11 febbraio, per Ocalan, per il popolo curdo e per una diversa idea di Europa. Due problemi per un solo volto

Stefano Galieni

La manifestazione nazionale che si terrà a Milano il prossimo 11 febbraio (partenza alle ore 14.00 da P.Ta Venezia/Palestro) indetta a 18 anni dal sequestro mai interrotto del presidente del PKK Abdullah Ocalan, impone oltre che di partecipare, di guardare ad alcuni aspetti fondamentali di quanto va accadendo in quell’area. Della vicenda di Ocalan, della sua storia e di alcuni elementi della vicenda turca e siriana abbiamo recentemente scritto, come trovate in questo link, ma i temi su cui ci vogliamo soffermare ora, non sono affatto scollegati fra di loro ma attengono ad un comune disegno contro cui è urgente e necessario opporsi.

Denominatore comune è comunque il ruolo del “presidente / sultano” Recep Tayyp Erdogan che intende, con le riforme costituzionali approvate il 17 gennaio scorso, restare al governo del paese almeno fino al 2029. Perché questo avvenga resta il solo ostacolo del referendum popolare che dovrà dire si o no in merito alla trasformazione di una repubblica parlamentare in presidenziale. In un clima di caos e di paura è abbastanza facile che Erdogan riesca nel sogno che insegue da quando, nel 2002 è andato al potere.

Democrazia interna e questione curda

I mesi trascorsi dalla fine del fallito golpe del 15 luglio non hanno fatto altro che accentuare la gravità di una situazione interna micidiale. Agli arresti e ai provvedimenti repressivi che si sono accaniti soprattutto contro i sostenitori di uno dei concorrenti di Erdogan, l’imam Fethullah Gülen, figura estremamente complessa nel panorama turco attualmente in esilio in USA, hanno fatto seguito l’aumento delle operazioni militari e di attacco mirato alla popolazione curda, ai suoi rappresentanti legittimamente eletti, a chi legalmente li difende, agli operatori dell’informazione e a quella parte della società turca che si riconosce in uno stato laico e pluriculturale. Ad essere falcidiato, dopo il passaggio del provvedimento che ha tolto l’immunità parlamentare a chi esprime opinioni considerate in quanto tali lesive per la sicurezza dello Stato, è stato innanzitutto l’HDP (il Partito Democratico dei Popoli) che rappresenta anche gran parte della popolazione curda. Un provvedimento che ha portato il partito, il 16 novembre, ad abbandonare l’aula parlamentare e a decidere di boicottarne i lavori. Questo dopo che aumentava di giorno in giorno il numero dei deputati arrestati o sottoposti a misure restrittive della libertà personale, dai due co-presidenti del partito, a personalità di spicco come Leyla Zana.

Alla stessa Dilek Ocalan, nipote del Presidente del PKK e deputata, si stava per impedire la possibilità di partecipare alla manifestazione in Italia. Era stata fermata in aeroporto ed ha dovuto rinviare il volo per partecipare alla conferenza stampa che si è tenuta mercoledì 8 febbraio, in piazza a Milano. E se, secondo l’Associazione  per i Diritti Umani IHD, nel solo 2016 sono deceduti 47 detenuti malati nelle carceri turche innumerevoli sono le persone in carcere soltanto per avere espresso proprie opinioni. Tutti i parlamentari HDP sono sotto accusa con diverse motivazioni, per quelli già in carcere si prospettano pene assurde e prive di qualsiasi appiglio legale. Del resto anche difendere i detenuti politici può costare molto. Ne sa qualcosa Mahmut Sakar, avvocato di Abdullah Ocalan, accusato di aver fatto uscire dalla prigione di Imrali gli scritti del suo assistito e per questo costretto all’esilio. Secondo l’avvocato è intensione del regime turco fare in modo che Ocalan non esca vivo dalla sua prigionia. E anche agli avvocati europei accadono disavventure semplicemente per voler garantire il diritto alla difesa. Già anni fa Arturo Salerni, di Progetto Diritti, venne  cacciato dal paese, recentemente simile destino  è toccato alla legale Barbara Spinelli, costretta a rientrare in Italia.  Rimandiamo ai siti di UIKI e Rete Kurdistan, per una ricostruzione attenta e puntuale, di quanto accade giorno dopo giorno nel silenzio quasi totale dell’UE: villaggi bombardati, il tentativo di vero e proprio genocidio culturale messo in atto da decenni, i conflitti in cui l’esercito turco è impegnato direttamente o indirettamente in Iraq e Siria, in alcuni casi per combattere l’ISIS, più spesso per impedire l’affermazione di una lotta di liberazione curda e delle altre minoranze religiose e culturali e che lanciano ormai una proposta eversiva e inaccettabile per chi vorrebbe centralizzare al massimo i poteri ad Ankara, quella del confederalismo democratico. Il pretesto resta quello del considerare il PKK una organizzazione terroristica (così come è considerata da USA e UE) e non come un fondamentale interlocutore politico che ha dovuto, non per propria scelta, rompere il cessate il fuoco unilaterlamente dichiarato e riprendere a praticare l’autodifesa. Chiunque si avvicini a persone sospettate di essere in contatto con persone legate al PKK è passibile di arresto e di pene pesantissime.

