di Flore Murard-Yovanovitch, giornalista
*relazione presentata al seminario su “Guerre, Migrazioni e Diritti nel Mediterraneo” promosso da ADIF il 20 novembre scorso in collaborazione con l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) e con il Dipartimento di Scienze della formazione del’Università di Palermo
Siamo oggi testimoni della mostruosa accelerazione del crimine istituzionale contro le persone migranti. L’estensione geografica e la strutturalità dei crimini riguarda ormai tutti i confini europei esternalizzati e alcuni confini interni dell’Unione europea ( Egeo e Balcani). L’accelerazione del crimine è dovuto al concatenarsi letale di varie politiche: di omissioni di soccorso, di respingimenti, di detenzione di massa e di militarizzazione dei confini. A seconda delle aree geografiche e del livello di delega da parte dell’Unione ai suoi mandanti, le violazioni dei diritti delle persone in movimento hanno ovviamente sfaccettature diverse, che sollevano questioni di responsabilità specifiche; eppure, i crimini odierni hanno una caratteristica unitaria, quella di respingere e detenere, di sacrificare la vita delle persone migranti in nome della “difesa dei confini”. Tutte politiche per altro, proseguite e “legittimate” da vari “Piani” europei adottati dal Consiglio e dalla Commissione nel corso degli anni, soprattutto a partire dal 2015 e da ultimo nel “Patto europeo su migrazioni e asilo”.
In Italia, si tace sulla spaventosa macchina, ormai oliata ed “efficiente”, delle intercettazioni in mare e respingimenti delegati alla sedicente Guardia costiera libica, sotto il diretto coordinamento navale e areo da parte degli Stati europei. Un bilancio a cui si dà in generale poca importanza, sono icirca 55.000 civili, tra cui donne e bambini forzatamente respinti in Libia (Oim), dalla firma del Memorandum con la Libia nel 2017. Le cifre ci svelano che la macchina del crimine, porta alla tortura “per delega” di migliaia di esseri umani.
Oggi, si deve quindi parlare del Mediterraneo come di uno spazio di eliminazione fisica pianificata dei migranti che non si vogliono fare arrivare in Europa. Un mare nostrum dove si cristallizza la micidiale combinazione di varie scelte europee: mancata assistenza e risposta alle chiamate di soccorso, ritardi nei soccorsi; respingimenti coordinati da parte di navi private, fermo amministrativo delle navi umanitarie e altre ingenti cooperazioni letali a base di motovedette, training e droni. Politiche che in 20 anni hanno prodotto più di 20.000 morti. Ad oggi non esiste un giorno, in cui non giungano notizie di naufragi a catena e anche naufragi invisibili o di bambini e donne, a volte incinte, che muoiono di stenti sotto la vigilanza degli assetti arei e navali europei (caso di Pasqua 2020).
Al riguardo, la dichiarazione iperbolica, del ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, al Forum Ambrosetti a Cernobbio nel settembre scorso va sottolineata: “Una delle accuse che ci rivolgono è che non abbiamo bloccato gli sbarchi autonomi dei migranti. Ma non possiamo bloccare i barchini affondandoli”. Frase di una gravità inaudita che svela, se ce ne fosse bisogno, il pensiero latente – eliminazionista – alla radice delle politiche migratorie che caratterizzano le scelte dei governi europei: non fare arrivare nessuno ad ogni costo.
Il Mediterraneo è anche uno spazio che si vorrebbe sottrare a qualsiasi giurisdizione effettiva. È noto che il passaggio dei “push-backs” cioè i respingimenti – che coinvolgono la marina militare italiana e che sono stati dichiarate illegali dalla CEDU (Corte Europea dei Diritti Umani) nella sentenza Hirsi Jamaa – l’Italia delega la stessa attività alle milizie libiche, costituiscono un mero tentativo di evitare la responsabilità secondo le leggi sui diritti umani. Mentre è noto che i pull-backs delegati alle milizie libiche sono in realtà effettuati sotto il diretto coordinamento italiano e europeo, navale e aero, che però si vuole nascondere ad ogni costo.
