Prassi operative “incresciose” da parte della Centrale operativa della Guardia costiera italiana.

di Fulvio Vassallo Paleologo

Da due giorni un centinaio di persone sono trattenute in ostaggio, bloccate in acque internazionali, prima a bordo della piccola imbarcazione Astral di Open Arms, poi a bordo della nave Aquarius di Sos Mediterraneè. Le parole di Luigi Manconi sono chiarissime. Non per un “braccio di ferro” con le autorità inglesi ( che non hanno ancora dimenticato il diritto internazionale del mare), quanto per una proterva determinazione del Comando centrale del Corpo delle capitanerie di Porto (IMRCC) di Roma, in evidente collegamento con il Ministero dell’interno e con la Marina militare, presente a Tripoli con nave Caprera ( nell’ambito della missione Nauras dell’operazione Mare Sicuro). Le autorità italiane negano la indicazione di un Place of safety (POS) un porto di sbarco sicuro, dove sbarcare le persone soccorse dalle navi umanitarie, sostenendo di avere trasferito da ieri le competenze del coordinamento SAR, e dunque la responsabilità di indicare il porto di sbarco,  a non meglio identificate autorità libiche, mentre la Libia non ha ancora una centrale operativa (MRCC) riconosciuta a livello internazionale dall’IMO ( Organizzazione internazionale marittima). 

Quello che viene riferito come “Il braccio di ferro tra Italia e Gran Bretagna per il trasbordo dei migranti dalla nave della Ong Proactiva Open Arms a quella di Sos Mediterranee” viene adesso giudicato “increscioso”, se non “deplorevole”, da una portavoce della Commissione Ue, che sottolinea come la priorità sia “prestare aiuto ai migranti”. Come riferisce la stampa, l’Unione Europea lancia quindi un appello ai due Paesi per “una soluzione rapida affinché i migranti siano sbarcati in piena sicurezza e al più presto”.

In realtà le autorità inglesi hanno ricordato ai comandi italiani le responsabilità che loro competono come coordinatori iniziali delle attività SAR, responsabilità che discendono dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare. Ma evidentemente, in un caso in cui la cd. Guardia costiera libica, pure chiamata dalla Marina italiana, non ha deciso di intervenire, rischia di saltare la linea politica dei respingimenti delegati ai libici del GNA (Governo Serraj) a partire dal Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017 e poi con il Codice di condotta Minniti e con le tante contestazioni rivolte alle ONG, chiamate a rispondere delle loro attività di soccorso umanitario anche sul fronte giudiziario. Sarà bene a questo punto di grande confusione generata dalle scelte delle autorità militari (e di vuoto politico) fare il punto sulle responsabilità di ricerca e salvataggio nelle acque del Mediterraneo centrale.

La più recente evoluzione della guerra alle ONG nel Mediterraneo centrale.

Dopo gli attacchi concentrici rivolti nei confronti delle ONG sul piano politico e mediatico, e dopo l’avvio di una stretta cooperazione tra la Marina militare italiana, la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC) e i comandi ai quali rispondono le motovedette ( in parte donate e assistite dall’Italia) che sono di stanza nei porti della Libia occidentale, in particolare ad Abu Sittah (Tripoli) sotto il controllo del governo Serraj o di milizie che lo sostengono, si è fortemente ridotta la presenza delle navi umanitarie delle ONG che fino al mese di luglio 2017 garantivano una buona parte delle attività SAR coordinate da IMRCC di Roma nelle acque internazionali confinanti con le acque territoriali libiche ( vedi rapporto 2017 Guardia Costiera italiana). Lo snodo fondamentale va individuato nella imposizione di un Codice di condotta da parte del ministero dell’interno, e nel sequestro della nave Juventa, attirata con un espediente nel porto di Lampedusa nei primi giorni di agosto dello scorso anno.

