di Fulvio Vassallo Paleologo
1. il blocco della Open Arms davanti Lampedusa tra il 14 ed il 20 agosto 2019
Con il recente voto del Senato sul caso Gregoretti sembra che sia stata sconfitta la tesi della insindacabilità delle scelte “politiche” di Salvini relative alla cd. “chiusura dei porti”. La Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, su richiesta del Tribunale dei ministri di Palermo, si dovrà pronunciare adesso, entro il 3 marzo, anche sul caso Open Arms, la nave della omonima ONG,spagnola che tra il 14 ed il 20 agosto dello scorso anno era stata bloccata all’ancora davanti al porto dell’isola di Lampedusa, prima che intervenisse il sequestro da parte della Procura di Agrigento, che finalmente permetteva lo sbarco a terra dei naufraghi, alcuni dei quali, in preda alla disperazione, si erano già lanciati in mare per raggiungere a nuoto la costa. Il capo di imputazione formulato a carico del senatore Salvini è ancora una volta per sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio per aver trattenuto indebitamente a bordo della Open Arms ormeggiata a poche centinaia di metri da Lampedusa le 164 persone soccorse in tre distinti eventi SAR.
Le difese articolate dal senatore Salvini davanti alla giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato ricalcano gli slogan prpagandistici lanciati dal momento del suo insediamento al Viminale e non corrispondono nè alla dinamica dei fatti accertati dai giudici, nè alle contestazioni tecnico-giuridiche puntualmente formulate dal Tribunale dei ministri di Palermo.
L’ex ministro dell’interno afferma infatti che “l’indicazione del Pos (Place of Safety, approdo sicuro) spettava alla Spagna o a Malta (e non certo all’Italia) e il comandante della nave ha deliberatamente rifiutato il Pos indicato successivamente da Madrid, perdendo tempo prezioso al solo scopo di far sbarcare gli immigrati in Sicilia come già aveva fatto nel marzo 2018 ricavandone un processo per violenza privata e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” . Una ricostruzione dei fatti che non va oltre la mera propaganda. Come il tema della competenza dello stato di bandiera, uno dei cavalli di battaglia del ministro, e della sua alleata Giorgia Meloni, in ogni ipotesi di soccorso operato dalle ONG, prima e dopo l’adozione del decreto sicurezza bis. Per Salvini, “l’Italia non aveva alcuna competenza e alcun obbligo con riferimento a tutti i salvataggi effettuati dalla nave spagnola Open Arms in quanto avvenuti del tutto al di fuori di aree di sua pertinenza”, infatti spiega l’ex ministro dell’interno, “è sicuramente lo Stato di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio che deve indicare il Pos nei casi di operazioni effettuate in autonomia da navi ong”.
La difesa del senatore Salvini si aggrappa quasi esclusivamente alla competenza (asseritamente) primaria dello stato di bandiera della nave, ma non fornisce alcuna base legale per il reiterato rifiuto di indicare un porto di sbarco sicuro e per la conseguente prolungata privazione della libertà personale dei naufraghi che si trovavano a bordo della Open Arms, bloccata all’ormeggio davanti al porto di Lampedusa, nei giorni dal 14 al 20 agosto, per i quali i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo hanno ipotizzato i reati di sequestro di persona e di rifiuto ingiustificato di atti di ufficio. Converrà partire dunque da una ricostruzione più attendibile, perchè basata su documenti e testimonianze raccolti dai giudici, dei giorni che seguirono i soccorsi operati dalla Open Arms in acque internazionali all’inizio di agosto dello scorso anno.
