Giovedì 14 gennaio si è svolto a Catania, presso la sala stampa della Questura, un incontro tra le associazioni, i rappresentanti della stessa Questura, con la dott.ssa Paglialunga, e il dott. Nicolao, responsabile di Frontex. Al confronto hanno partecipato rappresentanti della Rete Antirazzista catanese, ed invitate da quest’ultima, dell’associazione Catania Bene Comune, della Campagna LasciateCientrare, dell’Associazione Borderline Sicilia, dell’Associazione ADIF (Diritti e frontiere).
All’inizio dell’incontro, il dott. Nicolao ha precisato che, in questo momento, obiettivo centrale delle attività di Frontex, oltre che dal contrasto dell’immigrazione irregolare e della lotta ai trafficanti, è costituito dal soccorso delle persone in mare, nell’ambito dell’operazione Triton, e poi, in concorso con le autorità italiane di polizia, dalle attività di identificazione attraverso il prelievo delle impronte digitali dopo gli sbarchi. Ha anche accennato alle attività di rimpatrio dei migranti che non presentano istanza di protezione o non ne hanno i requisiti. Su questo punto però non sono state fornite particolari informazioni.
La dott.ssa Paglialunga della Questura di Catania, ha quindi precisato che le attività di identificazione nei porti, dopo gli sbarchi, attraverso il prelievo delle impronte, sono finalizzate sia all’attuazione del Regolamento Dublino III e del Regolamento Eurodac, che alla sicurezza nazionale, contro il rischio di possibili infiltrazioni terroristiche. Sul punto i rappresentanti delle associazioni hanno replicato che non ci sono evidenze oggettive della presenza allo sbarco nei porti siciliani di persone che costituiscono minaccia per la sicurezza nazionale.
Particolarmente grave l’opinione espressa in apertura del confronto dal rappresentante di Frontex Nicolao: chi non rilascia le impronte lo farebbe perché avrebbe qualcosa da nascondere e bisogna costringerlo, anche con la forza, a rispettare la legge; lo stesso ha precisato che dopo il primo rifiuto si svolgono diversi tentativi di identificazione con un progressivo aumento del livello di coercizione, sia da un punto di vista fisico che morale, al punto da arrivare anche ad utilizzare collegamenti via Skype con rifugiati “ricollocati” in altri paesi europei.
Dagli interventi dei rappresentanti della Questura e di Frontex si è anche rilevato che gli operatori che in precedenza facevano parte del progetto Praesidium, oggi ancora impegnati sulla base di diverse convenzioni con il Ministero dell’interno ( Save The Childrem, OIM, UNHCR), intervengono solo quando riescono ad essere presenti, magari facendosi vedere allo sbarco, ma senza raggiungere singolarmente i migranti, per il ridotto numero di operatori e per la cronica mancanza di interpreti. Si è avuto conferma, dall’intervento del rappresentante di Frontex , che i migranti, ai quali si richiede il rilascio delle impronte digitali, subito dopo lo sbarco, sono esposti a forti pressioni fisiche e morali, da parte delle autorità di polizia, con una serie di misure progressivamente più pressanti, come il trasferimento da un Hotspot ad un altro, fino a quando non cedono. Prassi peraltro già verificate sul campo con il trasferimento, nei primi giorni di gennaio, di un gruppo di sette eritrei che per un mese si erano rifiutati di rilasciare le impronte digitali nel centro-Hotspot di Lampedusa, e da li condotti prima a Porto Empedocle e poi nel vecchio CIE di Trapani Milo, riadattato ad Hotspot, dove alla fine erano costretti a rilasciare le impronte, dopo due notti di trattenimento in una saletta del centro, ad uso della polizia.
E’ anche emersa una forte difformità della “pratica Hotspot” nei punti di sbarco, anche al di fuori dei centri denominati, spesso impropriamente, in questo modo, al punto che a Catania, a differenza che negli altri porti siciliani, le impronte digitali vengono rilevate direttamente al porto, in una zona totalmente militarizzata, con una immediata compressione della libertà personale, mentre in altre città lo stesso processo si compie presso gli uffici immigrazione delle questure.
