Fulvio Vassallo Paleologo
Dopo tre giorni di soccorsi operati in condizioni di estrema difficoltà ai limiti delle acque territoriali libiche, mentre sono ancora in navigazione le navi umanitarie che si sono maggiormente esposte per non abbandonare al loro destino i gommoni carichi di migranti nel mare in burrasca, si apprende dai mezzi di informazione delle destinazioni di sbarco di coloro che sono stati salvati.
Ben lontano dalle acque di fronte Zuwara, Zawia e Tripoli, dove in condizioni meteo difficilissime hanno operato le navi umanitarie, ricompaiono le navi della missione Eunavformed e dell’ Agenzia europea Frontex, un numero esiguo di mezzi comunque rispetto agli “assets” che erano stati annunciati negli scorsi anni, e in modalità operative ben diverse rispetto al passato, quando si spingevano anche loro fino a poche miglia dalla costa libica.
In particolare questa volta ha partecipato alle operazioni di soccorso anche la nave Phanter che ha fatto attracco oggi nel porto di Messina con 1267 persone a bordo.
A Catania è invece attraccata la nave tedesca Rhein, che sembra fare parte del dispositivo Eunavfor Med.
La nave di Frontex Siem Pilot, che nei giorni scorsi ha operato a lungo a nord di Misurata, ben lontano dalla costa, dopo essersi avvicinata all’isola di Lampedusa, appare diretta verso Cagliari, dove dovrebbe sbarcare domani oltre 800 persone.
Secondo quanto dichiarato oggi dall’Ufficio stampa di Frontex la Siem Pilot avrebbe raccolto le persone che si trovavano a bordo da altre sei navi coinvolte nell’operazione Triton, della stessa agenzia nel Mediterraneo centrale. Ma queste sei navi finora non le ha viste nessuno, forse saranno arrivate proprio in questi giorni. Aspettiamo di vederle nei porti di sbarco.
Nel caso di questi interventi in operazioni SAR ( Search and Rescue) che non rientrano tra le finalità principali di “Law Enforcement” delle due missioni, si può presumere che si tratti anche di attività di assistenza successiva ai primi soccorsi, prestata in favore di navi commerciali coinvolte dal comando centrale della Guardia Costiera, perché si trovavano in immediata prossimità dei gommoni in pericolo, ma poi alleggerite del “carico umano”dai mezzi di Frontex e dunque fatte proseguire verso le loro destinazioni. Sorprende comunque che nella zona di maggiore concentrazione delle chiamate di soccorso e di maggiore difficoltà degli interventi, a nord tra Zuwara e Zawia, i mezzi di Frontex non si siano fatti vedere. Quanto ad Eunavfor Med è noto che dispone di mezzi, anche portaerei, che notoriamente non sono adatte al soccorso in mare di battelli di piccole dimensioni.
Sembra che ancora una volta si preferisca ritornare all’utilizzazione delle navi commerciali in funzione di soccorso ed a una ubicazione dei mezzi di Frontex ben distanti dalle coste libiche, piuttosto che ad una leale collaborazione con i mezzi delle Organizzazioni Umanitarie, che ieri, proprio nella zona di maggiore presenza di imbarcazioni in difficoltà, sono state abbandonate al loro destino, con i migranti che stavano assistendo, al punto che si è reso necessario l’invio di una chiamata di SOS per fare intervenire la Guardia Costiera italiana. Non vorremmo che un caso di ritardo nei soccorsi, da parte di chi avrebbe dovuto garantire la massima tempestività di intervento – gli appelli erano partiti anche dai mezzi di Moas già nella giornata di sabato – diventi un ulteriore occasione per accusare chi ha esposto a pericolo la propria vita per restare vicino alle imbarcazioni cariche di migranti in difficoltà nel mare in burrasca.