A partire da quel tempo molte ONG hanno ritirato le loro navi, anche per l’incerto quadro giuridico nel quale si svolgevano le attività di ricerca e salvataggio, a seguito dell’adozione di un Codice di Condotta, elaborato dalla Direzione generale Frontiere del Ministero dell’interno, che le diverse ONG hanno dovuto accettare nel tempo. Da undici assetti navali riferibili alle ONG si è scesi alle attuali quattro imbarcazioni ancora impegnate in attività SAR nelle acque del Mediterraneo centrale. La nave Juventa della ONG Jugend Rettet è sotto sequestro a Trapani dal mese di agosto dello scorso anno, e la Open Arms ha ritirato il suo mezzo più grande di soccorso, dopo il sequestro avvenuto il 17 marzo a Pozzallo.

Come si osserva da parte degli studiosi ( Papanicolopulu),”il Codice di condotta ONG si posiziona a metà strada tra un documento che intende codificare le norme applicabili alle ONG e un documento interno che regola le loro operazioni. In esso non si trovano accenni (salvo una nota) a norme di diritto del mare e di diritto marittimo che pure regolano la navigazione e il soccorso in mare. Non essendo esso il prodotto dei processi di creazione delle norme di diritto internazionale, il suo contenuto non è vincolante di per sé, ma solo nella misura in cui esso riprende norme giuridicamente vincolanti del diritto internazionale”.

Le prassi operative più recenti, in continua evoluzione, dunque non comparabili a qulle dello scorso anno, risentono delle nuove competenze assegnate alla missione Eunavfor Med (anche avvistamento aereo) e della presenza stabile di una nave della Marina militare italiana nel porto di Tripoli. Generalmente gli avvistamenti vengono effettuati da mezzi aerei della Marina militare o dell’Operazione Sophia di Eunavfor MED, quindi viene allertata la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC), che immediatamente individua i mezzi che sono nelle condizioni di fornire i soccorsi più immediati, spesso le poche navi residue delle ONG. Quindi, in base alla disponibilità dichiarata dai libici, si tenta di trasferire la responsabilità delle attività SAR alla cd. Guardia costiera libica, contattata sia da IMRCC che da una nave militare dell’operazione italiana NAURAS presente nel porto di Tripoli.

In questo modo si crea una duplice catena di comando, affidando ai libici la scelta di come e quando intervenire, e spesso si interrompe una attività SAR che deve essere avviata immediatamente, con l’ingiunzione dello “stand by” proveniente alle navi umanitarie dalla Centrale operativa MRCC di Roma, in attesa che giunga sulla scena dell’evento SAR una motovedetta libica, magari anche dopo molte ore dal primo allarme. In occasione dell’evento SAR verificatosi domenica 6 maggio ultimo scorso a circa 30 miglia dalla costa libica, malgrado il trasferimento della responsabilità SAR ad autorità libiche, nessun mezzo partito da Tripoli o dagli altri porti controllati dalle milizie fedeli a Serraj prendeva il largo e raggiungeva con la dovuta tempestività il gommone ormai in procinto di affondare. Una ennesima conferma della mancanza di una zona SAR libica.

In molti casi il ritardo nei soccorsi, nel tentativo di trasferirli ai libici, viene giustificato da una valutazione a vista, compiuta da personale italiano militare a bordo dei mezzi aerei, che nei rapporti di servizio accerta che i mezzi sovraccarichi di migranti sarebbero “in buono stato di navigabilità”, e per questa ragione non necessiterebbero di un immediato intervento di soccorso da parte delle ONG, o di altre unità navali private o militari che si trovano più vicine. Un criterio di valutazione che contrasta con i criteri internazionali di accertamento delle situazioni di “distress” stabiliti a livello convenzionale e consuetudinario.

Si osserva come le imbarcazioni utilizzate dai migranti “ a volte sono dei semplici natanti e che nella gran parte dei casi sono unsafe,  cioè prive dei requisiti di navigabilità secondo la SOLAS. Da ciò deriva la circostanza che la richiesta di soccorso può pervenire agli organi SAR nazionali prima che si verifichi un evento pregiudizievole per la vita delle persone trasportate. Il problema riguarda in particolare la questione dell’esistenza di un effettivo o imminente distress (situazione cioè di pericolo), potendosi anche presentare il caso che la richiesta avvenga in assenza di pericolo imminente, ma tuttavia sia avanzata da un’imbarcazione priva dei requisiti di sicurezza”.  .

