Continuità di governo e violazioni del diritto internazionale

di Fulvio Vassallo Paleologo

1. Nel giorno in cui ricorre il quinto anniversario della firma del Memorandum Gentiloni-Minniti sottoscritto il 2 febbraio 2017 con il governo di Tripoli, che già allora non rappresentava l’intero paese, si moltiplicano le testimonianze sugli abusi che ancora oggi subiscono le persone intercettate in alto mare e riportate indietro dalla sedicente Guardia costiera libica. E’ giusto chiedere la revoca di quel Memorandum, già oggetto di una precisa denuncia da parte del Tribunale permanente dei Popoli nel dicembre del 2017, ed apertamente criticato già nel 2019 da una importante sentenza del Tribunale di Trapani adesso confermata dalla Corte di cassazione ( caso Vos Thalassa), ma occorre essere anche consapevoli della continuità delle linee di governo che hanno caratterizzato i rapporti con le autorità libiche a partire dal 2004 ad oggi. Linee di governo che si sono concretizzate in atti amministrativi “contra legem”, in scelte operative che hanno concretizzato respingimenti collettivi illegali e in decisioni politiche e legislative che hanno violato il sistema gerarchico delle fonti normative ed i principi basilari dello Stato di diritto, segnati dagli articoli 10,11 e 117 della Costituzione italiana. Ed è proprio su questi temi che si sta portando avanti a Palermo un processo nei confronti dell’ex ministro dell’interno senatore Salvini. Processo che rischia però di diventare l’ennesimo terreno di propaganda per le campagne di destra contro i soccorsi in mare e le organizzazioni non governative.

Come ha ricordato il Giudice delle indagini preliminari di Trapani, nella sentenza sul caso della legittima difesa riconosciuta ai naufraghi raccolti dal rimorchiatore Vos Thalassa nel luglio lo scorso anno, ” “il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-refoulement aveva già acquisito rango di jus cogens, è: – privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’art. 10 co. 1 Cost., secondo cui ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement’. Secondo il giudice di Trapani, il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia stipulato il 2 febbraio 2017, mai approvato dal Parlamento secondo la procedura fissata dall’art. 80 della Costituzione, costituisce “un’intesa giuridicamente non vincolante e non avente natura legislativa”.

Per diritto cogente (jus cogens), ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, si intendono quelle norme contenute nei Trattati e nelle Convenzioni internazionali che non possono essere derogate dagli stati. “ È nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale. Ai fini della presente convenzione, per norma imperativa di diritto internazionale generale si intende una norma che sia stata accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale degli Stati nel suo insieme in quanto norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente lo stesso carattere”.

Per quanto riguarda il cd diritto internazionale del mare l’ambito di norme che vincolano direttamente gli stati è ancora più ristretto, e prevale il riconoscimento dello strumento convenzionale per dare concretezza al rispetto dei doveri di ricerca  e soccorso in mare. La doverosa tutela della persona umana impedisce però di considerare la singola Convenzione internazionale o peggio alcune sue disposizioni, in una dimensione atomistica, senza tenere conto di tutte le principali Convenzioni internazionali, del diritto umanitario dei rifugiati e degli obblighi di cooperazione tra gli stati per garantire la dignità umana in un quadro di giustizia e di pace. Assume dunque particolare rilievo, accanto alle Convenzioni internazionali di diritto del mare, il divieto di respingimento sancito dall’art.33 della Convenzione di Ginevra.

Si deve ricordare infine il Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite firmata a Palermo nel 2000 contro la Criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico illecito di migranti per via terrestre, aerea e marittima, frequentemente invocato per fornire una base legale agli accordi intercorsi con la Libia, prevede la superiorità gerarchica delle norme di diritto internazionale relativi ai diritti dell’Uomo e della Convenzione di Ginevra. Lo stesso Protocollo risulta peraltro applicabile solo quando si riscontrino gli estremi del crimine transnazionale.

