di Fulvio Vassallo Paleologo
1.L’emozione suscitata dalle stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013 è stata rimossa molto rapidamente ed ormai l’opinione pubblica europea, ed in particolare italiana, sembra assuefatta all’idea che i migranti muoiano a migliaia in mare, ogni anno, nel tentativo di raggiungere le coste europee. La missione Mare Nostrum decisa dal governo Letta nel 2013, pochi giorni dopo le stragi, resta una parentesi che si è chiusa con le accuse allora rivolte alla Marina ed alla Guardia costiera italiana, di costituire elementi di facilitazione delle partenze dei migranti dalla Libia, e dunque, seppure indirettamente, delle attività delle organizzazioni criminali che gestivano il traffico. Che allora, come oggi, costituivano l’unica possibilità consistente di fuga dall’inferno libico.
Da anni i governi europei hanno delegato ai paesi terzi ed alle forze di polizia le politiche di controllo delle migrazioni,a partire dall’Agenda europea sulle migrazioni del 2015, adottata dopo la strage del 18 aprile di quell’anno, trovando un intesa sui procedimenti di respingimento e di espulsione e litigando su tutto il resto, con la chiusura dei canali legali di ingresso e con la negazione sostanziale del diritto di asilo. Negli ultimi anni i richiami alla solidarietà europea sono serviti per rastrellare fondi e mezzi per le attività di contrasto della cd. immigrazione “illegale”, con un continuo incremento della spesa destinata alle missioni Triton e Themis di Frontex ed all’operazione Eunavfor Med, tutte tragicamente fallite, mentre aumentava il numero delle vittime nelle acque del Mediterraneo.
In Italia il governo Gentiloni, dopo il governo Renzi, e soprattutto l’attività “diplomatica” del ministro dell’interno Minniti, hanno realizzato le diverse tappe previste dal Processo di Khartoum e dai Migration Compact concordati con Bruxelles per ridurre gli arrivi dei migranti che poi non si potevano più espellere perché richiedenti asilo o per la materiale impossibilità di eseguire i rimpatri forzati.
Prima si è attuato il cosiddetto approccio Hotspot, con l’apertura di centri di identificazione nei quali venivano sbrigativamente completate le operazioni di selezioni dei migranti, con il respingimento (differito) di tutti coloro che venivano definiti “migranti economici”, con prassi violente di prelievo delle impronte digitali, e con tempi di trattenimento tanto prolungati ( soprattutto a Pozzallo e Lampedusa) da risultare in contrasto con il dettato costituzionale (art.13) e con il divieto di detenzione al di fuori di casi previsti dalla legge ( dunque in violazione dell’art.5 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo). Strutture come i CIE già fuori dalla legge e dalla Costituzione, che oggi si vorrebbero moltiplicare regione per regione. I cd. Hotspot rimangono ancora privi di una base legale certa. Ben presto si assisteva al fallimento della Relocation, del ritrasferimento verso altri paesi europei dei migranti giunti in Italia a seguito del conflitto siriano e della repressione nel Corno d’Africa e nell’Africa subsahariana. Intanto le espulsioni o i respingimenti effettivamente eseguiti crollavano ai minimi storici.
2. Poi, a partire dalle due Conferenze europee di Malta, nel novembre 2015 e nel febbraio 2017, l’Italia, con un modesto contributo economico europeo, ha assunto un ruolo autonomo di iniziativa nei confronti delle autorità libiche di Tripoli ( il cd. governo di riconciliazione nazionale), per coinvolgere le milizie nelle attività di contrasto delle partenze verso l’Europa. La serie di accordi con le autorità libiche, già ripresi nel 2012 dal governo Monti con il ministro dell’interno Cancellieri, culminava nella stipula del Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017, e dei successivi accordi operativi con la Guardia costiera “libica” ( di Tripoli) che costituivano la base del Codice di condotta imposto dal ministero dell’interno alle Organizzazioni non governative impegnate nelle attività di ricerca e salvataggio nelle acque del Mediterraneo centrale. Obiettivo principale di questi accordi era costituito dall’allontanamento delle ONG, per lasciare spazio in acque internazionali alla cd. Guardia costiera “libica” che poteva ricondurre i naufraghi soccorsi in alto mare nelle porti di partenza, evitando che dopo l’intervento delle navi delle ONG fossero sbarcati in un paese europeo. Già allora era chiaro a tutti la gravità degli abusi subiti dai migranti in Libia, abusi che oggi sono diventati ancora più atroci.