Già il primo agosto 2019, giorno nel quale veniva effettuato il primo soccorso di decine di naufraghi nella cosiddetta zona SAR (Ricerca e salvataggio) “ libica”, il Ministro dell’Interno pro-tempore, di concerto con i Ministri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, disponeva nei confronti della Open Arms il “divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale nazionale”, con decreto emesso ai sensi dell’art. 11 comma 1-ter D. lgs. N. 286/98, come modificato dal D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019. Successivamente la Open Arms operava altri due interventi di soccorso, uno in acque internazionali rientranti nella cd. zona SAR “libica”, l’altro nella zona SAR maltese salvando la vita di decine di persone tra cui donne in stato di gravidanza e minori non accompagnati. Tutte le competenti autorità venivano informate dei soccorsi. I libici non rispondevano, le autorità spagnole invitavano il comandante a rivolgersi alla centrale operativa della Guardia costiera maltese (MRCC Malta) che però rifiutava di assumere la responsabilità dei primi due eventi occorsi al di fuori della zona SAR di propria competenza, salvo ad offrire tardivamente la propria disponibilità per i naufraghi soccorsi nel terzo intervento, quando la Open Arms si trovava vicino l’’isola di Lampedusa, in condizioni meteo tanto critiche che anche la guardia costiera italiana, ne escludeva la possibilità di allontanamento verso Malta.
Venerdì 9 agosto veniva presentato dal team legale di Open Arms, presso le Procure di Roma e di Agrigento, un esposto-denuncia in cui si chiedeva “di verificare se nella situazione corrente, in cui si sta determinando una prolungata presenza a bordo delle 121 persone salvate – 32 minori, 28 dei quali hanno dichiarato di essere non accompagnati” -, non si presenti una fattispecie di reato. E, nel caso, di individuarne i responsabili e di “adottare gli opportuni provvedimenti” affinché cessi la situazione di privazione della libertà in cui quelle stesse persone si trovano.
In una nota del Tribunale dei minori di Palermo del 9 agosto 2019 questo Tribunale faceva sapere “che “come è ben noto le Convenzioni Internazionali a cui l’Italia aderisce e soprattutto l’art. 19 co. 1 Bis D Lvo 286/98 come integrato dall’articolo 3 della legge 47/17, impongono il divieto di respingimento alla frontiera o di espulsione dei minori stranieri non accompagnati, riconoscendo loro, invece il diritto ad essere accolti in strutture idonee, nonché di aver nominato un tutore e di ottenere il permesso di soggiorno.”. Lo stesso Tribunale proseguiva affermando che “Evidentemente tutti questi diritti vengono elusi a causa della permanenza dei suddetti a bordo della nave Open Arms, nella condizione di disagio fisico e psichico descritta dal medico di bordo che ha riferito della presenza di minori con ustioni, difficoltà di deambulazione, con traumi psichici gravissimi in conseguenza alle terribili violenze subite presso i campi di detenzione libici.”
Durante il periodo, nel corso del quale stazionava in acque internazionali a sud-ovest di Lampedusa in attesa di assegnazione di un POS, ed anche successivamente, in diverse occasioni la Open Arms richiedeva (congiuntamente a RCC Malta ed a I.M.R.C.C.) di effettuare delle evacuazioni mediche di migranti in precarie condizioni di salute(MEDEVAC), che alla fine venivano eseguite. Dopo l’ennesimo rifiuto delle autorità maltesi che impedivano persino l’avvicinamento della Open Arms all’isola di Malta per cercare ridosso a fronte di un progressivo peggioramento delle condizioni meteo, il 14 agosto il comandante della nave faceva rotta verso l’isola di Lampedusa.
Nello stesso giorno, il 14 agosto, il Presidente del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (terza sezione) sospendeva l’efficacia del divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale nazionale, “al fine di consentire l’ingresso della Nave Open Arms in acque territoriali italiane (e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli)”.