In base all’ articolo 19 § 1 del Protocollo adesso richiamato, «Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica gli altri diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e degli individui derivanti dal diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale relativo ai diritti dell’uomo e, in particolare, laddove applicabili, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 relativi allo status dei Rifugiati e il principio di non respingimento ivi enunciato.»

2. La continuità di governo nei rapporti con i libici si riscontra, come per la politica energetica delegata all’ENI, anche negli atti del Parlamento che ha rifinanziato fino allo scorso anno gli accordi con la Libia, e con il comportamento delle autorità marittime italiane che, a partire dal 2017, con una completa inversione rispetto alle prassi che venivano adottate in precedenza, anche dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum del 2014, invitano tutte le unità in navigazione nelle acque internazionali del canale di Sicilia, che avvistano barconi carichi di migranti in acque internazionali, a fare riferimento immediato alla sedicente Guardia costiera libica. Come se non fosse noto da anni quale sorte attende le migliaia di persone intercettate in alto mare e riportate nell’inferno libico, che anche i giudici italiani hanno potuto documentare in modo inoppugnabile.

Afferma la Corte di Strasburgo nella sentenza Hirsi: “Dotato di questo contenuto e di questa estensione, il divieto di respingimento costituisce un principio di diritto internazionale consuetudinario che vincola tutti gli Stati, compresi quelli che non sono parti alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati o a qualsiasi altro trattato di protezione dei rifugiati. È inoltre una norma di jus cogens: non subisce alcuna deroga ed è imperativa, in quanto non può essere oggetto di alcuna riserva” (articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, articolo 42 § 1 della Convenzione sullo status dei rifugiati e articolo VII§1 del Protocollo del 1967).

 Secondo l’UNHCR, “nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato”.

Anche se non si potrà dire, come nel caso Hirsi, che il governo italiano si trova ad esercitare una “giurisdizione esclusiva” sui migranti intercettati in acque internazionali e riconsegnati alle autorità libiche, non sembra escludere una potestà concorrente in ordine alla destinazione del luogo di sbarco dei migranti soccorsi nelle acque internazionali al limite delle acque costiere libiche,con la conseguente responsabilità dello stato italiano per le gravi violazioni dei diritti umani, subite da queste persone, indipendentemente dalla presenza di delegazioni dell’OIM o dell’UNHCR in territorio libico, nei luoghi di sbarco e poi in alcuni centri di trattenimento amministrativo. Una responsabilità “esclusiva” si potrà invece configurare nei casi in cui le autorità italiane preposte alla gestione delle operazioni SAR, dopo avere ricevuto una chiamata di soccorso ed avere coordinato l’avvio di una attività SAR ne cedano la gestione alla Guardia costiera libica, magari orientando i comandanti delle navi commerciali presenti nella zona degli eventi di soccorso, che non vengono neppure qualificati come eventi SAR, ma solo come “eventi migratori”, impedendo i soccorsi più tempestivi che sarebbero imposti dalle Convenzioni internazionali e che sarebbero possibili se non si ostacolasse ancora la presenza di navi, appartenenti ad ONG, che senza la politica dei fermi amministrativi, potrebbero operare in acque internazionali con maggiore continuità. Queste prassi operative scaturiscono dal Memorandum d’intesa tra Italia e governo di Tripoli del 2 febbraio 2017 e dagli accordi con la sedicente Guardia costiera “libica”.