A supporto di queste politiche di accordo con i libici si concretizzava una violenta campagna di opinione gestita inizialmente da organizzazioni delle estrema destra europea, che hanno anche armato la missione Defend Europe con la nave nera C Star, con una importante sponda nella Lega di Salvini e con alcune dichiarazioni di Luigi Di Majo che coniava il termine “taxi del mare”, per definire le navi umanitarie che salvavano vite in acque internazionali. Seguivano le attività della Commissione difesa del Senato, presieduta dall’onorevole La Torre, e poi diverse iniziative della magistratura, che prendevano le mosse da relazioni predisposte da agenti dei servizi infiltrati a bordo delle navi umanitarie.
Sia nel caso del cd. Hotspot Approach, ancora oggi privo di base legale, che nel caso degli accordi con le autorità libiche, e poi con la imposizione di regole di comportamento in violazione del diritto internazionale del mare, i governi a guida centrosinistra, e da ultimo il ministro Minniti, hanno realizzato un sostanziale ribaltamento del sistema delle fonti stabilito nella nostra Costituzione, adottando circolari e direttive ministeriali, da ultimo il cd. Codice di condotta per le ONG, che si sono sovrapposte alle leggi vigenti ed ai Trattati internazionali ai quali l’Italia aveva aderito ed ai quali dunque le autorità di governo avrebbero dovuto essere vincolate.
Questo processo degenerativo della democrazia italiana, giustificato dall’esigenza di ridurre a tutti i costi il numero dei migranti che comunque riuscivano a raggiungere l’Italia, ha avuto il suo culmine nelle prassi più recenti adottate in materia di “Hotspot Approach”, come nella gestione degli interventi di ricerca e soccorso (SAR) in acque internazionali. Adesso con il programma di governo annunciato dai partiti che sono usciti vincitori dalle ultime elezioni si rischia di assistere ad un ulteriore inasprimento autoritario delle prassi imposte dagli organi dell’esecutivo, centrali e periferici, e dalle alte gerarchie militari.
La resistenza deve partire dai territori. Occorre ribattere la nostra contrarietà all’apertura di nuovi centri di detenzione o di altre strutture di trattenimento camuffate come Hotspot, come si sta tentando di fare adesso nella città di Palermo. Forse la forzatura finale imposta da Minniti, prima di lasciare il ministero dell’interno. Una scelta che troverà una ferma opposizione sociale e che costringerà chi, come il Sindaco di Palermo, parla da anni di accoglienza e di città solidale, a prendere una posizione chiara .
COMUNICATO STAMPA
Hotspot a Palermo, Laboratorio Zen Insieme:
“Si rischia di aggiungere ingiustizia ad ingiustizia”
PALERMO, 16 MAGGIO 2018 – Il Laboratorio Zen Insieme apprende con stupore la notizia della volontà di costruire un Hotspot nei terreni del fondo San Gabriele e annuncia sin da ora la sua ferma opposizione al progetto. La nostra non è una pura e semplice istanza nimby (not in my back yard), nonostante si tratti proprio di terreni adiacenti allo Zen 2, ma la difesa dei diritti di tutte e tutti che è alla base del nostro agire quotidiano, diritti che non vogliamo vengano violati all’interno di strutture che poche garanzie offrono a chi vi è “ospitato”. L’hotspot, insomma, finirebbe per aggiungere ingiustizia ad ingiustizia, marginalità a marginalità, contribuendo a generare, in un territorio che si è assunto l’impegno di migliorare e che sta cominciando a farlo, conflitti e paure di cui davvero non abbiamo bisogno. Ci spiace constatare che le priorità, anche nella spesa, siano diverse da quelle che proviamo a portare all’attenzione anche per il nostro quartiere: si sblocchi la spesa per il piano periferie piuttosto.
Neppure le condanne della Corte Europea per i diritti dell’Uomo sui casi Hirsi nel 2012, Sharifi nel 2014, Khlaifia nel 2016, Richmond Yaw ancora nel 2016, costringevano le autorità di governo a limitare gli interventi autoritativi e discrezionali affidati alle forze di polizia, nei respingimenti collettivi e nella detenzione arbitraria, ed a rispettare il dettato costituzionale che sanciva la diretta rilevanza nel nostro ordinamento dei principi affermati dalle Convenzioni internazionali ( art. 10, 11 e 117 Cost.).