In ogni caso, il pericolo di vita a bordo di un gommone sovraccarico in alto mare, secondo le convenzioni internazional, non è escluso dal grado di galleggiabilità, o dalla sua attitudine alla navigazione autonoma, ma deve presumersi “in re ipsa”. Sempre. Nella più recente prassi internazionale, e secondo le prescrizioni delle Convenzioni internazionali, si devono considerar in una situazione oggettiva di pericolo le imbarcazioni cariche di migranti in alto mare, anche se fossero ancora in movimento,per il solo fatto di essere sovraccariche o prive di un equipaggio professionista a bordo.

La tragedia dell’11 ottobre del 2013, a sud di Malta, fu determinata proprio da una diversa valutazione della condizione di pericolo da parte delle autorità maltesi ed italiane.

Nessuna norma penale o previsione contenuta in codici di condotta, potranno mai imporre di restare in una condizione di “stand by” mentre una imbarcazione carica di persone è a rischio di affondare in alto mare in assenza di altri mezzi di soccorso presenti sulla scena. La vita delle persone in mare viene prima delle esigenze degli stati di ridurre gli ingressi, o di sbarcare i naufraghi nei porti di partenza.

Da ultimo è stata adottata la prassi di richiedere allo stato di bandiera la indicazione del POS ( Place of safety) dove sbarcare i migranti dopo il soccorso in mare, con una ulteriore dilatazione dei tempi di sbarco di persone già duramente provate prima della partenza e poi dalla navigazione su gommoni o imbarcazioni fatiscenti privi di qualunque protezione e dotazione igienica o di sicurezza. Una situazione che qualifica come distress immediato la condizione di qualunque barcone carico di migranti che si trovi in acque internazionali. Una situazione che non si può risolvere in un conflitto diplomatico ma che imporrebbe alle autorità SAR responsabili, quelle italiane, la più rapida indicazione di un luogo di sbarco sicuro (POS).

Altre volte i libici intervengono in funzione preventiva, tracciando a loro volta le navi delle ONG per allontanarle dalle acque internazionali nelle quali si possono trovare gommoni da soccorrere, con una indebita attività di dissuasione che viola il principio della libera navigazione in acque internazionali. Sorprende che nella giornata del 7 maggio 2018 la centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC) abbia emesso un comunicato rivolto apparentemente soltanto alle ONG, evvertendole di tenersi ad almeno 8 miglia di distanza dall’evento SAR in caso di intervento delle motovedette libiche. Un intervento che, secondo quanto emerso anche nell’ordinanza del GIP di Catania dopo il sequestro della Open Arms, è “sostanzialmente” coordinato dalla Marina militare e dalla Guardia costiera italiana.

Se dopo l’imbarco a bordo di naufraghi avvenuto in acque internazionali sotto il coordinamento della Centrale Operativa (MRCC) di Roma si consentisse alle autorità del governo di Tripoli di salire a bordo delle navi umanitarie o di imporre il trasbordo di persone che sono state sotto la giurisdizione esclusiva dei comandi italiani della Marina militare e del Corpo della Guardia costiera, e che si trovano in territorio europeo, come sono da considerare le navi che battono bandiera di uno stato europeo e si trovano in acque internazionali, si realizzerebbe di fatto un respingimento collettivo in violazione della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art.19). Le persone ricondotte nei centri di detenzione in Libia sarebbero comunque esposte a violazioni del divieto di trattamenti inumani o degradanti direttamente riconducibili alla responsabilità penale ed internazionale delle autorità italiane.

Dopo lo sbarco nei porti libici, malgrado la presenza di OIM ed UNHCR in alcune località, come Tajoura nei pressi di Tripoli, e le periodiche visite nei centri di detenzione governativi, la sorte della maggior parte dei migranti è segnata. Dopo pochi giorni nei centri governativi, la maggior parte di loro viene trasferita in strutture controllate dalle milizie e, anche se rimessi temporaneamente in libertà, sono oggetto di abusi e di violenze diffuse.