Secondo lo statuto della Corte Penale internazionale, costituisce crimine contro l’umanità, infatti, l’“attacco (i) esteso o sistematico (ii) diretto contro ogni popolazione civile (iii), realizzato consapevolmente (v) in esecuzione del disegno politico di uno Stato o organizzazione (iv)”. Si può dunque osservare come gli ” accordi in parola potrebbero astrattamente integrare, sia sotto il profilo dell’actus reus che della mens rea, la particolare forma di responsabilità dell’agevolazione materiale exart. 25(3)(c) dello Statuto di Roma. Infatti, ” la cooperazione con la Libia potrebbe configurare anche la responsabilità internazionale dello Stato italiano. Si osserva a tale riguardo come “In punto di fatto, non vi può essere dubbio sulla sussistenza della piena volontà da parte delle autorità italiane di agevolare e assistere le controparti libiche, chiaramente desumibile tanto dalla lettera degli accordi quanto dalle dichiarazioni degli stessi Ministri. Similmente, anche con riferimento alla consapevolezza dell’esistenza di un sistema consolidato di abusi, sembra potersi dare una risposta affermativa. Infatti, come sottolineato da Amnesty International, sia prima che dopo la conclusione degli accordi vi sono state numerose pubblicazioni di agenzie di stampa, ONG e organizzazioni internazionali, che hanno svelato le estese e sistematiche violazioni dei diritti fondamentali dei migranti in transito in Libia. Dunque, in estrema sintesi, non sembra affatto possibile sostenere che i ministri italiani, al momento della conclusione degli accordi, ignorassero il gravissimo sistema di abusi cui i migranti erano sottoposti, così come sarebbe parimenti infondato ritenere che le nostre autorità non siano a conoscenza degli effetti di tali accordi in termini di un sostanziale aggravamento della condizione dei migranti”. In definitiva, secondo la stessa fonte, “è opportuno sottolineare che la cooperazione con la Libia potrebbe configurare anche la responsabilità internazionale dello Stato italiano. Il diritto internazionale consuetudinario prevede due condizioni cumulative affinché uno Stato sia internazionalmente responsabile per l’assistenza fornita ad un altro Stato nella commissione di un illecito: (i) che lo Stato c.d. assistente agisca con la consapevolezza delle circostanze dell’atto illecito posto in essere dallo Stato c.d. assistito e (ii) che l’atto sia, in astratto, internazionalmente illecito anche se commesso dallo Stato c.d. assistente. Nel caso di specie, come autorevolmente sostenuto altrove, entrambi tali requisiti sembrano essere prima facie soddisfatti”.

3. Nel Memorandum d’intesa firmato a Roma il 2 febbraio  2017 da Serraj e Gentiloni, si individua come obiettivo principale “attuare gli accordi sottoscritti tra le Parti in merito, tra cui il Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione firmato a Bengasi il 30/08/2008ed in particolare l’articolo 19 dello stesso Trattato, la Dichiarazione di Tripoli del 21 gennaio 2012 e altri accordi e memorandum sottoscritti in materia”.

Nello stesso Memorandum d’intesa, si ribadisce “la ferma determinazione di cooperare per individuare soluzioni urgenti alla questione dei migranti clandestini che attraversano la Libia per recarsi in Europa via mare, attraverso la predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei Paesi di origine, lavorando al tempo stesso affinché i Paesi di origine accettino i propri cittadini ovvero sottoscrivendo con questi Paesi accordi in merito”. 

Risulta funzionale a questo “ordine delle cose” l’autoproclamazione di una zona SAR ( di ricerca e salvataggio) libica, fortemente sostenuta dal governo italiano, anche con uomini e mezzi di coordinamento, almeno fino al 2020, ed oggi, dopo la registrazione da parte dell’IMO (Organizzazione marittima internazionale) di Londra, riconosciuta da tutte le grandi potenze regionali (come la Turchia) che sono subentrate alle autorità italiane nel controllo per interposta milizia dei principali porti libici.

Come è ampiamente provato dai documenti delle Nazioni Unite, la scelta di avvalersi della sedicente guardia costiera libica, e del Dipartimento contro l’immigrazione irregolare del governo provvisorio libico (DCIM), non hanno rallentato le partenze nè migliorato la condizione dei migranti e dei richiedenti asilo presenti in Libia, ma hanno solo aumentato gli abusi inflitti anche alle persone più vulnerabili ed i guadagni delle organizzazioni criminali ben collegate con gli apparati istituzionali, che hanno lucrato sulla politica della dissuasione, su cui si è formato in Italia, più che in altri paesi, un vasto fronte populista e nazionalista che ha di fatto cancellato il riconoscimento effettivo del diritto alla vita e del diritto di asilo.