In realtà, vi è un intero esercizio di esternalizzazione delle frontiere, dalla Turchia ai paesi terzi africani. Si tratta di un tentativo di eludere la giurisdizione, creando anche un vero e proprio “buco nero dell’informazione” (Sergio Scandura) – frutto di una censura istituzionale che mira sistematicamente a nascondere le prove. Per realizzare queste politiche occorre colpire tutte le organizzazioni non governative che continuano a prestare assistenza alle persone che tentano di attraversare il Mediterraneo. Quando non bastano i decreti amministrativi si continua a ricorrere alle denunce ed agli arresti, per eliminare testimoni scomodi che potrebbero denunciare le responsabilità istituzionali. Ormai, quindi, solo i corpi arenati sulle coste libiche e tunisine, e le rare voci delle vittime, raccolte dall’incessante e cruciale monitoraggio civile, che ci permettono di venire a conoscenza dei fatti e dell’entità del crimine istituzionale, sistematico e reiterato.
Le responsabilità individuali, anche se occultate e non ritenute rilevanti nei giudizi di taglio penalistico a livello nazionale, possono tuttavia incardinare valutazioni di condanna davanti alle giurisdizioni internazionali, o nell’ambito dei lavori di un tribunale di opinione come il Tribunale Permanente dei Popoli (TPP). Nonostante la sentenza di Palermo del TPP avesse qualificato i fatti emersi già allora nell’atto di accusa, come “crimini di sistema”, ci sono stati ampi accertamenti successivi a quella condanna, che possono comportare un’ulteriore qualificazione delle singole decisioni politiche che hanno violato in modo sistematico diritti fondamentali delle persone migranti come “crimini contro l’umanità”.
Nella loro comunicazione alla Corte Penale Internazionale[2], Avv. Omer Shatz e Juan Branco hanno infatti dimostrato che la politica migratoria dell’UE è fondata sulla deterrenza e che i migranti annegati sono un elemento intenzionale di questa politica. L’esposto affermava che i leader europei dovrebbero essere chiamati a rispondere sia delle morti per annegamento, sia dei gravissimi reati subiti dalla popolazione di civili stranieri respinti in Libia. Tali condotte dovrebbero essere qualificate come crimini contro l’umanità ai sensi dell’art. 5 dello Statuto di Roma, in ragione dell’estensione e della sistematicità del disegno criminoso del quale costituiscono attuazione (infra, par. 4). La procuratrice della Corte Penale Internazionale non ha finora risposto alla richiesta di indagine[1].
Di fronte al silenzio e alla relativa impasse della giustizia internazionale, dobbiamo oggi constatare che essa non riesce o non vuole sanzionare gli autori dei crimini contro i migranti. Urgente, quindi, tentare di qualificare questo nuovo crimine contro il popolo migrante, dargli una definizione, che ne permetta la sanzione, evidenziando la sua strutturalità, la sua sistematicità, e infine il nodo cruciale della sua intenzionalità, nonché della sua diffusa accettazione popolare.Consenso che viene utilizzato anche per legittimare violazioni he sarebbero già rilevanti sotto il profilo della responsabilità penale individuale. Nelle persone che sono costrette a varcare una frontiera e in assenza di canali legali di ingresso vengono respinte con mezzi che non rispettano i diritti fondamentali sanciti dalle Convenzioni internazionali, si può infatti configurare una particolare categoria di “popolo migrante” titolare di diritti che vengono sistematicamente lesi, incluso il diritto alla vita, dalle autorità di paesi che cercano soltanto di impedire l’attraversamento della frontiera.
