Lotta contro il traffico di persone e processo penale. Una recensione al libro “Il Generale” di Lorenzo Tondo.

di Fulvio Vassallo Paleologo

Il Generale  di  Lorenzo Tondo

Malgrado il diffuso conformismo dell’informazione in materia di lotta contro il traffico di persone, il giornalismo d’inchiesta esiste ancora e ne dà una prova Lorenzo Tondo con il suo libro “Il Generale”. Attraverso la ricostruzione delle modalità dell’arresto di un giovane eritreo a Khartoum, mentre era in cerca di un passaggio verso l’Europa, e lo snodarsi delle diverse fasi del processo contro quello che si ritiene uno dei principali trafficanti attivi in Libia e negli stati dell’Africa subsahariana, si coglie bene quanto  sia difficile accertare, attraverso il processo penale, la ricorrenza di reati che si realizzano a livello transnazionale. E si ha anche la conferma che il processo penale non può assumere il compito di ridurre “i flussi migratori”, di “difendere i confini” o “gli interessi nazionali”, come ancora oggi si vorrebbe sostenere, dovendosi limitare all’applicazione delle norme dettate dai codici nell’alveo di una interpretazione costituzionalmente orientata e nell’assoluto rispetto del principio di legalità.

Una vicenda ricostruita ( e seguita) puntigliosamente da Lorenzo Tondo, dall’intervento concordato tra diverse agenzie di intelligence in Sudan fino al tormentato svolgimento delle udienze nelle aule di giustizia, a Palermo. Con un esito finale che potrebbe risultare scontato già oggi, se  a fronte delle prove emerse in favore dell’imputato, questi continua a restare in uno stato di detenzione.

Attraverso le pagine del libro di Lorenzo Tondo si scopre come a finire dietro le sbarre non sia la persona che i giudici inseguono da anni come il capo (Medhanie Yehdego Mered, soprannominato “il Generale”) di un gruppo criminale, dedito a fare giungere migranti in Europa, in particolare giovani eritrei costretti alla fuga da un regime oppressivo e da violenze atroci nei confronti degli oppositori.

Come ha riferito il Post, la Televisione pubblica svedese (SVT) addirittura “sarebbe in possesso di un fascicolo che rivela come un’autorità di polizia europea sia a conoscenza del fatto che il vero trafficante è ancora in libertà e di come non riesca a convincere i pubblici ministeri italiani a emettere un nuovo mandato di cattura”.

Il libro di Lorenzo Tondo testimonia come la ricerca della verità su fatti tanto gravi, collegati alla strage che il 3 ottobre del 2013 costò la vita a 363 persone, davanti alle coste di Lampedusa, si intrecci con la garanzia dei diritti di difesa, con il rispetto della persona umana, con l’esercizio stesso del diritto di cronaca in una materia di assoluta gravità,che viene spesso esaltata nella comunicazione mediatica, per riproporre l’azione penale come unico argine contro una invasione che appare più percepita che reale, almeno stando alla proporzione dei migranti che negli ultimi cinque anni sono rimasti in Italia senza passare in altri paesi europei.

La Procura di Palermo ha anche intercettato le comunicazioni del giornalista che più degli altri colleghi italiani aveva seguito il processo. Un giornalista che fin dal principio non aveva creduto nella colpevolezza dell’imputato e ne aveva scritto su importanti testate internazionali. Come se in Italia il diritto di cronaca fosse da mettere sotto controllo, come se i giornalisti fossero tanto pericolosi quanto i sospetti imputati di reato. Intanto  la stampa estera continuava a seguire il caso con toni ben diversi da quelli prevalenti nelle cronache italiane.

L’indagine che ruota attorno alla figura del “Generale”, ma che non lo vede presente come imputato in una aula di giustizia di Palermo, conferma invece quanto l’assenza di canali legali di ingresso e la mancata concessione di visti umanitari consegni ai trafficanti migliaia e migliaia di esseri umani, tra questi donne, minori, vittime di tratta, oggetto di abusi nei paesi di origine e di transito, ma talvolta criminalizzati anche dopo il loro arrivo in Italia. Fino al punto di essere scambiati per scafisti o trafficanti. Che certamente esistono anche in Italia, come in Africa, ma che dovrebbero essere perseguiti e sanzionati senza consentire loro di nascondersi dietro la possibile condanna di un innocente.