Il trasferimento di poteri dalle assemblee legislative, che non sono chiamate neppure ad approvare i trattati internazionali, agli organi dell’esecutivo, viola la riserva di legge in materia di trattamento dello straniero, stabilita dalla nostra Carta Costituzionale e ribadita, in materia di detenzione amministrativa in vista dell’espulsione, dall’art. 5 della CEDU. Tutti gli Hotspot italiani, compreso quello che si vorrebbe aprire a Palermo, sono ancora privi di una base legislativa che stabilisca diritti e doveri delle persone che vi sono trattenute. Ancora una volta si ricorre a misure limitative della libertà personale, in assenza di una espressa previsione di legge, in violazione degli articoli 10 e 13 della Costituzione e dell’art. 5 della CEDU.
3.Le garanzie dettate dagli articoli 10,13 e 24 della Costituzione sembrano non valere più per coloro che sbarcano nel nostro paese e dovrebbero essere respinti o espulsi. Sul territorio italiano infatti la sorte di coloro che, malgrado le politiche di blocco, arrivano dalle coste nord-africane è sempre più affidata alla discrezionalità delle forze di polizia e sottratta al principio di legalità ed al controllo giurisdizionale, con un ricorso strumentale alle procedure di esame accelerato delle domande di protezione internazionale e di respingimento collettivo.
Nonostante le ripetute segnalazioni critiche da parte del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, si continua a consentire alle forze di polizia il trattenimento amministrativo oltre i termini previsti dalla legge, anche nel caso di minori, come si è verificato negli Hotspot di Lampedusa e Taranto. Le ultime direttive impartite dal ministro dell’interno hanno snaturato anche il centro Hotspot di Trapani, che finora aveva funzionato con modalità rispettose del dettato di legge, come verificato nel 2016 anche dalla Commissione di inchiesta della Camera sui centri per stranieri, in un vero e proprio centro di detenzione nel quale sono riprese le rivolte. Un centro particolarmente “dedicato” ai migranti tunisini, che sono rimasti tra i pochi che si riescono a rimpatriare effettivamente, in base agli accordi bilaterali di riammissione esistenti tra la Tunisia e l’Italia.
Il centro Hotspot di Lampedusa, dichiarato chiuso da mesi, di fatto continua ancora a funzionare come un centro di detenzione.Occorre dimostrare a tutti i costi che chi è fuggito dalla Tunisia non ha diritto ad alcun titolo di soggiorno. Ma non va meglio ai migranti fuggiti dalla Libia. Nelle Commissioni territoriali stanno prevalendo linee sempre più restrittive, dettate dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, e la nuova composizione delle Commissioni potrebbe accrescere i dinieghi per effetto di un maggiore conformismo agli indirizzi provenienti dal Ministero dell’interno.
Quanto sta avvenendo negli Hotspot italiani trasformati impropriamente in centri di detenzione, dove si applicano misure di limitazione della libertà personale in contrasto con la normativa nazionale ed europea, fa capire molto bene quale potrebbe diventare il livello delle violazioni dei diritti fondamentali delle persone se, dopo le elezioni, un il nuovo governo, nel quale la Lega rivendica il ministero dell’interno, dovesse dare corso alle promesse elettorali di rimpatrio forzato di 600.000 persone. Operazione che avrebbe minime possibilità di realizzazione effettiva e costi comunque insostenibili. Un numero di espulsioni con accompagnamento forzato, e dunque con scorta di polizia, almeno due agenti per ogni migrante, calcolato in modo arbitrario, sulla base degli arrivi forzati e spesso dei soccorsi in mare negli anni 2015, 2016 e 2017, dopo la fine dell’Operazione Mare Nostrum. In gran parte persone fuggite da torture di ogni genere che, a prescindere dal paese di provenienza, avrebbero comunque diritto ad uno status di protezione in Europa.
Un’Europa che non è stata capace neppure di garantire la Relocation promessa nel 2015 a Grecia ed Italia. O di modificare il Regolamento Dublino, in questo caso anche per giravolta italiani. Il governo italiano si è prestata ai peggiori piani di rimpatrio forzato voluti da Bruxelles e attuati dal Viminale, come nel caso dei rimpatri in Egitto e Sudan. Con la trasformazione di Lampedusa in un grande centro di detenzione, senza reti ma luogo di confino a tempo indeterminato, come denunciato proprio dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale.