Come ha affermato il contrammiraglio Liardo in una audizione alla Camera, Lo scopo delle norme internazionali di diritto del mare vigenti dal 2004 è quello di assicurare che all’obbligo del comandante della nave di prestare assistenza faccia da necessario complemento l’obbligo degli Stati di coordinare le operazioni e fornire ogni possibile assistenza alla nave soccorritrice, liberandola quanto prima dall’onere sostenuto in adempimento del dovere di soccorso. In particolare tali emendamenti e le discendenti linee guida emanate dall’IMO (Ris. MSC 167-78 del 20.5.2004) hanno stabilito l’obbligo, per lo Stato cui appartiene il MRCC che per primo abbia ricevuto la notizia dell’evento o che comunque abbia assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, di individuare sul proprio territorio un luogo sicuro ove sbarcare le persone soccorse, qualora non vi sia la possibilità di raggiungere un accordo con uno Stato il cui territorio fosse eventualmente più prossimo alla zona dell’evento”. Se si esclude che la Libia possa garantire porti sicuri di sbarco, come escludono l’UNHCR, la Commissione europea e la magistratura italiana, in caso di disaccordo con le autorità maltesi, l’Italia non può eludere l’obbligo di una sollecita indicazione del porto sicuro di sbarco più vicino, o di altro rapidamente raggiungibile nel territorio nazionale. Come peraltro è stata prassi regolarmente seguita dal 2014 al 2017.

Malgrado la chiarezza del principio di non respingimento, e la interpretazione esemplare che nel 2012 ne ha fornito la Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi Jamaa contro Italia, i decisori politici, hanno cercato in tutti i modi di imporre prassi operative e di concludere accordi bilaterali per la sostanziale elusione di quel divieto. Per rafforzare la “lotta contro l’immigrazione irregolare”, sulla base degli accordi bilaterali con paesi terzi “non sicuri”, si sono adottate normative e prassi sostanzialmente contrarie ai principi vincolanti imposti dal diritto internazionale e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

A cinque anni dalla firma del Mmemorandum Italia-Libia la continuità criminogena nella politica estera e nei sistemi di controllo delle frontiere, tramite gli accordi e la esternalizzazione dei respingimenti collettivi, si specchia nella composizione dell’attuale governo italiano, al di là degli afflati umanitari di qualche esponente politico. La collaborazione con la sedicente Guardia costiera libica e con le autorità di Tripoli nel contrasto di quella che viene definita soltanto come “immigrazione irregolare” rimane un perno della politica italiana nel Mediterraneo, e al centro della politica della sicurezza, che viene spacciata a livello nazionale.. Del resto lo svolgimento sotto traccia del processo sul caso Salvini/Open Arms, rinviato a marzo per gli impegni politici dell’imputato, praticamente scomparso dai media, fornisce già nella comunicazione pubblica, la misura del livello di rimozione delle responsabilità di chi ha gestito le prassi più collaborative con le autorità libiche, esaltandone il ruolo.

Sergio Scandura, inviato di Radio Radicale per il Mediterraneo, testimone dei misfatti derivanti dagli accordi tra Italia e Libia, si domandava oggi come fanno a dormire la notte quei politici che, si sono complimentati magari con la sedicente Guardia costiera libica o comunque avallano, con il rinnovo degli accordi o con un finanziamento alla cooperazione destinato di fatto al sostegno delle milizie libiche, le politiche di morte praticate in Libia e nel Mediterraneo centrale. Sulla pelle delle persone che si trovano in quel paese ancora privo di un vero governo unitario, magari senza alcuna intenzione di raggiungere l’Europa, ma di fatto trasformati tutti in migranti forzati. Certo chi ha costruito la sua fortuna elettorale sugli “sbarchi” o sulla guerra alle ONG che salvavano troppe vite in acque internazionali, non lascerà neppure in questo anno di campagna elettorale la sua arma preferita di distrazione di massa. Ma anche chi governa con Salvini, che ha già firmato accordi indecenti con i libici quando si trovava a controllare l’intero governo, dal 1997 quindi dai tempi del primo governo Prodi al 2017, con il governo Gentiloni, si limiterà a qualche distinguo, magari ad una astratta enunciazione dei diritti umani, e poi continuerà a condividere le scelte di omissione di soccorso in mare e di abbandono dei migranti e dei richiedenti asilo intrappolati in Libia.