Si deve richiamare l’importanza della decisione del Tribunale amministrativo del Lazio che sospendeva gli effetti del divieto di ingresso nelle acque territoriali adottato nei connfronti della Open Arms il primo agosto 2019. “Alla luce della documentazione prodotta (medical report e relazione psicologica” e “della prospettata situazione di eccezionale gravità ed urgenza” il TAR del Lazio, con un decreto cautelare monocratico ha giustificato “la concessione della richiesta” per “consentire l’ingresso della nave Open Arms in acque territoriali italiane e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli”. Osservava il TAR Lazio, “considerato, quanto al fumus, che il ricorso in esame non appare del tutto sfornito di fondamento giuridico in relazione al dedotto vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso, nella misura in cui la stessa amministrazione intimata riconosce, nelle premesse del provvedimento impugnato, che il natante soccorso da Open Arms in area SAR libica – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in “distress”, cioè in situazione di evidente difficoltà (per cui appare, altresì, contraddittoria la conseguente valutazione effettuata nel medesimo provvedimento, dell’esistenza, nella specie, della peculiare ipotesi di “passaggio non inoffensivo” di cui all’art. 19, comma 1 [recte, comma 2], lett. g), della legge n. 689/1994)”
Il TAR Lazio riteneva pertanto,” quanto al periculum in mora, che sicuramente sussiste, alla luce della documentazione prodotta (medical report, relazione psicologica, dichiarazione capo missione), la prospettata situazione di eccezionale gravità ed urgenza, tale da giustificare la concessione – nelle more della trattazione dell’istanza cautelare nei modi ordinari – della richiesta tutela cautelare monocratica, al fine di consentire l’ingresso della nave Open Arms in acque territoriali italiane (e quindi di prestare l’immediata assistenza alle persone soccorse maggiormente bisognevoli, come del resto sembra sia già avvenuto per i casi più critici”.
Dopo la decisione del giudice amministrativo, l’ex ministro dell’interno, il 14 agosto 2019, reiterava il divieto di ingresso nelle acque territoriali, che però non veniva sottoscritto come atto di concerto da parte di altri ministri, annunciando ricorso urgente al Consiglio di Stato (del quale non si hanno altre notizie) sostenendo che “Open Arms si è trattenuta in acque Sar libiche e maltesi, ha anticipato altre operazioni di soccorso e ha fatto sistematica raccolta di persone con l’obiettivo politico di portarle in Italia”.
Come ricorda il Tribunale dei ministri di Palermo, invece,” Open Arms aveva inviato (alle autorità maltesi, n.d.a.) in data 13.8.2019 una richiesta urgente di indicazione di un riparo dal mal tempo, alla luce delle avverse condizioni meteo previste per le ore successive, che avrebbero esposto le persone a bordo, tutte ricoverate sul ponte della nave, a seri pericoli (si pensi che a bordo vi era anche un bambino di soli 9 mesi); RCC Malta, con messaggio delle ore 21,17, rispose a tale richiesta con un ennesimo rifiuto, limitandosi ad indicare la sussistenza di “migliori opzioni disponibili e più vicine”, ossia Lampedusa e la Tunisia”.
Il nuovo decreto adottato dall’ex ministro dell’interno il 14 agosto, dopo la pronuncia di sospensiva da parte del TAR Lazio sul precedente decreto che vietava l’ingresso nelle acque territoriali, non otteneva il “concerto” del ministro della difesa e del ministro delle infrastrutture. Come riferiva l’ANSA il 15 agosto, il ministro della difesa Trenta affermava: “Non firmo il nuovo divieto di Salvini in nome dell’umanità”. “Non si può infatti ritenere che siano rinvenibili nuove cogenti motivazioni di carattere generale ovvero di ordine e sicurezza pubblica tali da superare gli elementi di diritto e di fatto nonchè le ragioni di necessità e urgenza posti alla base della misura cautelare disposta dall’autorità giudiziaria che anzi si sono verosimilmente aggravati. La mancata adesione alla decisione del giudice amministrativo – continua Elisabetta Trenta – potrebbe finanche configurare la violazione di norme penali”. E ancora: “Ho preso questa decisione motivata da solide ragioni legali ascoltando la mia coscienza. Non dobbiamo mai dimenticare che dietro le polemiche di questi giorni ci sono bambini e ragazzi che hanno sofferto violenze e abusi di ogni tipo. La politica non può mai perdere l’umanità” . Senza la firma di “concerto”degli altri due ministri competenti, Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli, che la rifiutavano, il secondo divieto di ingresso nelle acque territoriali adottato da Salvini ai sensi del decreto sicurezza bis non aveva alcuna validità.
