di Emilio Drudi*
Sono poco più di 290 mila i profughi giunti in Europa dall’inizio dell’anno fino al 30 agosto. Per la massima parte in Grecia, oltre 163 mila, e in Italia, circa 115 mila. In Italia il flusso ricalca grossomodo quello dello scorso anno, ma è enormemente inferiore in Grecia, dove nell’arco del 2015 sono sbarcati 850 mila migranti. Con questo ritmo, è evidente che nel 2016 non si arriverà neanche a sfiorare il tetto record di un milione e 50 mila arrivi registrato lo scorso anno. Eppure si parla di invasione. Al tavolo del G20, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e quello della Commissione Europea Jean Claude Junker, i massimi vertici delle istituzioni Ue, sono arrivati a dire che sui migranti “l’Europa è ormai al limite”. Sorvolando sul fatto che il milione circa di rifugiati arrivati lo scorso anno sono appena lo 0,2 per cento della popolazione del continente più ricco del mondo. Così si continuano a erigere barriere.
Tra i più solerti “costruttori di barriere” c’è l’Ungheria la quale, giusto a fine agosto, a un anno dall’innalzamento del primo, ha annunciato un nuovo muro difensivo anti-migranti lungo tutti i 175 chilometri di frontiera con la Serbia: una muraglia di filo spinato e lamelle affilate alta almeno 4 metri e difesa da altri 3.000 poliziotti, in aggiunta ai 3.500 già in servizio, nella previsione dell’eventuale “via libera”, da parte del Governo di Ankara, ai circa tre milioni di profughi ospitati in Turchia. È l’ultimo atto della politica di chiusura totale adottata da Budapest nei confronti di rifugiati e migranti. Politica che il presidente Viktor Orban ha più volte giustificato, anzi, esaltato, come “difesa dei valori europei”, asserendo che gli immigrati sarebbero “dei parassiti, criminali che sovvertono la società in cui vanno a vivere”. Ma questa scelta e queste dichiarazioni non hanno nulla a che fare con i principi di libertà, uguaglianza, solidarietà che sono alla base dell’idea stessa di Europa e dei valori che Orban dice di voler tutelare. Sembrano, piuttosto, una questione di “mercato” e di soldi. Come rivela una recente inchiesta di Roberto Scarcella, pubblicata da La Stampa di Torino, infatti, “agli extracomunitari disposti a sborsare 300 mila euro in titoli di Stato e 50 mila a fondo perduto, Budapest non oppone alcuna resistenza”. Anzi, in questo caso, “chi vuole il passaporto ungherese, e di conseguenza europeo, non deve sostenere alcun colloquio, non è tenuto a conoscere la lingua del Paese d’adozione” né a sottoporsi “a un test medico per certificare lo stato di salute”. Il rilascio della residenza è immediato. La cittadinanza si ottiene, invece, entro 5 anni, ma a quel punto, insieme al passaporto, vengono restituiti i 300 mila euro versati inizialmente, mentre restano allo Stato gli altri 50 mila.
Quello dell’Ungheria non è un caso isolato. Fanno praticamente lo stesso – come sta emergendo da una indagine dell’Europol promossa nel 2014 dall’allora commissario europeo alla Giustizia, Viviane Reding – almeno un’altra decina di paesi Ue: Malta, la prima a finire nelle maglie dell’inchiesta, e poi, in ordine alfabetico, l’Austria, il Belgio, la Bulgaria, Cipro, la Grecia, l’Irlanda, la Lettonia, il Portogallo, la Spagna. Tutti pare mettano in vendita, di fatto, la cittadinanza europea: cambiano solo le quote da pagare e le modalità. In Bulgaria, ad esempio, dove lo Stato finanzia ronde di cittadini privati per dare la caccia ai clandestini, il passaporto si può ottenere in 5 anni investendo in bond governativi 511 mila euro, cifra che viene poi restituita senza interessi. Anzi, “se si è disposti a raddoppiare la cifra – scrive Roberto Scarcella – si può diventare bulgari in 24 mesi”. In alternativa – aggiunge un servizio pubblicato da Tgcom24 – si possono “investire 125 mila euro in regioni sottosviluppate o 250 mila in una nuova azienda”. A Malta, in base a una normativa introdotta dal premier laburista Joseph Muscat, fino al 2013 si poteva ottenere la cittadinanza europea nel giro di pochi mesi: bastava investire sull’isola 650 mila euro. Il capo dell’opposizione, James Azzopardi, ha accusato senza mezzi termini il Governo di “prostituire la cittadinanza maltese”, premiando i benestanti, umiliando i poveri e infischiandosi dei diritti umani. Queste pesanti accuse non sono rimaste inascoltate, ma i successivi interventi di Bruxelles hanno prodotto solo l’effetto di raddoppiare la cifra di investimenti richiesta e di introdurre “colloqui più approfonditi” con gli acquirenti.
Ancora. A Nicosia, per diventare cittadino di Cipro e quindi europeo, dopo una iniziale vendita “a buon mercato”, la spesa è ora più elevata: dai 3 ai 5 milioni da investire in aziende oppure in immobili. In compenso, però il periodo di attesa è di pochissimi mesi: in genere appena tre, ma comunque non più di sei. In Lettonia, dove sono state consultate le stesse ditte che hanno costruito la barriera nel Sinai tra Israele ed Egitto per progettare un muro di 90 chilometri lungo il confine con la Russia, per ottenere la residenza subito e il passaporto entro dieci anni, il budget è di circa 500 mila euro. Austria, Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna sarebbero entrate più di recente in questo giro, con “tariffe” e tempi diversi. Secondo quanto afferma Tgcom24, il paese più abbordabile pare sia il Belgio: 350 mila euro di investimenti in un’azienda per avere “la residenza in due mesi e il passaporto in 5 anni”. Il più caro, l’Austria: 3 milioni a disposizione di aziende pubbliche o private e rilascio del passaporto “in un lasso di tempo che va da uno a tre anni”.