Per questo è importante insistere nel lavoro di dcumentazione degli abusi e di denuncia, senza farsi intimidire dalla censura preventiva e dalle minacce che si rinnovano anche in Italia contro i difensori dei diritti umani e delle persone migranti. Purtroppo anche a livello europeo, con le posizioni sempre più rigide del Consiglio e con la nuova presidenza del Parlamento, che al di là delle enunciazioni da tribuna si traduce nella continuità delle politiche dei muri e della esternalizzazione dei controlli di frontiera, non si può attendere una svolta sostanziale da Bruxelles. Al di là dell’accordo intergovernativo con la Turchia di Erdogan, che dal 2016 condanna migliaia di persone a respingimenti collettivi ed a campi di detenzione illegali, ed è oggi al centro di ricorsi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, gli accordi bilaterali come il Memorandum d’intesa tra Italia e governo di Tripoli del 2017, rimangono uno strumento delle politiche europee più disumane.

4. Un rapporto  sulla Lbia,  redatto da un gruppo di esperti delle Nazioni Unite, documentava igià nel 2017 come ” gruppi armati, alcuni dei quali hanno ricevuto un mandato o almeno un riconoscimento dalla Camera dei rappresentanti o dal Consiglio di presidenza, non sono stati sottoposti a un controllo giudiziario significativo. Ciò ha ulteriormente aumentato il loro coinvolgimento nelle violazioni dei diritti umani, inclusi rapimenti, detenzioni arbitrarie ed esecuzioni sommarie. I casi indagati dal gruppo comprendono abusi”. Secondo lo stesso rapporto, “Abd al-Rahman Milad (alias Bija), e altri membri della guardia costiera, sono direttamente coinvolti nell’affondamento delle barche dei migranti usando armi da fuoco. A Zawiyah, Mohammad Koshlaf ha aperto un rudimentale centro di detenzione per i migranti nella raffineria di Zawiyah. Il gruppo di esperti scientifici ha raccolto informazioni su abusi contro i migranti da parte di diverse persone (cfr. Allegato 30). Inoltre, il gruppo di esperti scientifici ha raccolto notizie di cattive condizioni nei centri di detenzione dei migranti a Khums, Misratah e Tripoli. Secondo lo stesso rapporto “il capo della guardia delle strutture petrolifere di Zawiyah, Mohamed Koshlaf, noto anche come Kasib o Gsab (v. punti 105 e 258), è coinvolto nell’approvvigionamento di carburante per i trafficanti. Comanda anche la cosiddetta milizia Nasr.81 Suo fratello, Walid Koshlaf, noto anche come Walid al-Hadi al-Arbi Koshlaf, gestisce la parte finanziaria dell’azienda. Il capo della guardia costiera di Zawiyah, Abd al-Rahman Milad (alias Bija) (vedi anche punti 59, 105 e 258), è un importante collaboratore di Koshlaf nel settore dei carburanti.”

Alle autorità politiche ed a tutti gli organi inquirenti, dunque, già nell’estate del 2017, ed anche prima, per le attività di indagine in corso, doveva risultare chiara la situazione dei migranti che fuggivano dalle coste della Tripolitania in quel periodo e l’elevato grado di collusione, se non la piena identificazione, tra la cd. guardia costiera libica ed i trafficanti spesso travestiti da miliziani. In quello stesso periodo le imbarcazioni delle ONG cominciavano a ricevere minacce ed a subire anche fuoco di intimidazione da parte di unità navali di diversa natura, apparentemente appartenenti alla cd. Guardia costiera libica. Le dichiarazioni di numerosi naufraghi soccorsi dalle ONG e recenti interviste in Italia condotte dall’UNHCR confermavano già allora che persone sbarcate a terra da mezzi della sedicente guardia costiera “libica”, dopo essere state intercettate in acque internazionali, sono state immediatamente vendute ai trafficanti, e queste testimonianze si ripetono nel corso degli anni, sempre più circostanziate, rese da naufraghi provenienti da Tripoli, da Zawia, e da Bani Walid.