Il ministro dei Trasporti Toninelli motivava così la sua decisione di non firmare il nuovo divieto: “Emettere un nuovo decreto identico per farselo bocciare di nuovo dal Tar dopo 5 minuti – spiega – esporrebbe la parte seria del governo, che non è quella che ha tradito il contratto, al ridicolo. Questo non significa che dobbiamo accogliere tutti i migranti di Open Arms. La nostra linea non cambia: mettiamo in sicurezza la nave come ci chiedono i giudici, poi l’Europa e in primis la Spagna inizino ad assumersi le proprie responsabilità facendosi carico di accogliere 116 migranti. Noi come Italia interveniamo per tutelare la salute dei 31 minori a bordo”.
La circostanza che diverse persone soccorse dalla Open Arms, come in altri casi precedenti, siano state evacuate con procedura d’urgenza MEDEVAC , (cinque evacuazioni MEDEVAC in due settimane per oltre venti persone,verso Lampedusa e La Valletta) non esclude, ma anzi costituisce conferma delle condizioni degradanti nelle quali per effetto del divieto di ingresso e dunque dello sbarco in un porto sicuro, sono state tenute per giorni naufraghi soccorsi in mare dopo essere riusciti a fuggire dalla Libia, dunque in condizioni fisiche e psicologiche già particolarmente difficili. Non si può ammettere che le persone soccorse in mare, e tra queste minori e donne già vittime di abusi e in stato di gravidanza, siano tenute per quindici giorni in queste condizioni perché gli stati non concordano sui criteri di indicazione dei porti sicuri di sbarco o sulle competenze nelle zone SAR ( di ricerca e salvataggio) che loro competono.
Nella notte tra il 14 ed il 15 agosto la nave Open Arms ,con la scorta di due mezzi della Marina italiana, faceva ingresso nelle acque territoriali ormeggiandosi di fronte al porto di Lampedusa, come convenuto con le autorità marittime locali. Dopo una successiva richiesta pervenuta da Open Arms , ormai a ridosso di Lampedusa, che sollecitava la indicazione di un porto di sbarco sicuro, il 15 agosto lo stesso ministro dell’interno sottoscriveva una nota di risposta ad una precedente missiva del 14.8.2019 del Presidente del Consiglio Conte, con cui lo si era invitato “ad adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori presenti sull’imbarcazione”. Salvini escludeva che i migranti a bordo della nave fossero sotto la giurisdizione italiana , sostenendo invece che dovevano ritenersi soggetti alla giurisdizione dello stato di bandiera, affermando anche di avere dato mandato di impugnare il decreto di sospensiva del Tar Lazio, impugnativa di cui però non risulta alcuna traccia. Nello stesso giorno, in risposta al Presidente del Tribunale per i Minori di Palermo e al Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale, con riferimento ai minori non accompagnati trasportati a bordo della Open Arms: ribadiva la giurisdizione spagnola in materia, e reiterava il suo rifiuto di compiere gli atti di ufficio richiesti per la indicazione di un porto di sbarco sicuro.
Il 16 agosto il Presidente del Consiglio rispondeva ad una ennesima nota del ministro dell’interno, sollecitando lo sbarco immediato dei minori presenti a bordo della Open Arms, che ormai si trovava in acque territoriali italiane e prospettando la possibilità di configurare l’eventuale rifiuto come un’ipotesi di illegittimo respingimento, comunicando anche la disponibilità già offerta da altri paesi europei di accogliere parte dei dei migranti della Open Arms, “indipendentemente dalla loro età”. Solo a quel punto l’ex ministro dell’interno autorizzava lo sbarco dei minori non accompagnati che soltanto il 18 agosto su decisione della Prefettura di Agrigento e dietro comunicazione dell’Ufficio di Gabinetto del Ministro dell’Interno, venivano fatti sbarcare a Lampedusa. Nella stessa giornata cinque naufraghi si gettavano in mare nel tentativo di raggiungere a nuoto la costa di Lampedusa, ed erano stati recuperati da membri dell’equipaggio della stessa Open Arms. Una successiva ispezione a bordo del Procuratore della Repubblica di Agrigento accertava “condizioni emozionali estreme in un clima di altissima espressione” ove “il vissuto di morte collegato a un eventuale rimpatrio e la percezione di vita affrontando a nuoto lo specchio di mare” che li separava dall’Isola di Lampedusa “comportavano una marginalizzazione del rischio individuale e collettivo che si inseriva in un contesto di scarso controllo critico – cognitivo, con conseguente pericolo di agiti comportamentali inappropriati (mettere a repentaglio l’incolumità fisica e la vita medesima) senza possibilità, da parte di terzi, di contenere dette condotte né di arginare un ulteriore sviluppo di gravi situazioni psicopatologiche”.