Su tutti i confini esternalizzati ma anche interni dell’Ue, come nel clamoroso caso della rotta Balcanica, vi sono evidenti prove di orribili e inutili sofferenze perpetrate su persone vulnerabili in movimento, attraverso la detenzione indiscriminata o espulsioni collettive (facilitati dall’accordo Ue con la Turchia), in cui i potenziali richiedenti asilo sperimentano forme sistematiche di trattamenti inumani e degradanti. Sulle frontiere balcaniche terrestre avvengono comprovate deportazioni, violenze fisiche e aggressioni dirette, cani aizzati sulle persone migranti, persone spogliate da averi e vestiti in pieno inverno, picchiate e fatti camminare forzatamente nella neve, tortura al gelo, e prove sempre più numerose di push-backs illegali e violenti nell’Egeo: il governo greco ha segretamente espulso centinaia di migranti che cercano di raggiungere le sue coste.
La documentazione raccolta dagli attivisti e dalle vittime delle frontiere, solleva infine la questione dei trattamenti inumani e degradanti, praticati per effetto degli accordi bilaterali con paesi terzi, come mezzo per controllare i flussi migratori. Per dirla chiaramente, usare anche la tortura come mezzo di deterrenza della mobilità delle persone migranti che vorrebbero arrivare in Europa. Nel maggio 2020, il CSDM ( Centro svizzero per la difesa di diritti dei migranti) ha persino presentato una richiesta formale al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura (Uncat) per avviare un’indagine formale ai sensi dell’articolo 20 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti concernenti la condotta dell’Italia nel Mediterraneo centrale che sta portando alla tortura di massa, lo stupro e la riduzione in schiavitù di migliaia di rifugiati e migranti ricondotti in Libia. Nella loro richiesta sostengono che la strategia italiana di esternalizzazione dei respingimenti alla Guardia Costiera Libica viola gli impegni dell’Italia ai sensi della Convenzione contro la tortura.
Le politiche e le prassi di eliminazione dei migranti, traversali e ormai strutturali nel mondo, svelano “il crollo culturale della civiltà giuridica occidentale” come scrive Luigi Ferrajoli[2], di una civiltà che respinge e tortura impunemente l’altro e lo fa vivere in limbo del non-diritto, degradando la persona migrante a non-persona.
Oggi, le prove sempre più schiaccianti di un “ongoing genocide” dell’Ue contro le persone migranti, in piena impunità dei governi autori dei crimini, come aveva avvertito il Tribunale permanente dei Popoli già nel marzo 2020[3]. Se non ci sarà una svolta autentica, sul piano politico, sociale, e culturale, implicante una presa di coscienza collettiva, se questo sistema di crimini istituzionali rimarrà impunito, è probabile che si arriverà ad un annientamento totale della persona in movimento e della sua vita. Una china pericolosa verso la quale ci stiamo orientando a passo accelerato in un vero e proprio passaggio storico.
Solo la società civile europea potrebbe oggi arrestare la reiterazione di crimini contro l’umanità e chiederne la sanzione, se è capace di organizzare un vasto movimento di coscienza civile per imporre al diritto, a livello culturale, un cambio di paradigma: per inventare nuove categorie e per tutelare urgentemente il popolo migrante in cammino.
[1] Flore Murard-Yovanovitch, Dall’Europa alla Libia come si esternalizza il crimine, Left dic 2019, https://left.it/2020/01/05/dalleuropa-alla-libia-come-si-esternalizza-un-crimine/
[2] Luigi Ferrajoli, Le politiche contro i migranti tra disumanità e illegalità, in “Ius migrandi, Trent’anni di politiche e legislazione sull’immigrazione in Italia”, numero 20 anni della rivista ASGI «Diritto, Immigrazione e Cittadinanza», settembre 2020
[3] I crimini contro l’umanità lungo le rotte dell’Egeo e dei Balcani. Le responsabilità della Turchia, Grecia e Unione Europea, Dichiarazione del Tribunale Permanente dei Popoli, marzo 2020, http://permanentpeoplestribunal.org/i-crimini-contro-lumanita-lungo-le-rotte-dellegeo-e-dei-balcani-le-responsabilita-della-turchia-grecia-e-unione-europea/