Il ricatto dei profughi

Il secondo aspetto che rende estremamente critica la situazione in quel grande paese è connesso al massiccio esodo dei cittadini siriani e iracheni in fuga dalla guerra. A questi si sono aggiunti afghani e bangladeshi che da anni considerano la Turchia come paese di transito per arrivare in Europa. Negli anni passati ci sono state fasi altalenanti, per molto tempo le persone venivano fermate prima di entrare in Italia o Austria e si fermavano in Grecia, poi, nel 2015, uno degli anni più duri della guerra, la Balkan Route è divenuta un corridoio immenso in cui sono transitati nuclei familiari a piedi o con mezzi  di fortuna per mesi e mesi. La Germania e in parte anche l’Austria avevano derogato al Regolamento Dublino e permesso l’ingresso anche a un numero enorme di persone che avevano attraversato i paesi dell’Est Europa. Soltanto nel 2015 circa un milione di richiedenti asilo erano potuti entrare in Germania, di questi il 40% cittadini siriani. Poi le frontiere si sono chiuse. La rotta balcanica è stata riempita di muri e filo spinato, in alcuni paesi come Ungheria, Serbia, Macedonia e Bulgaria si sono verificati anche gravi fatti per fermare le persone in fuga, e l’Egeo è divenuto un cimitero a cielo aperto come il Mediterraneo Centrale. Isole come Kos e Lesbo sono divenute il sinonimo della ultima via di fuga, la zona di Idomeni, al confine con la Macedonia, simbolo di orrore. L’Europa ha concluso nel marzo 2016 l’accordo con la Turchia: 6 mld di euro in cambio della disponibilità non solo a trattenere i richiedenti asilo ma a riprendere dall’Europa i non aventi diritto dando in cambio persone invece che si ritenevano validi per ottenere lo status di rifugiato. La Turchia potrà in base a detto accordo anche impegnarsi a praticare rimpatri nei paesi di provenienza. Anche su questo tema abbiamo prodotto numeroso materiale terribilmente attuale: un bilancio dopo 10 mesi, (link), le denunce rispetto alle condizioni di chi è oggi profugo in Turchia (oltre 3 mln e mezzo di persone), (link), l’uso politico che viene  fatto da Erdogan dei profughi (link).

Il legame fra questi due aspetti è rappresentato dall’enorme potere che viene oggi dato alla Turchia. Ci sono molti fattori che fanno presagire come l’accordo con l’UE per i profughi sia destinato a fallire così come i tanti inutili  tentativi di esternalizzazione delle frontiere attuate da singoli Stati o dall’intera Unione verso la Libia, la Tunisia, il continente africano. Le persone continueranno a muoversi e aumenteranno solo i costi dei viaggi, le risorse impiegate per respingere e tenere lontani chi arriva, il numero delle vittime di questa guerra silenziosa mai interrotta. La Turchia ad est come la Libia ad ovest possono rappresentare i punti di caduta che rischiano di far naufragare definitivamente l’Unione Europea. Sono entrambe giganti con i piedi d’argilla; da una parte una vera e propria guerra civile mai interrotta con governi contrapposti, dall’altra uno stato di tensione e di fragilità economica insostenibile per la stessa popolazione che oggi sostiene Erdogan, La Libia potrebbe essere interessata da un conflitto con intervento esterno a breve termine, la Turchia non passa giorno che non vede, al proprio interno o presso i propri confini esplodere terrore ed è costretta a costruirsi un proprio nuovo posizionamento nello scacchiere internazionale, giocando contemporaneamente sul tavolo NATO (di cui è membro) e su quello di Vladimir Putin, che solletica le mire di egemonia controllata del “sultano”. Sono entrambi Stati che rischiano l’implosione con popoli che avrebbero solo bisogno di ritrovare pace e garanzie democratiche. L’Unione Europea, continuando a praticare scelte scellerate dettate dalle agende elettorali dei singoli Membri dell’Unione e dalle loro leadersheap dovrà decidere se voler subire poi gli effetti di queste implosioni o riuscire ad evitarle, non con le armi ma con un radicale cambio di rotta nelle decisioni politiche.