Rimane il fatto che le politiche espulsive annunciate da Minniti lo scorso anno sono fallite, e falliranno ancora in futuro, non solo per la impossibilità materiale di aprire decine di centri di detenzione in Italia, chiamati adesso CPR ( Centri per i rimpatri), ma anche per la netta opposizione di tanti sindaci, appartenenti proprio a quelle forze che oggi reclamano centinaia di migliaia di espulsioni dall’Italia, ma che non hanno voluto subire l’apertura di un centro di detenzione sul loro territorio.
Anche se ci sarà un ulteriore avvitamento in senso repressivo con il governo che si annuncia in queste ore, sulla base di un programma tanto velleitario quanto irrispettoso dei diritti dei migranti, non si potrà certo garantire maggiore sicurezza o benessere ai cittadini italiani.. Le politiche espulsive progettate dai principali gruppi politici, con la proliferazione di strutture informali di detenzione amministrativa, come sono diventati oggi gli Hotspot di Trapani, Lampedusa e Taranto, oltre ad avere costi insostenibili, porteranno ad un livello di conflittualità mai visto prima, dentro e fuori i centri Hotspot e quelli denominati pomposamente “centri di permanenza per i rimpatri” (CPR), i vecchi CIE.
Occorre fare ogni sforzo possibile per riportare il dibattito politico e il discorso pubblico verso soluzioni praticabili anche dal basso per restituire vera legalità e sicurezza ai territori, ad esempio con la chiusura del CARA di Mineo, quella sicurezza che non può certo provenire da una moltiplicazione delle forze di polizia o dal ricorso a procedure illegali di trattenimento e rimpatrio forzato. Soltanto il pieno riconoscimento del diritto alla protezione in Italia, nel rispetto dell’art. 10 della Costituzione italiana, e l’apertura di canali legali di ingresso attraverso la concessione di visti umanitari, ben al di là degli esigui numeri che Minniti continua a propagandare, potranno consentire una progressiva evacuazione dalla Libia ed il pieno ed effettivo rispetto dei diritti fondamentali delle persone che comunque arriveranno in Italia, come imposto peraltro dall’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998.
4. Dopo gli attacchi concentrici rivolti nei confronti delle ONG sul piano politico e mediatico, partiti già alla fine del 2016, e dopo l’avvio di una cooperazione tra la Marina militare italiana, la centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC) e i comandi ai quali rispondono le motovedette ( in parte donate e assistite dall’Italia) che sono di stanza nei porti della Libia occidentale, in particolare ad Abu Sittah (Tripoli), sotto il controllo del governo Serraj o di milizie che lo sostengono, si è fortemente ridotta la presenza delle navi umanitarie delle ONG. Navi che, fino al mese di luglio 2017 garantivano una buona parte delle attività SAR, coordinate da IMRCC di Roma, nelle acque internazionali confinanti con le acque territoriali libiche ( come confermato dal Rapporto 2017 della Guardia Costiera italiana.
Molte ONG hanno ritirato le loro navi anche per l’incerto quadro giuridico nel quale si svolgevano le attività di ricerca e salvataggio, a seguito dell’adozione di un Codice di Condotta, elaborato dalla Direzione generale Frontiere del Ministero dell’interno, che le diverse ONG hanno dovuto accettare nel tempo. Da undici assetti navali riferibili alle ONG nel 2016 si è scesi alle attuali quattro imbarcazioni ancora impegnate in attività SAR nelle acque del Mediterraneo centrale. La nave Juventa della ONG Jugend Rettet è sotto sequestro a Trapani dal mese di agosto dello scorso anno, e la Open Arms ha ritirato il suo mezzo più grande di soccorso, dopo il sequestro preventivo avvenuto il 17 marzo scorso a Pozzallo. Da allora la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (MRCC) ha variato continuamente le modalità di coordinamento delle attività SAR in acque internazionali, cercando di favorire in tutti i modi l’intervento delle motovedette libiche. Motovedette armate, anche quando le armi venivano tenute nascoste.
Le chiamate di soccorso non provengono più dai gommoni o da parenti dei migranti già presenti in Europa, come avveniva in passato, a partire dai tempi dell’Operazione Mare Nostrum. Oggi gli interventi di salvataggio avvengono dopo avvistamenti effettuati da mezzi aerei della Marina militare o dell’Operazione Sophia di Eunavfor MED, quindi viene allertata la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC), che immediatamente individua i mezzi che sono nelle condizioni di fornire i soccorsi più immediati, spesso le poche navi residue delle ONG.