Il libro di Lorenzo Tondo esprime bene la fatica odierna di lavorare sulla cronaca di un procedimento penale che i media davano già per concluso con una condanna prima del suo inizio, e mette sotto gli occhi del lettore la sofferenza quotidiana di chi comprende a fatica le ragioni che lo costringono ad anni di carcerazione preventiva, magari nella progressiva consapevolezza di essere processato al posto di un’altra persona. Un’altra persona, il Generale, che malgrado le vicende processuali che lo chiamano in causa continua a controllare i traffici e ad amministrare il suo patrimonio spostandosi da uno stato ad un’altro.    

Nel mese di agosto 2016 l’Italia concludeva con il Sudan un Memorandum d’intesa con il dittatore Bashir, indagato dal Tribunale penale internazionale per crimini contro l’umanità. Obiettivo degli accordi era  contrastare le partenze dei migranti irregolari,i n realtà profughi in fuga, molti provenienti dall’Eritrea, diretti verso l’Europa, per stabilire una collaborazione di polizia nella caccia ai trafficanti che dal Sudan, in quel periodo, riuscivano a controllare la rotta libica. L’arresto del presunto Mered a Khartoun si colloca proprio nella fase preparatoria degli accordi poi conclusi con il Sudan, nella forma di Memorandum d’intesa, o forse ne costituisce in qualche modo una anticipazione.

Nei mesi precedenti alla firma del Memorandum d’intesa, e non certo per una coincidenza occasionale, lo stesso Bashir intensificava l’espulsione ed il rimpatrio forzato di cittadini eritrei fino ad allora residenti in Sudan con regolare permesso di soggiorno o con lo status di rifugiato, in qualche caso con la scomparsa delle persone riportate in Eritrea, e comunque con una successiva detenzione arbitraria e con gravi violenze inflitte a tutti i profughi “restituiti” dal Sudan alla dittatura eritrea. Tra gli altri, alcuni pastori cristiani copti nella lista nera delle autorità eritree venivano consegnati al regime di Afewerky e scomparivano in carcere. Poco prima del Memorandum d’intesa stipulato dal governo italiano con le autorità sudanesi il 3 agosto del 2016, nello stesso periodo preparatorio dell’intesa, nel maggio del 2016, si verificavano già importanti effetti sul piano della collaborazione giudiziaria, alla quale partecipavano agenti dei servizi segreti inglesi. Il giovane eritreo, ritenuto capo di una pericolosa banda di trafficanti, veniva arrestato a Khartoum, con il concorso di agenti italiani ed inglesi, e dopo qualche giorno di violenti interrogatori, trasferito in Italia e qui sottoposto ad un processo a Palermo, dove veniva internato nel carcere di Pagliarelli.

Era il periodo nel quale tra la polizia sudanese ed il ministero dell’interno italiano si stringevano legami sempre più forti, nel più totale silenzio della stmpa italiana. Qualche mese dopo, nell’agosto del 2016,  la collaborazione con le autorità sudanesi permetteva il rimpatrio forzato collettivo di alcune decine di migranti provenienti dal Sudan, bloccati a Ventimiglia, deportati nell’Hotspot di Taranto, e poi, altri a Torino, infine rimpatriati a Khartoum.

L’arresto del presunto”Generale” a Khartoum è da inquadrare, almeno cronologicamente, in quella cooperazione pratica di poliizia che nel 2016 l’Italia stava sviluppando con particolare riferimento al Sudan, ritenuto nodo strategico dei passaggi verso la Libia ed il Mediterraneo. Una coperazione di polizia concretizzata attraverso Memorandum d’intesa  che in molti paesi risente delle modalità di trattamento degli inquisiti e dei detenuti, fino alla tortura, caratteristiche degli stati che non rispettano i diritti umani, o che, come nel caso della Libia, non hanno mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra  del 1951 sui rifugiati. Una poiitica, quella italiana che, a partire dal Processo di Khartoum, del 2014 e dai Migration Compact del 2016, ideati da Renzi, ha sempre goduto dell’appoggio dell’Unione Europea, che con un modesto contributo economico delegava così all’Italia il compito di garantire la esternalizzazione delle forntiere, di fatto fino ai paesi di transito. Una politica che ha avuto anche recenti conferme, con i viaggi del ministro dell’interno Salvini in Libia, e più di recente in Qatar ed in Ghana e con i progetti di una azione comune di difesa del confine libico meridionale, nella quale dovrebbero convolgersi Chad, Niger, Sudan, Etiopia,ed in prospettiva l’intera Libia, una volta che fossero ricostituite le autorità nazionali.