Gli obblighi di soccorso degli stati nel caso di persone in difficoltà nelle acque internazionali e il principio di non respingimento.

In base all’art. 33 della Convenzione di Ginevra, “Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato  verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a  motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua  appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.

Tale obbligo è stato ribadito nel rapporto “Rescue at Sea: A Guide to Principles and Practice as Applied to Migrants and Refugees”, elaborato nel 2006 dall’IMO e dall’UNHCRe sottoposto ad aggiornamento nel 2015. In tale documento viene evidenziato l’obbligo che incombe al comandante della nave che compie l’intervento di soccorso di tutelare adeguatamente i richiedenti asilo, verificando la loro presenza a bordo, comunicandola all’UNCHR ed effettuando lo sbarco unicamente laddove sia possibile garantire loro adeguata protezione.

Secondo l’Unhcr a Tripoli, dove l’agenzia è presente, la Guardia Costiera libica ha sbarcato 2783 persone riprese in acque internazionali, nel solo 2018, ma appena 983 sarebbero state rilasciate dai centri di detenzione. Che fine hanno fatto tutti gli altri ? E che fine hanno fatto le altre persone sbarcate nei porti libici nei quali l’UNHCR e l’OIM non hanno mai messo piede ?

Il 21 febbraio di quest’anno veniva pubblicato un Rapporto delle Nazioni Unite che documentava le gravi violazioni dei diritti umani subite in Libia dai migranti e anche da alcune popolazioni libiche, malgrado i tentativi della comunità internazionale e del governo di Tripoli di giungere ad una riunificazione del paese e ad un controllo effettivo delle numerose milizie armate che se ne contendono il controllo.

Nel Rapporto si sottolineva come ” UNSMIL/OHCHR found that migrants in Libya facegross human rights violationsand abuses, both in and outside detention.Perpetrators include State officials, armed groups,smugglers, traffickers and other criminal gangs. State institutions remain weak and, in some instances, the authorities were unable or unwilling to ensure effective protection for migrants”.

Il Rapporto metteva bene in evidenza come gli abusi ai danni dei migranti fossero perpetrati non solo nei cd. centri “informali” gestiti direttamente dalle milizie, ma anche nei cd. centri governativi, in alcuni dei quali peraltro si effettuano visite periodiche da parte dell’UNHCR e dell’OIM. In tre di questi centri, in questi mesi dovrebbero essere anche presenti alcune Organizzazioni non governative convenzionate con il ministero degli esteri italiano.

Continua dunque ad assumere rilievo il rischio di una grave violazione del divieto di non respingimento previsto dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra,  si rinvia a quanto osservato, in ordine alla paventata “chiusura” dei porti italiani, da P. De Sena, La “minaccia” italiana di “bloccare” gli sbarchi di migranti ed il diritto internazionale.

Osserva De Sena “Sempre sul presupposto che le imbarcazioni rientrino nella giurisdizione italiana, il divieto di accesso a porti italiani, con l’eventuale, conseguente impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone interessate, sembra suscettibile di entrare in contrasto con il divieto di espulsioni collettive fissato dall’art. 4 del Prot. n. 4 alla Convenzione (v. Hirsi c. Italia, Khlaifia c. Italia). È poi appena il caso di sottolineare che, con riferimento alle possibili violazioni degli articoli 2 e 3 della Convenzione, poco sopra ipotizzate, nessun effetto avrebbe l’eventuale esercizio della facoltà di deroga, di cui all’articolo 15 della Convenzione, data l’intangibilità dei diritti contemplati dalle suddette disposizioni. D’altra parte, seppure l’articolo 15 sia sicuramente invocabile (e sia stato regolarmente invocato nella prassi) per ragioni di «sicurezza nazionale», e malgrado l’ampio margine di apprezzamento di cui notoriamente godono al riguardo gli Stati parti della Convenzione, è lecito dubitare che l’afflusso di alcune migliaia di migranti in un territorio che conta una popolazione di circa 60 milioni di persone sia, di per sé, qualificabile come un «pericolo pubblico che minacci la vita di una nazione».