Nelle prime ore delle attività i soccorso le navi delle ONG vengono utilizzate per mettere in sicurezza le imbarcazioni cariche di migranti, magari con la consegna dei salvagente, di cui sono sprovviste le unità libiche. Si tenta quindi di trasferire la responsabilità delle attività SAR alla cd. Guardia costiera libica, contattata sia dalla Centrale IMRCC che da una nave militare della missione italiana NAURAS ( nell’ambito dell’Operazione Mare Sicuro) presente nel porto di Tripoli. Ma si può legittimamente dubitare che in questo modo le autorità italiane possano liberarsi dagli obblighi di salvataggio imposti dal diritto internazionale.
Il decreto del Gip di Catania, che ha convalidato il sequestro preventivo disposto dalla Procura di Catania, adesso negato dal Gip e dal Tribunale di Ragusa, evidenzia che l’ordine di “stand by” alla nave Open Arms, il 15 marzo 2017, è stato impartito dalle autorità italiane. Secondo il magistrato catanese “il coordinamento (delle motovedette di Tripoli,nda) è sostanzialmente affidato alle forze della Marina Militare Italiana, con i propri mezzi navali e con quelli forniti ai libici”. In questo modo si stabilisce una duplice catena di comando a gerarchia variabile, affidando sostanzialmente ai libici la scelta di come e quando intervenire. Si arriva così ad interrompere una attività SAR, che dovrebbe essere proseguita con la massima sollecitudine possibile, con l’ingiunzione dello “stand by” imposto alle navi umanitarie dalla Centrale operativa MRCC di Roma, in attesa che giunga sulla scena dell’evento SAR una motovedetta libica, magari anche dopo molte ore dal primo allarme.
In occasione dell’evento SAR verificatosi domenica 6 maggio di quest’anno, malgrado il trasferimento della responsabilità SAR ad autorità libiche, nessun mezzo partito da Tripoli o dagli altri porti controllati dalle milizie fedeli al governo di riconciliazione nazionale (GNA), prendeva il largo e raggiungeva con la dovuta tempestività il gommone stracarico di migranti, ormai in procinto di affondare, che poi veniva soccorso da un mezzo di una ONG. Una ennesima conferma della mancanza di una qualsiasi autonoma capacità di coordinamento da parte delle autorità di Tripoli, chiamate sempre più spesso ad intervenire nella ipotetica “zona SAR libica”, che si tende a dare per scontata anche se non se ne trova traccia nei manuali IMO ad uso dei naviganti. In questi casi il ritardo nei soccorsi viene giustificato da una valutazione a vista, compiuta da personale militare a bordo di assetti aerei, che nei rapporti di servizio accerta che i mezzi sovraccarichi di migranti sarebbero “in buono stato di navigabilità”, e per questa ragione non necessiterebbero di un immediato intervento di soccorso da parte delle ONG, o di altre unità navali private o militari che si trovano più vicine. Un criterio di valutazione che contrasta con i criteri internazionali di accertamento delle situazioni di “distress” stabiliti a livello convenzionale e consuetudinario.
Dal mese di marzo di quest’anno è stata adottata la prassi di richiedere allo stato di bandiera delle navi umanitarie la indicazione del POS ( Place of safety) dove sbarcare i migranti dopo il soccorso in mare, con una ulteriore dilatazione dei tempi di sbarco di persone già duramente provate prima della partenza e poi dalla navigazione su gommoni o imbarcazioni fatiscenti privi di qualunque protezione e dotazione igienica o di sicurezza. Una situazione che qualifica come “distress” immediato la condizione di qualunque barcone stracarico di migranti che si trovi in acque internazionali. La risposta delle autorità inglesi, in una recente occasione che ha visto il coinvolgimento della nave Aquarius della ONG SOS Mediterraneè, seguita da un duro comunicato della Commissione Europea, ha chiarito che in queste operazioni di soccorso non ci possono essere tempi morti per ricercare la responsabilità di concludere le operazioni di sbarco nei paesi di bandiera o in altri da loro indicati.