Il rappresentante di Frontex ha annunciato di avere richiesto al ministero dell’interno una verifica ed un impegno perché nei diversi porti si adottino le stesse prassi, presumibilmente riportandole al livello più severo adottato nel porto di Catania. Le associazioni presenti hanno rilevato che in questo modo si rischia di prolungare le attese in banchina con una crescita esponenziale delle tensioni, senza consentire alle organizzazioni di volontari la tempestiva identificazione dei soggetti vulnerabili, delle vittime di tratta e dei minori non accompagnati, oltre che la riunificazione dei nuclei familiari. Solo una corretta informazione, e soprattutto la libera scelta sulla rilocazione o sulla mobilità successiva, con documenti di viaggio validi per l’intera Unione Europea, con una modifica sostanziale del Regolamento Dublino, potrebbero sdrammatizzare il momento del prelievo delle impronte digitali, e consentire una effettiva mobilità dei migranti giunti negli HotSpot. Le associazioni hanno ribadito che senza “rilocation”, seppure nei modesti minimi garantiti dagli stati europei, la pratica Hotspot rischia di riprodurre tanti campi di concentramento che saranno luogo di tensioni sempre più forti, ed è un segnale allarmante da questo punt(i)o di vista la riapertura di alcuni CIE, come quello di Via Corelli a Milano, luoghi in passato di gravi violazioni dei diritti della persona.
Come rappresentante di Adif ho messo in evidenza l’assenza di basi legali delle attività di trattenimento negli Hot Spot e soprattutto del prelievo delle impronte digitali con il ricorso all’uso della forza, ricordando che in documento del settembre 2015 la Commissione Europea rilevava che la materia riguardava la competenza del legislatore nazionale ( che in Italia non è intervenuto, come non è intervenuto per adottare una “lista di paesi terzi sicuri”), e che nella metà dei 28 stati membri il ricorso all’uso della forza nelle procedure di identificazione non risultava affatto previsto. Lo stesso ha ricordato l’illegittimità del trattenimento prolungato a fini di identificazione, al di fuori delle regole e delle procedure fissate dalla legge e dalla Costituzione italiana, ricordando che dopo la Relazione finale della Commissione de Mistura nel 2007, il legislatore italiano aveva abolito i centri di identificazione (CID), nei quali si erano verificati trattenimenti arbitrari ed abusi di ogni genere. Una situazione che rischia oggi di riprodursi nei centri denominati Hotspot.
A questa osservazione non è seguita replica, come non è seguita replica da parte della Questura in ordine alla critica della circolare del ministero dell’interno del 6 ottobre 2015 che nel prefigurare il regime delle operazioni di rilocation verso altri paesi europei, costituirebbe l’unica fonte legale interna dei nuovi HotSpot, o delle pratiche da HotSpot, facendo però riferimento esclusivo a due decisioni adottate dal Consiglio Europeo nel mese di settembre dello scorso anno, e per quanto non previsto, “alla vigente normativa” italiana.
Si è inoltre lamentata la pratica della diffusione di foglietti di richiesta informazioni tra i migranti appena sbarcati, nei quali tra le domande poste non figurava la richiesta di protezione, mentre si dava rilievo alla eventuale “volontà di lavorare” tra le ragioni della migrazione, con la conseguenza che molti migranti che avrebbero avuto tutte le ragioni per presentare una richiesta di asilo venivano classificati “migranti economici” e come tali erano immediatamente destinatari di provvedimento di respingimento differito.
Il rappresentante di Frontex ha convenuto che in effetti si registra una cronica mancanza di interpreti e mediatori culturali, aggiungendo che in alcune circostanze la questura si è avvalsa proprio degli interpreti dell’Agenzia Frontex presenti nel territorio. Lo stesso ha auspicato che durante le operazioni di foto segnalamento e di prelievo delle impronte digitali ci fossero presenti un maggior numero di mediatori linguistico-culturali in modo da consentire una migliore riuscita di queste attività.
Alfonso Di Stefano, rappresentante della Rete Antirazzista catanese ha chiesto un chiarimento sui rapporti tra Frontex e l’operazione Eunavformed,oltre che sui siti civili e militari che li supportano in Sicilia. Ho invece chiesto informazioni sulle basi legali e sui poteri che saranno attribuiti alla nuova polizia europea di frontiera ed ala guardia costiera europea, che secondo i documenti europei dovrebbero essere “build on” e “from Frontex”, costituendo di fatto un potenziamento dei mezzi e degli organici dell’Agenzia. Il rappresentante dell’Agenzia non si è comunque pronunciato su materie di spessore politico ancora rimesse alle decisioni del Consiglio e della Commissione Europea.