Dal libro di Lorenzo Tondo emerge anche la grande importanza delle indagini difensive, per realizzare il valore costituzionale del giusto processo e dare piena attuazione ai diritti di difesa. Nel racconto delle udienze si ritrovano i faticosi rapporti tra la magistratura inquirente, la polizia giudiziaria, le agenzie di informazione di diversi paesi. Rapporti che non è possibile nascondere dietro una miriade di acronimi incomprensibili di matrice internazionale, o vivere in una logica di concorrenza che non esclude neppure possibili tranelli, o false informazioni, tra le agenzie di stati diversi. Essenziale dunque il ruolo degli avvocati, nel rispetto del principio costituzionale di tendenziale parità tra le diverse parti del processo. Si averte infatti  il rischio che, anche una volta riconosciuto lo scambio di persona, l’imputato possa essere ritenuto comunque autore di reati legati all’immigrazione irregolare. Saranno proprio gli avvocati che potranno garantire, nei diversi gradi del giudizio e davanti le giurisdizioni internazionali, l’effettivo esercizio dei dirittio di difesa.

Si rappresenta così, in tutta la sua drammaticità, anche con lo sguardo quasi incredulo, se non assente, dell’imputato alla sbarra, la fase del giudizio, e dalla lettura che non è facile interrompere, pagina dopo pagina, si percepisce  una forte torsione tra il rispetto delle regole processuali e l’esigenza sostanziale, da tutti condivisa, di smantellare una organizzazione internazionale di trafficanti. Su questo rispetto delle regole ( non solo processuali), e sul riconoscimento effettivo dei diritti di difesa e della libertà di informazione si gioca l’asse centrale del libro inchiesta di Lorenzo Tondo che in questo modo ci costringe a ricordare il valore dell’habeas corpus, della presunzione di innocenza e della garanzia dei diritti di difesa.

Le diverse fasi del processo, seguite e registrate da Radio Radicale, nelle udienze del primo ottobre, del 18 ottobre, e del 25 ottobre, malgrado l’accumularsi delle prove a discarico, dimostrano una crescente determinazione della procura che insiste sulla ipotesi accusatoria della colpevolezza, mentre l’escussione dei testimoni e le prove biologiche hanno confermato tutti i dubbi sull’identità dell’imputato presente in aula. Che alla fine di ogni udienza viene riportato nel carcere di Pagliarelli. Dove, anche a ragione della sua lingua, sconta una situazione di deprimente solitudine.

Colpisce l’atteggiamento della stampa nazionale. Dopo una iniziale enfatizzazione del caso, i più grandi media italiani hanno ridotto la loro attenzione, limitandosi magari a citare la stampa estera,via via che emergevano le prove dello scambio di persona, a differenza dei giornali stranieri che continuano a seguire il caso con diligenza e professionalità. Adesso è davvero il tempo che la libertà di stampa possa essere esercitata senza tifoserie e senza tesi precostituite.

Un libro, “Il Generale”, che non concede pause nella lettura, ma al tempo stesso una chiave di lettura per altre vicende processuali nelle quali sono sotto giudizio trafficanti di persone o agevolatori dell’immigrazione irregolare. Che non potranno più considerarsi nell’ottica esclusiva del “trafficante”, del “nemico” o dell'”invasore”. Le garanzie nel processo penale sono dettate dalla Costituzione, ed il pieno riconoscimento dei diritti di difesa e della libertà di informazione riguarda tutti, non solo i migranti.