Dopo questa ennesima battuta di arresto, derivante dalla smentita a livello internazionale del Codice di condotta imposto alle ONG, la Centrale Operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC), in coordinamento con il Ministero dell’interno, ha ordinato alle navi delle ONG, non appena completate le prime attività di soccorso in acque internazionali, anche con un numero esiguo di naufraghi a bordo, di fare rotta verso un porto italiano, senza restare in zona per altri salvataggi, ottenendo così il risultato di lasciare campo libero alle motovedette partite dalle coste libiche. Nella sola giornata di domenica 13 maggio scorso oltre 260 migranti ripresi dalle motovedette libiche in acque internazionali, venivano sbarcati nei porti della Tripolitania ed internati nei centri di detenzione .
Si sono ancora una volta intensificati gli attacchi calunniosi contro le ONG e le pastoie burocratiche preparate al momento dello sbarco nei porti italiani. Intanto i libici spadroneggiano in acque internazionali, come se si trattasse delle loro acque territoriali, anche in funzione preventiva, su segnalazione di autorità europee o italiane, tracciando a loro volta le navi delle ONG per allontanarle dalle acque internazionali nelle quali si possono trovare gommoni da soccorrere, con una indebita attività di dissuasione che viola il principio della libera navigazione in acque internazionali. Anche le autorità italiane hanno più volte imposto alle ONG di allontanarsi dai gommoni in difficoltà e di non tenersi “a vista” delle imbarcazioni da soccorrere nelle more dell’arrivo delle motovedette libiche.
Nella giornata del 7 maggio 2018 la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC) ha emesso un comunicato rivolto apparentemente soltanto alle ONG, avvertendole di tenersi ad almeno 8 miglia di distanza dall’evento SAR in caso di intervento dei libici. Un intervento che, secondo quanto emerso dopo il sequestro della Open Arms, adesso negato anche dal Tribunale di Ragusa, è “sostanzialmente” coordinato dalla Marina militare e dalla Guardia costiera italiana. Ma non mancano neppure casi, riferiti ancora di recente da diverse ONG, nei quali le autorità libiche, indicate come autorità responsabili per gli interventi SAR, non hanno neppure risposto alle chiamate da parte delle unità di soccorso delle organizzazioni umanitarie.
Come si è osservato in materia di “Hotspot Approach” anche nella delicata materia del soccorso in mare (SAR) in acque internazionali, regolata da importanti Convenzioni del diritto marittimo, e in ogni caso condizionato dalla Convenzione di Ginevra che impone il principio di non refoulement ( art. 33), le autorità del governo uscente hanno già dato prova di fare largo uso della discrezionalità politica per imporre prassi che appaiono in contrasto con la normativa interazionale e con il dettato costituzionale in materia di diritti fondamentali della persona.
Questa considerazione ci deve fare riflettere oltre le singole vicende processuali, tuttora aperte, o di altre che si potranno ancora aprire in futuro. L’obiettivo principale dovrebbe essere costituito dalla messa in sicurezza delle persone salvate in mare, non dal rimpallo delle responsabilità di soccorso o dal loro allontanamento dai confini europei. Si devono salvare le persone intrappolate in Libia. Anche quelle rinchiuse nei cd. centri “governativi” come quello di Tripoli. Su questo le Organizzazioni non governative non arretreranno di un centimetro e continueranno a cercare tutte le possibili vie di soccorso per ridurre il numero delle vittime nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Occorrono regole certe per le attività di soccorso in mare, in conformità al dettato internazionale. Le autorità marittime devono collaborare per portare i naufraghi in un place of safety, in un porto sicuro, e non per ridurre il numero degli arrivi irregolari in Italia. Obiettivo che si può perseguire aprendo vie legali di ingresso in Europa ed in Italia e riconoscendo il ruolo di ricerca e soccorso delle navi umanitarie.
5. Le forzature contenute nel “Contratto” stipulato tra la Lega ed il Movimento Cinque stelle in materia di immigrazione vanno di pari passo con le evidenti forzature contenute nella creazione di un organismo parallelo al governo, una sorta di Comitato di conciliazione,non previsto dalla Costituzione, nel vincolo di mandato che si vorrebbe imporre ai parlamentari, e dunque del ridimensionamento dei poteri decisionali del Parlamento a vantaggio degli organi politici dell’esecutivo e militari.