Mentre si grida all’invasione e si alzano muri, dunque, buona parte delle cancellerie europee, con in testa quelle promotrici della politica più restrittiva anti-migranti, starebbero alimentando un vero e proprio mercato dei passaporti basato sul censo. Ovvero, chi può far affluire centinaia di migliaia di euro, non sembra avere difficoltà ad ottenere un passaporto Ue che gli consente di muoversi in piena libertà praticamente in ogni parte del mondo. Di contro, chi ha perso tutto fuggendo da guerre, terrorismo, persecuzioni, carestie, miseria endemica, trova sulla sua strada mille barriere. Barriere fisiche ai confini, come il nuovo muro fortificato che sta per costruire l’Ungheria, simile a quelli realizzati nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla in Marocco, sul fiume Evros tra Grecia e Turchia o alla frontiera turco-bulgara. E barriere politico-normative, come il Processo di Rabat, il Processo di Khartoum, gli accordi di Malta, l’intesa con la Turchia e i trattati bilaterali con singoli governi africani: tutti gli accordi, insomma, firmati dall’Unione Europea per esternalizzare i propri confini, spostandoli sempre più a sud, fin oltre il Sahara, e affidandone la sorveglianza agli Stati partner, in cambio di finanziamenti mascherati da contributi allo sviluppo. Senza tener conto che in questi paesi il rispetto dei diritti umani è a dir poco aleatorio, quando non si tratta di realtà come la Libia, che non ha mai accettato la convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, o addirittura di dittature feroci come l’Egitto di Al Sisi; il Sudan di Al Bashir, condannato per crimini di lesa umanità; l’Eritrea di Isaias Afewerki, al quale la Commissione d’inchiesta Onu ha contestato nel giugno scorso la violazione sistematica dei diritti umani, chiedendo di deferirlo alla Corte Internazionale di Giustizia.
Forse per questo Viktor Orban può dipingere la sua politica di chiusura come una “difesa dei valori europei” senza che Bruxelles abbia sentito l’esigenza di tacitarlo e che nessuna cancelleria europea gli abbia contestato che proprio le muraglie di filo spinato che Budapest sta erigendo sono la negazione più palese di quei valori. Forse, cioè, nessuno degli Stati Ue è nella posizione, in realtà, di poter “scagliare la prima pietra”, perché, in un modo o nell’altro, in tutti è prevalsa la scelta di affidarsi al principio “soldi in cambio di uomini”. In maniera diretta come quello che Roberto Scarcella ha giustamente definito “il business dei passaporti comprati”. O in maniera più nascosta, attraverso l’incarico alle polizie africane di occuparsi del lavoro sporco di bloccare direttamente in Africa, a qualunque costo, i flussi dei migranti verso la sponda sud del Mediterraneo o al momento dell’imbarco. Nel primo caso, l’Europa incassa migliaia o magari milioni di euro da coloro che possono comprarsi il passaporto; nel secondo, è l’Europa a pagare per respingere quelli che considera un peso o un problema. Ma, appunto, si tratta sempre di soldi in cambio di uomini.
Appaiono per molti versi una conferma di questa linea anche le dichiarazioni rilasciate nel giugno scorso da Dimitris Avramopoulos, il commissario europeo per l’immigrazione, a proposito dei partenariati tra la Ue e i Paesi africani o asiatici disposti a bloccare i profughi o a “riprendersi” quelli respinti dall’Europa. Oltre a parlare di “risorse economiche già disponibili” per sostenere lo sviluppo degli Stati pronti a “collaborare ai rimpatri”, Avramopoulos ha aggiunto che Bruxelles ha in cantiere una nuova “carta blu”, una via legale per chi intende venire in Europa da quei Paesi, per un totale che oscilla tra i 32 mila e i 137 mila posti l’anno, privilegiando però i migranti più preparati e i lavoratori specializzati. Non una parola sul diritto di essere accolti semplicemente perché si è costretti a intraprendere una vera e propria fuga per la vita da situazioni estreme. Ad esempio, proprio tra i paesi partner a cui il commissario faceva riferimento, figurano realtà come la Libia della guerra di tutti contro tutti; il Mali mai pacificato dopo la rivolta tuareg del 2012; il Niger che l’Onu definisce in preda a una crisi umanitaria senza precedenti; la Nigeria sconvolta dalla violenza delle milizie estremiste di Boko Haram; l’Etiopia dove nelle ultime settimane si sono contati centinaia di morti e che rischia di precipitare nel caos di una guerra civile. Eppure niente: la nuova carta blu sembra essenzialmente riservata a persone “altamente qualificate”.
Ancora una volta, una “scelta di mercato”: anziché privilegiare i diritti fondamentali e ancorare alla loro terra i giovani più acculturati, quelli che potrebbero diventare la futura classe dirigente dei rispettivi paesi, favorendone la crescita, sembra quasi che Bruxelles voglia incentivare una sorta di fuga dei cervelli per rispondere “alla urgente necessità di forza lavoro specializzata” che ha l’Europa. Già, si “rubano” o comunque si incoraggiano a partire i ragazzi migliori, il futuro, salvo poi dire che il programma concordato punta a “contrastare le cause dell’esodo” facendo crescere l’economia dei paesi di provenienza dei migranti. E, a ben vedere, anche questo “furto di cervelli” obbedisce, in fondo, al principio “soldi in cambio di uomini”. Anzi, forse è anche peggio.
* Tratto da: www.buongiornolatina.it