Guerra ai diritti umani, tra sovranità nazionale e Unione Europea

di Yasha Maccanico. Ricercatore, Statewatch, Londra

*relazione presentata al seminario su “Guerre, Migrazioni e Diritti nel Mediterraneo” promosso da ADIF il 20 novembre scorso in collaborazione con l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) e con il Dipartimento di Scienze della formazione del’Università di Palermo.

Un problema strutturale nel rapporto tra diritti e politiche d’immigrazione riguarda l’uso dei meccanismi comunitari da parte degli stati membri per accrescere i loro poteri nei comparti sicurezza e immigrazione, insieme alla spinta comunitaria tendente a imporre l’efficace attuazione degli indirizzi comunitari a livello statale, anche a costo di palesi irregolarità. Le parti lese, oltre alle persone prese di mira dalle politiche o da iniziative puntuali, sono le regole e i quadri normativi interni, comunitari e internazionali, a partire dalla Costituzione (e i diritti in essa contenuti), la CEDU, la CDFUE (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e la DUDU (Dichiarazione Universale sui diritti dell’Uomo). Come mostrano le dinamiche sui soccorsi in mare e la detenzione in Libia degli ultimi cinque anni, non c’è principio legale che tenga di fronte alla deriva anti-migratoria, fino al punto di lasciare affogare le persone, omissioni e ostruzioni dei soccorsi e, cosa altrettanto grave, il finanziamento di campi di detenzione arbitraria e maltrattamento nei paesi terzi.

Queste dinamiche generano storture strutturali legate ai problemi intrinsechi delle politiche migratorie, le cui fasi di gestazione prima informale e poi intergovernativa portarono a un approccio sbilanciato,eccessivamente ambizioso. Dopotutto, si trattava della formazione di un nuovo stato sovranazionale e i modelli di sviluppo dei vari comparti (soprattutto quello di giustizia e affari interni, rimasto intergovernativo più a lungo sotto il terzo pilastro) non venivano dotati dei necessari contrappesi dovuto a una volontà di sviluppo espansivo, un tassello centrale di questo “progetto di stato” (“state project”, Jessop).

Lo sforzo per sviluppare il comparto sicurezza (con la lotta contro l’immigrazione, illegalizzata nel suo nucleo centrale) alimenta le industrie della sicurezza e i mezzi tecnologici di controllo, e ambisce a creare agenzie comunitarie votate a acquisire maggiori competenze, potere e funzioni con il passare degli anni. Rappresenta una caratteristica del modo in cui l’UE si è scostata da alcuni suoi valori e principi. Si è lasciato che questo settore si sviluppasse in modo autonomo senza considerare la possibilità di eccessi o il bisogno di contrappesi, identificando“più sicurezza” come una cosa intrinsecamente buona, idea poi estesa a “meno immigrazione” anche in assenza di riscontri razionali o empirici.

Uscire da una dinamica che non aiuta a capire la situazione significa disinnescare il conflitto tra stati sovrani e le istituzioni europee, visto che sono entrambi responsabili di gravi storture. La chiave per questo lavoro di decostruzione parte dalla teoria dello stato e del potere statale in un contesto di “interregno” (Gramsci), ovvero quando l’ordine vecchio resiste a scomparire(morire) e quello nuovo fatica a imporsi (nascere). In tali periodi si verificano gli “effetti morbosi più svariati” e quelli attuali nel Mediterraneo ne sono una palese dimostrazione in ambito marittimo e di frontiere tra continenti i cui rapporti di forza non sono equilibrati.

La possibilità di smontare una lettura fallace che si è imposta risiede nel fatto che sia gli stati membri che la stessa UE operano per liberare le autorità statali e sovrastatali dai limiti a cosa è permesso fare (alle persone) dalle cornici normative costituzionali, internazionali e comunitarie, dei diritti umani e il diritto del mare, dei diritti dei rifugiati e richiedenti asilo. A ciò, viste le dinamiche odierne, si possono aggiungere senza timore di smentita il diritto alla vita, la proibizione della tortura e dei refoulement per le persone non europee, e delle azioni ai margini del diritto verso coloro che salvano le vite in mare. Tante pratiche state sviluppate in modo coerente (con l’impostazione di queste politiche), consapevole ed espansivo, per almeno 25 anni, assimilabili a un lungo “interregno”.