2. Le contestazioni del Tribunale dei ministri di Palermo
Secondo i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo, la condotta riferibile personalmente al ministro Salvini consistente nella mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro (POS) alla Open Arms, nel peiodo intercorrente tra il 14 ed il 20 agosto 2019 sarebbe risultata “ illegittima per la violazione delle convenzioni internazionali e dei principi che regolano il soccorso in mare, e, più in generale, la tutela della vita umana, universalmente riconosciuti come ius cogens”. Gli stessi giudici rilevano invece come, “durante il primo segmento della vicenda, protrattosi sino al 14.8.2019, si delineasse già un obbligo esclusivo per lo Stato italiano di indicare un POS, quanto meno in relazione al concomitante obbligo gravante, in virtù delle medesime norme, sulle autorità maltesi. In effetti, in capo a queste si profilavaanche il più stringente criterio di collegamento della titolarità della zona in cui era avvenuto almeno il secondo soccorso, circostanza questa strenuamente contestata da Malta e, specularmente, sostenuta dal comandante della Open Arms; alla luce di questo criterio, le richieste di sbarco e di ridosso immediatamente successive vennero, infatti, indirizzate dal comandante della Open Arms esclusivamente a Malta”.
A seguito dei reiterati rifiuti frapposti dalle autorità maltesi, che si dichiaravano tardivamente disponibili soltanto ad accettare lo sbarco dei 39 naufraghi soccorsi dalla Open Arms in zona SAR di competenza maltese nel terzo evento di salvataggio, secondo i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo, “si ritiene che l’obbligo di indicare un POS, a partire dal 14.8.2019, si sia venuto definitivamente a concentrare in capo alle autorità italiane“.
In questa occasione non sarà facile per l’ex ministro dell’interno chiamare in causa altri ministri o lo stesso Presidente del consiglio. Come si è visto, infatti, il premier Conte, infatti, aveva scritto a Salvini per sollecitare lo sbarco immediato dei minori. Il giorno di Ferragosto Salvini aveva risposto che la responsabilità non era dell’Italia ma dello Stato di bandiera, la Spagna, “anche con riferimento alla tutela dei loro diritti umani”, arrivando a negare che a bordo della nave si trovassero minori non accompagnati. Per il Viminale, infatti, non vi erano evidenze per escludere che gli stessi viaggiassero accompagnati da adulti che ne avevano la responsabilità, comunque ricadente sul comandante della nave. Lo stesso Salvini, inoltre, aveva già dato mandato all’Avvocatura generale dello Stato “per impugnare il decreto di sospensiva del Presidente del Tar del Lazio, che di fatto aveva rimosso ogni ostacolo all’ingresso della nave in acque territoriali”. Impugnativa della quale si sono perse le tracce, dopo la convulsa fase delle comunicazioni diffuse dal ministro dell’interno attraverso i canali più disparati.
La vicenda della Open Arms appare dunque assai diversa rispetto a ai casi Diciotti e Gregoretti, già esaminati dal Senato con esiti opposti, perché si trattava di una nave appartenente ad una ONG e il divieto di sbarco imposto dall’ex ministro dell’interno non era stato condiviso dalle altre autorità di governo, pure richiamate dal decreto sicurezza n. 53/2019 ,che veniva convertito in legge proprio negli stessi giorni nei quali la nave spagnola soccorreva i naufraghi in zona SAR “libica”, dopo il consueto diniego delle autorità maltesi che, per i naufraghi soccorsi nella zona SAR libica, si rifiutavano di indicare. un luogo di sbarco sicuro.