Lo stesso rappresentante di Frontex, entrando nel merito degli attuali assetti dell’operazione Triton, ha chiarito che, a fronte della diminuzione di navi straniere impegnate nel Mediterraneo centrale, ci sarebbero navi italiane che operano all’interno di Frontex, con finanziamento europeo, nelle attività di pattugliamento contro l’immigrazione irregolare, e quando sono dichiarati eventi SAR (ricerca e soccorso) sotto il coordinamento della centrale operativa della Guardia Costiera italiana.
Paola Ottaviano della rete Borderline Sicilia e Agata Ronsivalle della Campagna LasciateCIEntrare hanno denunciato il fenomeno assai diffuso dei respingimenti differiti notificati a persone ancora prive di informazioni, private della concreta possibilità di presentare una istanza di protezione internazionale, e dunque in violazione della legge italiana, come stabilito anche dalla Corte di Cassazione che stabilisce in casi simili la nullità dei provvedimenti di respingimento adottati dai questori. Si è anche ricordato come si stiano sommando le pronunce di sospensiva di questi provvedimenti da parte dei Tribunali, soprattutto a Palermo, con riferimento a provvedimenti di respingimento adottati dalla questura di Agrigento.
Il Rappresentante di Catania Bene Comune Matteo Iannitti ha infine ribadito il rischio di una situazione paradossale a Catania e negli altri luoghi, spesso in prossimità delle stazioni, in cui vengono abbandonati i migranti dopo avere ricevuto un provvedimento di respingimento differito, ai sensi dell’art. 10 comma 2 del T.U. 286 del 1998, con l’intimazione da parte del questore di lasciare “entro sette giorni” il territorio nazionale. Un provvedimento che sarà impossibile eseguire da parte di persone prive di mezzi e di documenti, e che determina una dispersione incontrollabile sul territorio nazionale ed europeo che dovrebbe essere evitata proprio da chi asserisce a parole di ritenere tanto importanti i concetti di sicurezza e di ordine pubblico.
Le associazioni presenti hanno anche richiesto che le competenti autorità e i rappresentanti dell’agenzia Frontex che vi collaborano, favoriscano in ogni modo il ricongiungimento familiare tra i migranti sbarcati in Italia, e di loro parenti già arrivati e legalmente residenti in altri paesi europei. Un ricongiungimento consentito già in base al vigente Regolamento Dublino. Un modo forse risolutivo per semplificare le fasi della prima identificazione ed evitare il ricorso all’uso della forza.
Secondo le associazioni, occorre dare attuazione alla cd. clausola del Regolamento secondo la quale uno stato di secondo ingresso può comunque prendere in esame la richiesta di protezione di un richiedente che sia transitato in altro stato dell’Unione per ragioni umanitarie fondate in particolare su motivi familiari culturali o umanitari
Le stesse associazioni, di fronte alla difesa del Regolamento Dublino III, nella sua attuale operatività sostenuta dalla rappresentante della questura di Catania, hanno replicato ricordando la inefficienza ed i ritardi delle relative procedure e come nelle diverse istituzioni europee, siano emerse da tempo posizioni critiche verso le modalità applicative del Regolamento Dublino, per le ingiustizie, soprattutto disparità di trattamento, che si verificavano nelle prassi applicate dai ministeri dell’interno dei diversi paesi U.E. presso i quali avevano sede le cd. “Unità Dublino”, uffici preposti specificamente alla realizzazione delle procedure di trasferimento forzato.
Io ho infine ricordato che la Convenzione di Ginevra, in caso di proposizione di una istanza di protezione internazionale da parte di una persona che sia stata costretta a fare ingresso irregolare non legittima automaticamente l’adozione di una misura restrittiva della libertà personale e che il richiedente può comunque essere trattenuto in un centro di detenzione amministrativa solo sulla base di una specifica previsione della legge nazionale ( riserva di legge) e non certo per effetto di una circolare ministeriale come quella adottata il 6 ottobre 2015..