Come ha affermato la Corte Europea dei diritti dell’Uomo nella sentenza Hirsi , “secondo il diritto internazionale in materia di tutela dei rifugiati, il criterio decisivo di cui tenere conto per stabilire la responsabilità di uno Stato non sarebbe se la persona interessata dal respingimento si trovi nel territorio dello Stato, o a bordo di una nave battente bandiera dello stesso, bensì se essa sia sottoposta al controllo effettivo e all’autorità di esso”.

Afferma ancora la Corte di Strasburgo nella sentenza Hirsi: “Dotato di questo contenuto e di questa estensione, il divieto di respingimento costituisce un principio di diritto internazionale consuetudinario che vincola tutti gli Stati, compresi quelli che non sono parti alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati o a qualsiasi altro trattato di protezione dei rifugiati. E’ inoltre una norma di jus cogens: non subisce alcuna deroga ed è imperativa, in quanto non può essere oggetto di alcuna riserva” (articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, articolo 42 § 1 della Convenzione sullo status dei rifugiati e articolo VII§1 del Protocollo del 1967).

Ma vi è anche un altro profilo di responsabilità delle autorità italiane da considerare. La giurisprudenza della Corte europea rivela casi di esercizio extraterritoriale della competenza da parte di uno Stato nelle cause riguardanti azioni compiute all’estero da agenti diplomatici o consolari, o a bordo di aeromobili immatricolati nello Stato in questione o di navi battenti la bandiera di detto Stato. In queste situazioni, basandosi sul diritto internazionale consuetudinario e su disposizioni convenzionali, la Corte ha riconosciuto l’esercizio extraterritoriale della giurisdizione da parte dello Stato interessato ( casi Banković, e Medvedyev ed altri).

Lo stretto coordinamento che emerge tra la Guardia costiera italiana, nel suo Comando centrale (IMRCC) , la Marina militare con una nave presente nel porto di Tripoli, e la cd. Guardia costiera “libica” potrebbe dunque configurare un vero e proprio respingimento collettivo attuato anche direttamente dall’Italia, vietato dall’art.4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU e l’art. 19 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.. Se infatti per la configurazione di un respingimento collettivo, in base a quanto affermato dalla Giurisprudenza della Corte di Strasburgo, occorre che i migranti siano soggetti alla potestà esclusiva del paese che respinge, in questo caso l’Italia, la circostanza che le persone siano a bordo di imbarcazioni coinvolte in attività SAR inizialmente coordinate da autorità italiane, le sottopone alla piena giurisdizione dell’Italia, che in questa qualità deve anche garantire un luogo di sbarco nel place of safety più vicino, e non nel porto più vicino. Nessuna persona che si trovi in acque internazionale durante un evento SAR può essere sottratta alla giurisdizione del paese che coordina i soccorsi. Ed è l’Italia che deve garantire il rispetto del principio di non refoulement (respingimento) affermato dalla Convenzione di Ginevra (art.33) e del divieto di respingimenti collettivi, oltre che il divieto di trattamenti inumani o degradanti, pure sanciti dalla CEDU.

Quando le autorità italiane cedono la responsabilità SAR inizialmente assunta alle autorità libiche, con riferimento alle persone che, trovandosi a bordo di gommoni in acque internazionali, ricadono già sotto la sua giurisdizione esclusiva, indipendentemente dallo stato di bandiera dei mezzi  civili o militari che vengono soccorsi nel soccorso, realizzano tutti gli estremi di un trasferimento di giurisdizione che equivale ad una consegna (rendition) di quelle stesse persone alle autorità di un paese che non garantisce un luogo di sbarco sicuro, che non aderisce alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, nel quale sono note le collusioni tra autorità statali e trafficanti, e che da ultimo si trova in una fase di conflitto armato e di gravi violazione dei diritti umani anche ai danni della popolazione libica.