Dal 2005 Frontex promuove la discriminazione istituzionale contro i migranti la cui mobilità non è autorizzata dagli stati e si occupa (attraverso la sua attività di ricerca e analisi dei rischi) di produrre una sequenza di pretesti legati alle politiche d’immigrazione e di controllo delle frontiere per stabilire che non godono di diritti che dovrebbero valere per tutti. Tecnicamente, non è perseguibile perché la sua attività è strategica, analitica e improntata all’elaborazione di politiche per aiutare gli stati membri a rendere efficaci i controlli delle frontiere esterne e la gestione dell’immigrazione, anche se promuove violazioni di diritti da parte degli stessi e di vari paesi terzi.

Gli stati membri e quelli terzi sono responsabili delle violazioni che commettono ma possono appellarsi alle “Raccomandazioni” e priorità stabilite in sede europea (da Commissione, Frontex e Consiglio) per giustificarsi o trarne una difesa sostenibile. Anche per quanto riguarda le attività in mare, Frontex e la Commissione non hanno responsabilità,perché operano nell’ambito degli indirizzi strategici delle politiche e attività, mentre sono gli stati che agiscono concretamente. Quindi, nel contesto di pratiche che comportano violazioni di diritti e del diritto, gli stati membri che le attuano o che sono a capo delle missioni europee sono responsabili di tali malefatte.   

La Commissione sarebbe il guardiano dei trattati europei ma, almeno dal 2014 e con l’Agenda Europea sull’immigrazione del 2015, ha scelto di ignorare le violazioni della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE da parte degli stati per fini anti-migratori. In realtà, per quanto riguarda i paesi di primo approdo, nell’ambito degli “Hotspot” ha reso condizionali gli aiuti europei presentati come uno sforzo di solidarietà alla subordinazione sistematica dei diritti ai fini strategici delle politiche di immigrazione. Attraverso il collegamento con i fondi per la gestione degli arrivi e per l’accoglienza, le raccomandazioni ai governi da parte delle istituzioni europee attraverso una sequenza di “progress reports” dai contenuti allarmanti, acquisivano peso. L’intento di spingere alcuni paesi a violare le loro costituzioni, il diritto comunitario e internazionale è stato palese, nonostante il tentativo, in seguito, di contrapporre i governi di destra ai quali era stato permesso di fare il loro peggio a un approccio comunitario presentato come marginalmente più rispettoso delle regole e dei diritti.

La chiave di lettura che propongo è che al di là delle pretese di controllo dell’immigrazione, queste politiche sono state usate per accrescere i poteri statali e creare delle dinamiche di esclusione e abusi strutturali, in una prima fase, prima di essere trasformate nel mezzo per smontare le cornici normative con l’Agenda Europea sull’Immigrazione. A livello europeo, nella gestazione delle politiche di giustizia e affari interni degli anni 80 e 90 e nella formalizzazione dell’Area Schengen di Libertà, Sicurezza e Giustizia al Consiglio Europeo di Tampere del 1999, questo campo è stato sviluppato come un mero problema di tipo tecnico e operativo, non di indirizzo politico.

Con la creazione di Frontex si è depoliticizzata una materia eminentemente politica, slegando la valutazione dai fini strategici perseguiti e promuovendo il rapido sviluppo del comparto sicurezza con le ingenti spese che comporta. La valutazione, come sancito nel Programma dell’Aia (2005, seconda fase dell’AFSJ), doveva occuparsi dell’efficace attuazione del modello senza metterne in dubbio i propositi. Tale impostazione poggiava sull’emergenza antiterrorismo collegata in modo strutturale alle politiche d’immigrazione esternalizzate nei paesi terzi dai quali passavano i migranti, la cosiddetta “proiezione esterna delle politiche comunitarie di giustizia e affari interni”. L’obiettivo di tali valutazioni doveva portare a perfezionare il modello già impostato senza affrontarne gli evidenti problemi di base e i danni e abusi presuntivamente“imprevisti” che comporta da più di due decenni.