Le navi umanitarie del resto non sono in numero illimitato ed hanno anche i loro tempi di ritorno sui luoghi di soccorso, prolungati dalla lentezza e dalle complicazioni burocratiche delle operazioni di sbarco. Nei giorni precedenti 1200 persone erano state sbarcate nei porti di Augusta (Siracusa) e Pozzallo.
In qualche caso, per la carenza di altri mezzi sono intervenuti persino pescherecci libici, e non si conosce la sorte di coloro che sono stati soccorsi da questi mezzi.
E’ documentato anche, in una intervista rilasciata da Regina Catambrone di Moas a RAI News 24, l’intervento di unità della Guardia Costiera libica, che ieri avrebbero assistito la nave Phoenix di Moas nelle attività si ricerca e salvataggio.
Mentre ieri è stata diffusa la notizia del coinvolgimento di diverse navi commerciali nelle attività di soccorso, nessuna di queste navi ha fatto ingresso nei porti di attracco, e dunque si può presumere che, come già successo in passato, si sia proceduto a trasbordi in alto mare da queste stesse navi commerciali sulle navi di Frontex e di Eunavfor-Med, o della Marina militare italiana. Una prassi ben diversa da quella adottata in passato quando i mezzi di Frontex intervenivano vicino la costa libica.
Per quanto riguarda i porti di sbarco, appare sempre più evidente che le decisioni vengono assunte dal ministero dell’interno sulla base delle prospettive di distribuzione dei migranti sul territorio nazionale, e non più dal Comando centrale della Guardia Costiera italiana, presso il quale sono peraltro distaccati uomini dell’agenzia FRONTEX.
A terra le operazioni di sbarco procedono in un quadro di crescente militarizzazione, sempre nell’ambito dell’Approccio Hotspot, ma con una maggiore chiusura delle “aree attrezzate” nei porti, come a Catania, o in prossimità, come nell’Hotspot di Milo a Trapani, nelle quali avvengono le procedure di identificazione e di selezione dei migranti.
Di certo il trattenimento negli Hotspot chiusi al di là delle 24-48 ore rimane privo di base legale perché il recente decreto Minniti n.13 del 2017, adesso convertito in legge, non prevede una disciplina giuridica di questi luoghi e delle persone che vi vengono trattenute, ma si limita a prevedere che chi si rifiuti di rilasciare le impronte digitali può essere trasferito in uno dei CIE, oggi denominati CPR (Centri per il rimpatrio).
Di fatto coloro che vengono trattenuti negli Hotspot rimangono soggetti alla scarna disciplina prevista per i CPA (Centri di prima accoglienza) dalla legge Puglia del 1995, o per i CPSA (Centri di prima accoglienza e soccorso), come Pozzallo e Lampedusa. Ancora 850 persone venivano sbarcate ieri nell’Hotspot di Lampedusa, che potrebbe contenerne al massimo 500 e che ne vede rinchiusi al momento oltre mille.
Tutti dovrebbero ricordare al riguardo, proprio con riferimento al CPSA di Lampedusa, dove oggi sono trattenute più di 1000 persone, e non si sa per quanto tempo ancora, la condanna della Corte Europea dei diritti dell’Uomo per i trattenimenti prolungati che hanno dato poi luogo al caso Khlaifia contro Italia.
Una sentenza che per quanto concerne i trattenimenti prolungati nel Centro di prima accoglienza e soccorso di Contada Imbriacola a Lampedusa è stata confermata anche in sede di appello, dalla Grand Chambre, ma che non viene ancora considerata dalle autorità italiane che continuano a praticare trattenimenti prolungati ed illegittimi in queste strutture che dovrebbero essere utilizzate soltanto per un transito delle persone non oltre le 72 ore.