Se una unità navale privata in acque internazionali inizia una attività di ricerca e soccorso sotto il coordinamento del Comando centrale di Roma (MRCC), questa attività non si può interrompere per il sopraggiungere di una motovedetta libica o per il trasferimento di competenze di coordinamento SAR, inclusa la determinazione del porto sicuro di sbarco ad autorità di uno stato che non ha neppure ratificato la Convenzione di Ginevra. Semmai i libici, se vorranno mettere a frutto i corsi di formazione seguiti a bordo delle unità italiane, potranno semmai contribuire alle attività SAR, ma trattandosi di cooperazione coordinata dalle autorità SAR italiane, va esclusa qualsiasi possibilità trasbordo su unità libiche o di diversione forzata dalla rotta dei barconi e di riconduzione dei migranti in Libia.

L’inesistenza di una zona SAR “libica” o di un coordinamento (MRCC) “libico”.

La Libia, o meglio il GNA, il governo di Tripoli, con il quale l’Italia ha stipulato un Memorandum d’intesa il 2 febbraio 2017 non ha una zona SAR riconosciuta a livello internazionale ed il Codice di condotta imposto alle ONG dal ministro Minniti è privo di valore legale vincolante. Gli ultimi episodi dimostrano con il corollario di vittime che ne è derivato, come nella intercettazione del 6 novembre 2015 ai danni della ONG Sea Watch che la Libia NON ha una zona SAR, nè tale zona le può essere riconosciuta a livello internazionale per la evidente incapacità di coordinare e di gestire gli interventi di soccorso salvaguardando effettivamente la vita umana delle persone. A bordo delle motovedette libiche sono visibili armi, ma non giubbetti salvagente o mezzi collettivi di galleggiamento. Sono numerosi i casi di violenze documentate ai danni di migranti in procinto di essere soccorsi in mare. Come le torture subite da chi è stato riportato a terra.

Da un recente rapporto di attività della Guardia costiera italiana, che non può essere smentito da intese o comunicazioni riservate non portate alla conoscenza pubblica degli operatori e dunque prive della capacità di imporre regole di comportamento, comunque inidonee a modificare gli obblighi di soccorso e non respingimento previsti dalle Convenzioni internazionali, si desume anche la attuale inesistenza di una zona SAR libica.

Come osservano Leanza e Caffio ( Rivista Marittima giugno 2015), “L’istituzione di una zona SAR è intrinsecamente subordinata alla circostanza che lo Stato parte della Convenzione sia in grado di garantire l’operatività continua ed efficace dei servizi SAR nell’area di propria competenza. In particolare, lo Stato si impegna a istituire un Centro e dei Sotto-centri di coordinamento, a designare delle unità costiere di soccorso, a disporre di strutture, mezzi navali e aerei, centri di telecomunicazione di soccorso e personale adeguato (da un punto di vista quantitativo e qualitativo)”. La Convenzione di Amburgo chiarisce che un servizio SAR, per essere efficace, deve essere gestito e sostenuto adeguatamente oltre a essere integrato in uno specifico contesto normativo”.

Anche se si sostiene che le norme sulla indicazione di un POS da parte dello stato responsabile del coordinamento SAR rimettano alla libera scelta di questo stato anche la possibile collaborazione con altre autorità SAR, il limite invalicabile incontrato dalla discrezionalità statale delle autorità di coordinamento SAR (IMRCC) è rappresentato dalla presenza tra i migranti irregolari soccorsi in mare di potenziali rifugiati o richiedenti asilo, minori non accompagnate o donne vittime di violenza, comunque persone che comunque rappresentino una istanza di protezione internazionale. Le autorità italiane, che sono sempre le prime ad essere titolari della responsabilità SAR, come risulta dai registri di attività della missione Mare Sicuro e della Guardia costiera devono rispettare il principio di non refoulement anche nell’individuazione del luogo ove le operazioni di soccorso in mare possono essere considerate terminate.