Come ricorda con ampia documentazione Flavia Pacella, “Gli accordi italo-libici sono stati oggetto di aspre critiche da parte, in particolare, delle Nazioni unite. L’Alto Commissario per i diritti umani Zeid Ra’ad Al Hussein ha definito l’assistenza fornita dall’Italia e dall’Unione Europea alla Guardia costiera libica come disumana. In particolare, secondo Al Hussein, gli interventi in Libia avrebbero peggiorato la situazione dei migranti, la cui sofferenza è stata definita un “oltraggio alla coscienza dell’umanità”. Similmente, il Comitato contro la tortura, rilevando come la gestione dei migranti in Libia sia in larga parte in mano a gruppi paramilitari, ha esplicitamente affermato che il Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017 è stato sottoscritto a dispetto delle notizie di sistematiche e generalizzate violazioni dei diritti umani poste in essere contro i migranti nei centri di detenzione, integrando così una politica di respingimento sistematico dei migranti diretti in Italia. Inoltre il Comitato ha espresso preoccupazione in merito a recenti informazioni secondo cui alcuni gruppi armati che gestiscono il traffico di migranti sarebbero stati addirittura finanziati dal Governo libico per trattenere i migranti in Libia. In particolare, secondo alcune agenzie di stampa e ONG, le autorità di Tripoli avrebbero concluso un accordo con una potente milizia che controlla il traffico di migranti nella regione di Sabrata, la c.d. Brigata Anas Dabbashi, al fine di arrestare le partenze per l’Italia. In cambio, la milizia avrebbe ottenuto piena legittimazione a operare sul territorio come forza di sicurezza”.

Il 15 aprile 2020, l’UNSMIL ha verificato che 51 migranti e richiedenti asilo, tra cui 8 donne e 3 bambini, sono state oggetto di un respingimento collettivo in Libia su una barca privata maltese dopo essere stati intercettati nella zona SAR maltese. I migranti sono stati inviati al centro di detenzione di Takiq al-Sikka. Durante i sei giorni che hanno tarscorso in mare prima di essere soccorsi, cinque persone erano morte e altre sette sono scomparse e si presume che siano annegate. Nel rapporto dell’ONU si aggiunge che “Siamo anche consapevoli delle affermazioni secondo cui le chiamate di soccorso ai pertinenti centri di coordinamento per il salvataggio marittimo sono rimaste senza risposta o sono state ignorate, il che, se vero, mette seriamente in discussione gli impegni degli Stati interessati a salvare vite umane e rispettare i diritti umani. Nel frattempo, la Guardia costiera libica continua a riportare le navi sulle sue coste e collocare i migranti intercettati in strutture di detenzione arbitrarie dove si trovano ad affrontare condizioni orribili tra cui torture e maltrattamenti, violenza sessuale, mancanza di assistenza sanitaria e altre violazioni dei diritti umani. Queste strutture sovraffollate sono ovviamente ad alto rischio di essere attaccate dal COVID-19”.

Un Rapporto dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite Colville si conclude con la richiesta di una moratoria su tutte le intercettazioni e i respingimenti in Libia. Quindi l’accorato appello :“In conformità con le nostre linee guida recentemente pubblicate su COVID-19 e sui migranti, ribadiamo che gli Stati devono sempre rispettare i loro obblighi ai sensi dei diritti umani riconosciuti dal diritto internazionale e del diritto dei rifugiati”. Secondo Rupert Colville, nonostante il COVID-19, le operazioni SAR ( ricerca esalvataggio) dovrebbero essere mantenute e lo sbarco rapido assicurato in un porto sicuro (place of safety), garantendo al contempo la compatibilità con le misure di sanità pubblica. Come si conciliano queste posizioni con il mantenimento di una zona SAR riservata alle autorità di Tripoli, che non controllano per intero neppure il loro territorio nazionale ? Non è ormai assodato che la Libia, nelle sue diverse articolazioni territoriali e politiche, non può garantire alcun luogo di sbarco sicuro (place of safety) ?