Il Contratto di governo, partorito in uno studio commercialistico, prevede “respingimenti, espulsioni vere”, accordi bilaterali e multilaterali con i Paesi di provenienza per limitare l’arrivo dei migranti, atteggiamento “complessivo” nei confronti dell’Europa. I propositi di trasferire risorse dal sistema di accoglienza alle operazioni di allontanamento forzato avranno un effetto devastante aumentando il numero delle persone abbandonate in situazioni di degrado, senza fare aumentare sostanzialmente il numero delle persone in situazione di irregolarità che saranno effettivamente rimpatriate. Non solo. Si avrà ancora una volta la conferma di come gli attacchi contro i migranti, in nome del populismo più becero, al grido “prima gli italiani”, corrispondono, come avvertivamo da tempo, ad uno stravolgimento della democrazia costituzionale.
In una fase tanto incerta si deve riaffermare il ruolo decisivo della giurisdizione, in tutte le sue componenti, per garantire il rispetto o il ripristino del quadro costituzionale, a partire dall’effettivo riconoscimento dei diritti fondamentali della persona, quale che sia il suo stato giuridico o la sua nazionalità ( art. 2 del Testo Unico n.286 del 1998 in materia di immigrazione). Una prova alla quale è attesa non solo la giurisprudenza di merito, ma anche la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale. Ed oltre la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e la Corte Europea dei diritti dell’Uomo.
Su questa trincea, in nome dell’affermazione del principio di legalità, base del sistema democratico, si troveranno anche i giuristi, gli operatori umanitari e i cittadini solidali, non solo in difesa dei diritti dei migranti e dei soggetti più svantaggiati, ma anche in difesa della Costituzione e delle Convenzioni internazionali che sottraggono ai poteri politici dei governi qualsiasi valutazione discrezionale sulla vita e la dignità delle persone.
APPENDICE DI AGGIORNAMENTO
Comunque la nuova maggioranza leghista e grillina occupa il potere e stravolge la Costituzione, ma rimane nel solco del Piano Minniti presentato nel gennaio del 2017.
Questo era il contenuto del Piano Minniti presentato lo scorso anno, incentrato sull’apertura di un centro per i rimpatri (CPR), un centro di detenzione per intenderci, per ogni regione.
Ecco invece le proposte in tema di immigrazione contenute nel Contratto di governo che sarà presentato al Capo dello Stato. Le differenze sono minime, si prosegue sulla strada aperta da Minniti. verso il baratro dello scontro sociale e della riduzione delle garanzie di difesa.
Inoltre riteniamo che si debbano implementare gli accordi bilaterali, sia da parte dell’Italia sia da parte dell’Unione europea, con i Paesi terzi, sia di transito che di origine, in modo da rendere chiare e rapide le procedure di rimpatrio.
Occorre prevedere, contestualmente, l’individuazione di sedi di permanenza temporanea finalizzate al rimpatrio, con almeno uno per ogni regione, previo accordo con la Regione medesima, e con una capienza tale da garantire il trattenimento di tutti gli immigrati il cui ingresso o soggiorno sia irregolare, presenti e rintracciati sul territorio nazionale. Fondamentale, infatti, per una corretta gestione della politica immigratoria è la questione dei rimpatri. Oltre ai recenti richiami dell’Ue che hanno evidenziato una assoluta incapacità dell’Italia sotto questo profilo, rispetto agli altri Paesi, nell’effettivo allontanamento degli immigrati irregolari presenti nel proprio territorio, secondo i dati ufficiali sugli ingressi, tenuto conto di una stima di quelli non registrati, e gli esiti delle domande di asilo presentate dal 2013 ad oggi sarebbero circa 500 mila i migranti irregolari presenti sul nostro territorio e che, pertanto, una seria ed efficace politica dei rimpatri risulta indifferibile e prioritaria.
Ai fini dell’espletamento delle procedure e dell’effettivo rimpatrio, il trattenimento deve essere disposto per tutto il periodo necessario ad assicurare che l’allontanamento sia eseguito, fino ad un massimo complessivo di diciotto mesi in armonia con le disposizioni comunitarie.
Nell’ottica di una gestione delle risorse pubbliche efficiente e congruente con le azioni politiche da attuare, occorre, quindi, procedere ad una revisione dell’attuale destinazione
delle stesse in materia di asilo e immigrazione, in particolare prevedendo l’utilizzo di parte delle risorse stanziate per l’accoglienza per destinarle al Fondo rimpatri.
Infine, occorre una necessaria revisione della vigente normativa in materia di ricongiungimenti familiari e di sussidi sociali, al fine di evitare casi fittizi, l’indebito utilizzo dei sussidi erogati e garantire la loro effettiva sostenibilità rispetto alla condizione economica del nostro Paese.