Venerdì 26 settembre 2008.
 Le politiche in materia di sicurezza e il populismo penale.
Assistiamo in Italia – e in generale in tutto l’occidente, a cominciare dagli Stati Uniti- a politiche penali autoritarie, tanto indifferenti alle cause strutturali dei fenomeni criminali e inefficaci a alla loro prevenzione, quanto promotrici di un diritto penale massimo e disuguale, pesantemente lesivo dei diritti fondamentali: politiche interessa te soltanto, tramite misure massimamente repressive, a riflettere e ad assecondare, ed anzi ad alimentare, le paure e gli umori repressivi presenti nella società quali massimi fattori del consenso politico.
Il terreno privilegiato di questa politica è quello della sicurezza…..
ed ancora, aggiunge Ferrajoli
…..”Il secondo messaggio, ancor più regressivo, trasmesso dalle campagne sulla sicurezza punta al mutamento, nel senso comune, del significato stesso della parola”sicurezza”: che non vuole più dire, nel lessico politico, “sicurezza sociale”, cioè garanzia dei diritti sociali e perciò sicurezza del lavoro, della salute, della previdenza e della sopravvivenza, né tanto meno sicurezza delle libertà individuali contro gli arbitri polizieschi. Significa soltanto “pubblica sicurezza”, declinata nelle forme dell’ordine pubblico di polizia e degli inasprimenti punitivi anziché in quelle dello stato di diritto. Essendo stata la sicurezza sociale aggredita dalle politiche di riduzione dello stato sociale e di smantellamento del diritto del lavoro e minacciata dal crescente impoverimento  economico, le campagne securitarie valgono a soddisfare il sentimento diffuso dell’insicurezza sociale mobilitandolo contro il deviante e il diverso, preferibilmente di colore o extra-comunitario. E’ il vecchio meccanismo del capro espiatorio, che consente di scaricare sul piccolo delinquente – o anche solo sul povero e l’emarginato: si pensi alle campagne dei sindaci contro i mendicanti e i lavavetri – le paure, le frustrazioni e le tensioni sociali irrisolte. Con un duplice effetto: l’identificazione illusoria, nel senso comune, tra sicurezza e diritto penale, quasi che il diritto possa produrre magicamente la cessazione della delinquenza, e la rimozione, dall’orizzonte della politica, delle politiche sociali di inclusione, certamente più costose e impegnative ma anche le sole in grado di aggredirne e ridurne le cause strutturali.
C’è infine un terzo messaggio, quello politicamente più velenoso e distruttivo:l’enfatizzazione e la drammatizzazione dell’insicurezza: la fabbrica, in breve, della paura. Esiste un nesso potente tra potere e paura. La paura è sempre stata la principale risorsa e la principale fonte del potere. Ci sono due modi con i quali il potere viene alimentato e rafforzato dalla paura e può servirsi della paura: un modo diretto e un modo indiretto, che peraltro non si escludono affatto ma possono ben concorrere tra loro. Il potere, innanzitutto, può fare esso stesso paura. E’ il modello dei regimi autoritari e tendenzialmente totalitari, nei quali il potere è svincolato dalla legge, si manifesta come informale e fa quindi paura in quanto il suo esercizio è imprevisto e imprevedibile: è questo il volto demoniaco del potere, tanto più terrificante quanto più il male da esso minacciato è sconosciuto, imprevedibile e potenzialmente illimitato. Il secondo modello è invece quello che fa leva sulla paura del crimine, e la drammatizza e alimenta quale fonte di legittimazione del potere repressivo e della sua risposta punitiva: un potere, in questo caso, che dalla paura, in quanto antidoto alla paura, trae legittimazione politica e consenso. Il primo modello mette esso stesso, direttamente, paura. Il secondo agita invece lo spauracchio della paura, costruendo e demonizzando nemici interni ed esterni contro i quali si propone come garante di sicurezza, fondando sulla difesa contro questi nemici la coesione sociale e il consenso politico, legittimando quali strumenti necessari a questa difesa rotture della legalità e misure emergenziali e perfino la guerra. E’ questo secondo modello quello espresso, anche nei paesi democratici, dalle politiche populiste in tema di sicurezza. Non si tratta – o comunque non si tratta soltanto né soprattutto – del potere come terrore, bensì della risposta, che ben può essere e legittimarsi essa stessa come terroristica, al terrore generato dalla criminalità o dal terrorismo, ossia dal nemico interno o esterno che attenta alla sicurezza e che perciò occorre distruggere”.