5. E’ rimasta del tutto  inascoltata la Commissaria ai diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatovic che già nel 2019 chiedeva di “sospendere ogni collaborazione con la Libia e fare in modo che il meccanismo per gestire congiuntamente sbarchi e ridistribuzione dei migranti porti anche alla “creazione di un sistema a lungo termine e ambizioso per diminuire la pressione dei flussi migratori su certi Stati come Italia, Grecia e Malta”. Secondo il Commissario,“oggi gli Stati Ue hanno la possibilità di prevenire nuovi disastri umanitari decidendo di sospendere ogni collaborazione con le autorità libiche che implica il ritorno in Libia dei migranti intercettati in mare, sino a quando il Paese non darà chiare garanzie sul pieno rispetto dei diritti umani” .

Occorre dunque cancellare il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia, favorire una tutela effettiva dei diritti umani nei paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, e una ripresa economica che non divenga appannaggio delle mafie locali e delle milizie che controllano il territorio. Si dovrebne rimuovere dai registri IMO la cd. zona SAR libica, alla quale non corrisponde neppure uno Stato unitario, ed attivare una rete di soccorso in mare che veda al primo posto le autorità statali ed europee anche in acque internazionali. Si dovrebbero aprire, non solo corridoi umanitari per qualche centinaio di persone “estremamente vulnerabili”, ma consistenti canali di ingresso per lavoro, per visita e per ragioni umanitarie, non solo dalla Libia ma dai paesi di origine. Con il rilascio di visti per ragioni umanitarie.

In ogno caso come priorità assoluta vanno evacuate tutte le persone a rischio di tortura o di arresti arbitrari oggi presenti in Libia. Questo impegno va messo al centro del processo di riconciliazione che, dopo il fallimento delle elezioni del 24 dicembre scorso, dovrebbe superare la situazione di stallo, sempre vicina allo scotnro armato, che si continua a vivere ancora oggi in Tripolitania, in Cirenaica, nel Fezzan, regioni libiche mai tarnto divise, malgrado i tentativi di riunificazione.

Nessun paese sembra oggi in grado di proporre politiche alternative, di fronte all’abbattimento dei diritti umani e dei principi di solidarietà negli elettorati europei, dopo la crisi economica e sanitaria, aggravata dal Covid, ma preesistente alla pandemia. La speculazione sugli sbarchi e sui soccorsi operati dalle ONG riprenderà più forte di prima, e condizionerà i prossimi esiti elettorali. Una svolta reale, forse, si potrà avere soltanto quando le politiche di guerra, spacciate per lotta al’immigrazione illegale, nel Mediterraneo, o nei Balcani o ai confni orientali dell’Unione europea, avranno ricadute negative sulla vita dei cittadini europei, magari per il restringimento delle fonti energetiche, con un ulteriore rialzo dei prezzi. Con una ricaduta sul tenore di vita delle famiglie che non sara riducibile alla logica del “capro espiatorio”: i migranti e chi li assiste o li soccorre. Soltanto allora, forse, si capirà quanto il regime dei muri di frontiera e degli accordi con paesi terzi che non rispettano i diritti umani, oltre ad agevolare l’illegalità nei paesi di origine e transito, senza ridurre in alcun modo gli ingressi irregolari, avrà pesanti ripercussioni sulle prospettive di vita,di convivenza e di coesione sociale di tutti coloro che vivono nella vecchia Europa. Che si condanna in questo modo all’isoilamento e per questo non avrà alcun futuro. Nel frattempo pero’, altre migliaia di persone perderanno la vita o saranno abusate nei campi di detenzione libici e sulle rotte del Mediterraneo centrale.