Alcune considerazioni conclusive

Le denunce e le testimonianze raccolte dalle ONG, ed ora confermate dal recentissimo rapporto delle Nazioni Unite sono state le uniche voci che hanno squarciato un velo di omertà mantenuto dagli stati e dai loro rappresentanti diplomatici per coprire i gravi abusi commessi ai danni dei migranti tanto nelle acque internazionali quanto nei centri di detenzione nei quali sono stati riportati. Abusi che non possono in alcun modo essere giustificati dalla riduzione delle partenze dalla Libia, se solo si considerano le condizioni disumane nelle quali sono trattenuti i migranti bloccati in acque internazionali e poi ricondotti nei centri di detenzione. E’ giunto dunque il tempo di sospendere l’operatività di accordi bilaterali che non garantiscono l’effettivo rispetto dei diritti fondamentali della persona, e di ripristinare l’effettiva applicazione della normativa internazionale prevista per le Operazioni di ricerca e salvataggio (SAR), ponendo fine ai ricorrenti tentativi di criminalizzazione delle Organizzazioni non governative e degli operatori umanitari impegnati in tali attività.

Piuttosto che intese per istruire la Guardia Costiera libica nelle attività di blocco dei migranti e di riconduzione in Libia, si dovrebbero individuare metodi di collaborazione per soccorrere nel modo più efficace le persone a rischio di naufragio e nel ricondurle su un territorio nel quale possano fare valere una richiesta di asilo e non siano a rischio di subire abusi ed estorsioni. Territorio che oggi non è certo il tratto di costa che va da Zuwara a Sabratah, Zawiah Tripoli e Misurata in preda ad un sanguinoso conflitto tra milizie. Appare altresì evidente che le persone[1] che in futuro dovessero essere sbarcate in territorio libico dovrebbero avere garantito il pieno ed effettivo accesso dei diritti fondamentali della persona,a partire dal diritto di asilo, e che, in assenza di tali condizioni, dovrebbero essere sbarcate in un altro luogo, dunque in un altro paese, definibile con certezza come place of safety”.

Il porto di sbarco definibile come “place of safety” deve trovarsi all’interno di un paese che garantisca l’effettiva applicazione della Convenzione di Ginevra e delle altre Convenzioni internazionali che salvaguardano i diritti della persona umana. Questo paese oggi non è certo la Libia, o quello che ne rimane, nei diversi governi che si contendono il controllo del paese, anche perché la Libia non ha mai aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Gli stati europei non possono scaricare soltanto sull’Italia e sulla Grecia gli obblighi di ricerca e salvataggio in un luogo sicuro.

I gommoni o le imbarcazioni più piccole usate dai trafficanti possono soltanto uscire dalle acque territoriali libiche ( 12 miglia dalla costa) ma non sono in grado di resistere ad una navigazione più lunga, potendo al massimo raggiungere 30-40 miglia dalla costa, anche per la carenza di rifornimenti e per la particolare esposizione delle persone che trasportano, agli eventi atmosferici. Tra i migranti che sono riusciti ad essere soccorsi e che quindi sono stati sbarcati nei porti siciliani sono numerose le testimonianze delle violenze e degli abusi dei migranti “soccorsi” dalla Guardia Costiera libica e rigettati nei tanti centri di detenzione dove imperversano trafficanti e poliziotti senza scrupoli. L’Italia e l’Unione Europea, sotto la spinta di elettorati sempre più condizionati dai partiti populisti e dai nazionalismi più beceri, non si possono sottrarre ad una attività di ricerca e soccorso che preveda comunque intese, anche con le autorità libiche, volte comunque a favorire lo sbarco dei naufraghi in porti “sicuri”, quali in questo momento non possono certo definirsi i porti libici. L’obiettivo principale dovrebbe essere costituito dalla messa in sicurezza dei migranti soccorsi in mare, non dal loro allontanamento dai confini europei.

[1] F De Vittor, ‘Il diritto di attraversare il Mediterraneo… o quantomeno di provarci”,  Diritti umani e diritto internazionale, 2014, 63.