Dopo lo sbarco dei naufraghi, conseguente al sequestro della nave, il gip del tribunale di Agrigento disponeva la restituzione (dissequestro) della nave della Ong Open Arms. osservando che “non sussistono, dopo l’evacuazione e il soccorso dei migranti, esigenze probatorie anche in considerazione del fatto che non si ascrive all’organizzazione e all’equipaggio alcuna responsabilità”. Secondo lo stesso magistrato, piuttosto, si potrebbero configurare gravi reati, allo stato a carico di ignoti, che avrebbero impedito l’ingresso della nave nelle acque territoriali e lo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino. Il giudice di Agrigento scrive infatti che “sussiste il fumus del reato di sequestro di persona da parte dei pubblici ufficiali in corso di identificazione sulla base del fatto che il Tar aveva sospeso il divieto di ingresso in acque territoriali e i migranti sono, quindi, stati trattenuti indebitamente dal 14 agosto”. Il magistrato rileva “analogie con la cosiddetta vicenda Diciotti” in quanto, anche in questo caso, “è stato omesso il preciso obbligo di individuare un porto sicuro spettante all’Italia in quanto primo porto di approdo in base al trattato di Dublino”.
La prospettiva sulla base della quale il Viminale, prima e dopo il decreto sicurezza bis, ha adottato divieti di ingresso in porto non solo nei confronti delle ONG, ma anche nei casi di soccorsi operati da imbarcazioni militari italiane, viene così completamente ribaltata: non è illecita l’attività di soccorso in acque internazionali, ma, in via di ipotesi, ricorre un illecito in ordine alla mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro, conseguenza del divieto di ingresso nelle acque territoriali.
Come rilevano i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo,“va anzitutto evidenziato l’indiscutibile ruolo di primo piano svolto e, per certi versi, rivendicato dal Ministro Salvini sin da quando, apprendendo dell’intervento di soccorso posto in essere in zona Sar libica dalla Open Arms, coerentemente con la politica inaugurata all’inizio del 2019, adottava nei confronti di Open Arms, d’intesa con i Ministri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, il decreto interdittivo dell’ingresso o del transito in acque territoriali italiane, qualificando l’evento come episodio di immigrazione clandestina, a dispetto del riferimento alla situazione di distress del natante su cui i soggetti recuperati stavano viaggiando”.
Sulla cd. zona SAR “libica”, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2019 , il procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, era stato molto chiaro. “La dichiarazione di una zona Search And Rescue libica, avvenuta nel 2017 non fa venire meno l’obbligo delle nazioni delle SAR vicine, innanzitutto Italia e Malta, di salvare le persone in pericolo, anche in zone di non diretta attribuzione, coordinando gli sforzi dei soccorsi e intervenendo direttamente, se del caso”.
Sembra quindi da escludere qualsiasi intento degli operatori umanitari della Open Arms di favorire l’ingresso di immigrati irregolari in territorio italiano, dopo avre effettuato i primi soccorsi nella cd. zona SAR “libica”. Sarà utile ricordare a tale riguardo quanto ha riconosciuto il Giudice delle indagini preliminari di Trapani, nella sentenza sul caso della legittima difesa riconosciuta ai naufraghi raccolti dal rimorchiatore Vos Thalassa nel luglio 2018 e poi trasbordati sulla nave Diciotti, della Guardia costiera italiana: “il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-refoulement aveva già acquisito rango di jus cogens, è privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’art. 10 co. 1 Cost., secondo cui ‘l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement’. Secondo il giudice di Trapani, il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia stipulato il 2 febbraio 2017, mai approvato dal Parlamento secondo la procedura fissata dall’art. 80 della Costituzione, costituisce “un’intesa giuridicamente non vincolante e non avente natura legislativa”.