Di certo, anche alla luce di quanto dichiarato dal Capo della polizia Gabrielli e dalla nuova dirigente del Dipartimento Libertà civili del Ministero dell’interno, nel corso di recenti audizioni in Parlamento, il sistema di accoglienza italiano non sembra in grado di reggere gli arrivi previsti dalla Libia nei prossimi mesi per effetto del deterioramento della situazione in quel paese, e per la chiusura delle frontiere a nord dell’Italia, con il conseguente intrappolamento nel nostro paese di decine di migliaia di migranti che negli scorsi anni proseguivano il loro viaggio verso nord, non appena sbarcati nel nostro territorio.
Non si può pensare di ridurre gli arrivi in Italia dalla Libia eliminando gli interventi di soccorso delle organizzazioni umanitarie. Si tratta di problemi che non appaiono risolvibili criminalizzando le ONG o impedendo i soccorsi delle navi umanitarie nelle acque a nord della costa libica. Scelte politiche e amministrative, o prassi militari e di polizia, che produrrebbero soltanto altra morte e sofferenza, in mare e nei centri di trattenimento in quel paese. Come è confermato dai segni di tortura e di devastazione psichica che si portano addosso molti dei migranti che riescono a fuggire da quell’inferno.
Occorre riuscire davvero a distribuire i migranti che ancora arriveranno in Italia, in altri paesi europei o dotarli tutti di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, con un documento di viaggio valido per circolare in Europa, come si fece nel 2011 a seguito dell’emergenza Nordafrica, una emergenza che rispetto a quanto sta avvenendo in Libia, ed al prevedibile numero degli arrivi, appare oggi ben poca cosa.
Nel frattempo occorre dotarsi di un sistema di accoglienza nel quale vengano riattivati i controlli di legalità e che sia di consistenza tale da rispondere al numero degli arrivi previsti nei prossimi mesi. Sarà anche necessaria una maggiore velocità nelle procedure per il riconoscimento della protezione umanitaria, non attraverso il taglio dei diritti fondamentali da riconoscere a quanti sbarcano in Italia, come si è fatto con i decreti Minniti, ma con il riconoscimento immediato della protezione umanitaria a quanti provengono oggi dalla Libia, ed a tutti coloro che dopo anni di attesa in Italia hanno ricevuto un diniego basato sulla provenienza nazionale, senza tenere in alcun conto dei percorsi di integrazione già seguiti nel nostro paese.
Sono le uniche soluzioni praticabili, chi vaneggia di dare esecuzioni a 80.000 provvedimenti di allontanamento forzato, tanti se ne potrebbero cumulare nei prossimi mesi, continuerà ad essere smentito dai fatti, anche se si dovessero aprire i centri per il rimpatrio ( i vecchi CIE) che Minniti vorrebbe in ogni regione.
Ma la vera soluzione del problema non sta in Italia, né si può pensare di costruire “muri” sull’acqua, con improbabili blocchi navali, o proseguendo sulla pratica della dissuasione come abbandono sistematico delle imbarcazioni in difficoltà nella fascia tra 12 e 24 miglia dalla costa, dove magari si pensa di allontanare le navi umanitarie e fare intervenire la Guardia Costiera libica.
Occorre trovare una soluzione politica alla crisi libica e favorire l’evacuazione degli immigrati che si trovano in quel paese, se lo scelgono, anche verso il loro paese di origine, Si tratta di persone che, se non si prevedono vie di uscita legale e protetta dalla Libia, ogni giorno di più, saranno sottoposte a violenze ed a sequestri che potranno anche sfociare nella morte, tanto da rendere comunque preferibile il rischio di una traversata in mare.
La soluzione del problema dei migranti in arrivo attraverso la rotta del Mediterraneo centrale è parte della soluzione del conflitto interno in Libia, entrambe le soluzioni sono condizioni imprescindibili per garantire controlli effettivi delle frontiere esterne e maggiore sicurezza dei cittadini europei.
Esattamente l’opposto di quello che, nel quadro del Processo di Khartoum, stanno attualmente producendo le scelte di esternalizzazione dei controlli di frontiera da parte del governo italiano, degli organi decisionali di Bruxelles e delle agenzie europee.