Le associazioni presenti hanno anche espresso preoccupazione per gli accordi bilaterali di cooperazione amministrativa ai fini di semplificare e rendere più rapide le procedure di riammissione, soprattutto nel caso della Nigeria, anche a fronte dei voli congiunti di rimpatri finanziati da Frontex. Si sono esibiti i documenti ufficiali provenienti dalla Commissione Europea che provano che dal mese di settembre sono stati eseguiti voli di rimpatrio congiunto da Roma Fiumicino a Lagos in Nigeria, gestiti da Frontex, Il rappresentante dell’Agenzia ha risposto al riguardo che si tratta di voli finanziati da budget europei ma che le decisioni di rimpatrio sono di esclusiva competenza delle autorità nazionali e che su queste Frontex non interferisce. Non è stato però chiarito come e in quale misura Frontex utilizzi personale proprio nell’esecuzione dei voli in questione. E’ stato però confermato, anche nel caso della Nigeria, sulla base di un apposito accordo tra l’Unione Europea e lo stesso paese, un accordo che prevede scambi di ufficiali di collegamento ed una semplificazione delle procedure di riammissione.
A margine dell’incontro si ribadisce che a fronte dei casi di detenzione amministrativa o di limitazione della libertà di circolazione, dei richiedenti asilo per i quali la Direttiva sulle procedure rinvia alla direttiva 2013/33/UE sull’accoglienza, stabilendo comunque l’esigenza di “un rapido controllo giurisdizionale” (art.26), occorre ancora porre la massima attenzione sulle garanzie procedurali e sull’esercizio effettivo dei diritti di difesa.
Al “Considerando” 25 la Direttiva stabilisce, in particolare, che è “opportuno che ciascun richiedente abbia un accesso effettivo alle procedure, l’opportunità di cooperare e comunicare correttamente con le autorità competenti per presentare gli elementi rilevanti della sua situazione, nonché disponga di sufficienti garanzie procedurali per far valere i propri diritti in ciascuna fase della procedura. Inoltre, è opportuno che la procedura di esame di una domanda di protezione internazionale contempli di norma per il richiedente almeno: il diritto di rimanere in attesa della decisione dell’autorità accertante; la possibilità di ricorrere a un interprete per esporre la propria situazione nei colloqui con le autorità; la possibilità di comunicare con un rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e con altre organizzazioni che prestano consulenza e assistenza ai richiedenti protezione internazionale; il diritto a un’appropriata notifica della decisione e della relativa motivazione in fatto e in diritto; la possibilità di consultare un avvocato. o altro consulente legale; il diritto di essere informato circa la sua posizione giuridica nei momenti decisivi del procedimento, in una lingua che capisce o è ragionevole supporre possa capire; e, in caso di decisione negativa, il diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice.
Inoltre, secondo il Considerando 42 la designazione di un paese terzo quale paese di origine sicuro ai fini del rimpatrio “non può stabilire una garanzia assoluta di sicurezza per i cittadini di tale paese”. Se un richiedente asilo dimostra che vi sono validi motivi per non ritenere sicuro il suo paese, “la designazione del paese come sicuro non può più applicarsi al suo caso”.
Per coloro che, dopo essere sbarcati nei porti siciliani, riescono a presentare una istanza di protezione internazionale avendo già ricevuto la notifica di un provvedimento di respingimento si presentano i rischi opposti dell’abbandono al di fuori del sistema di accoglienza, o del trattenimento in centro di detenzione amministrativa, come si è verificato nelle settimane passate e come continua ancora a verificarsi.
Con specifico riferimento della detenzione amministrativa dei richiedenti asilo, già destinatari di un provvedimento di respingimento o di espulsione, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha emesso una importante decisione che riguarda proprio l’applicazione della Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE dopo una richiesta di protezione internazionale, in uno dei tanti casi nei quali, negli stati dell’Unione Europea, la condizione dei richiedenti asilo era soggette alle stesse restrizioni della libertà personale, come il trattenimento nei centri di detenzione, previste per gli immigrati irregolari in attesa di espulsione o di respingimento. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa Arslan (C-534/11), ha stabilito “che il solo fatto che un richiedente asilo, al momento della proposizione della sua domanda, sia oggetto di un provvedimento di allontanamento e che sia disposto il suo trattenimento in base all’articolo 15 della direttiva 2008/115 non permette di presumere, senza una valutazione caso per caso di tutte le circostanze pertinenti, che egli abbia presentato tale domanda al solo scopo di ritardare o compromettere l’esecuzione della decisione di allontanamento e che sia oggettivamente necessario e proporzionato mantenere il provvedimento di trattenimento”.
Fulvio Vassallo Paleologo