sono “tutt’altro che ideali”; di diverso avviso HRW secondo cui al di là delle condizioni difficili che attendono coloro che ritornano, il rimpatrio di fatto non è quasi più una decisione ma una condizione quasi obbligata. Nel 2016 il governo pakistano aveva lanciato una campagna di informazione per invogliare i profughi al ritorno. Poco tempo dopo è cresciuta la tensione con chi fino ad allora aveva ospitato gli afghani. C’è stata una impennata dei prezzi degli affitti delle case in cui vivevano, i figli non sono stati più ammessi a scuola, molti hanno perso il lavoro. Ci sono state violenze da parte delle forze di sicurezza pakistane, smentite dal governo ma documentate da HRW con prove, violenze cresciute dopo che il governo aveva annunciato il piano di rimpatrio e diminuite dopo che i termini della deportazione erano stati prorogati a marzo. Il rischio è che nei prossimi mesi si assista ad una recrudescenza di tali attacchi.
…E la guerra continua.
Secondo l’UNAMA (United Nations Assistence Mission in Afghanistan) che dal 2009 documenta il numero di vittime civili, solo lo scorso anno sono state 11418 il numero di persone uccise o ferite, il numero più alto negli ultimi 8 anni.Il governo afghano è alle prese con un numero record di sfollati interni, compresi quelli che hanno lasciato le loro case a causa del conflitto dello scorso anno, così come con un numero record di afgani che sono tornati principalmente dal Pakistan e dall’Iran. Le agenzie governative stanno chiedendo aiuti per $ 550 milioni alla comunità internazionale che serviranno a sostenere il maggior numero di persone “vulnerabili ed emarginate” presenti nel paese nel 2017. Ma nonostante questo anche dall’Europa si comincia a dare il diniego ai richiedenti asilo dall’Afghanistan e a rimpatriarli forzatamente nel loro paese. Sta accadendo frequentemente ormai dalla Germania, c’è da attendersi che le misure vengano estese all’intera UE per cui l’Afghanistan, è ormai un “paese sicuro” in cui mandare contemporaneamente armi, eserciti e rifugiati.