Non mancano del resto precedenti che giustificano gli interventi di soccorso operati dalle ONG in acque internazionali, a nord delle coste libiche sulla base di una attenta ricostruzione del sistema delle fonti. Il Tribunale di Agrigento, con l’ordinanza del 2 luglio 2019 che ha negato la convalida degli arresti di Carola Rackete, ha riaffermato il principio di legalità, restituendo dignità al diritto internazionale ed ai diritti umani, nel quadro normativo delineato dalla nostra Carta costituzionale. Le motivazioni addotte dal Giudice per le indagini preliminari di Agrigento chiariscono che il soccorso in acque internazionali va distinto dal trasporto di clandestini, al contrario di quanto sostenuto dal ministro dell’interno. L’ordinanza del Gip di Agrigento afferma anche che il cd. decreto sicurezza bis non è applicabile alle ONG che hanno salvato vite umane in alto mare. Il giudice, in sostanza, ritiene inapplicabile il decreto sicurezza bis quando si tratti di sbarcare in un porto sicuro naufraghi soccorsi in acque internazionali: “Ritiene questo giudice che nessuna idoneità a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della Sea Watch 3, oltre che delle autorità nazionali, potevano rivestire le direttive ministeriali in materia di ‘porti chiusi’ o il provvedimento del ministro degli Interni di concerto con il ministero della Difesa e delle Infrastrutture che faceva divieto di ingresso, transito e sosta alla nave, nel mare nazionale, trattandosi peraltro solo di divieto sanzionato da sanzione amministrativa”. Il reato di resistenza a pubblico ufficiale deve ritenersi “scriminato per avere agito l’indagata in adempimento di un dovere”. Il dovere di soccorso dei naufraghi, dunque,” non si esaurisce con la mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione al porto sicuro più vicino”.
La terza sezione penale della Cassazione, dopo una camera di consiglio svolta il 16 gennaio scorso, ha rigettato il ricorso presentato la scorsa estate dal procuratore capo di Agrigento e dal suo aggiunto, contro questa ordinanza, firmata il 2 luglio 2019 dal gip Alessandra Vella che decise di non convalidare l’arresto di Carola Rackete, escludendo il reato di resistenza e violenza a nave da guerra, che era stato contestato alla comandante per avere, il 29 giugno dello stesso anno, forzato un tentativo di impedire l’attracco in banchina della nave già entrata in porto a Lampedusa sotto scorta della Guardia di finanza.
Come riferisce l’ANSA, ” correttamente in base alle disposizioni sul “salvataggio in mare”, la comandante della Sea Wacht Carola Rackete e” entrata nel porto di Lampedusa perche” “l”obbligo di prestare soccorso non si esaurisce nell”atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l”obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro” . Lo afferma la Cassazione nelle motivazioni di conferma del ”no” all”arresto di Rackete con l”accusa di aver forzato il blocco navale della motovedetta della Gdf per impedirle l”accesso al porto”. Secondo i giudici della Corte, inoltre, “è’ stata esclusa la natura di nave da guerra della motovedetta perche” al comando non c”era un ufficiale della Marina militare, come prescrivono le norme, ma un maresciallo delle Fiamme Gialle. Dunque Rackete ha agito in maniera “giustificata” dal rischio di pericolo per le vite dei migranti a bordo della sua nave”. La decisione appare di grande rilievo per le motivazioni addotte che smentiscono frontalmente la politica dei “porti chiusi” adottata dall’ex ministro Salvini per tutto il periodo in cui ha occupato il Viminale.
3. Il sistema gerarchico delle fonti ed il ruolo delle norme internazionali ed europee.
Occorre ricordare che dal momento del suo insediamento al Viminale l’ex ministro Salvini aveva disposto nei confronti delle navi private appartenenti alle Organizzazioni non governative numerosi divieti di ingresso nei porti italiani , a partire dal caso Aquarius nel giugno del 2018. In una prima fase si era trattato di provvedimenti informali, comunicati attraverso i social, poi si erano adottate “direttive” specifiche, rivolte espressamente alle singole navi private che avevano eseguito interventi di soccorso in acque internazionali, contenenti divieti di ingresso nelle acque territoriali, quindi, dopo il decreto sicurezza bis si era provveduto con i provvedimenti in forma di decreto, previsti dalla nuova normativa.
La difesa “anticipata” sui media dall’ex ministro dell’interno si è basata, anche nel caso Open Arms qui in esame, come già nei precedenti casi Diciotti e Gregoretti, sull’affermazione della natura di atto politico insindacabile attribuita ai divieti di ingresso nelle acque territoriali, che escluderebbe la ricorrenza di reati ministeriali. Come se si fosse trattato di difendere i “confini della Patria” o le politiche nazionali di contrasto dell’immigrazione “clandestina”. Non è la prima volta che l’ex ministro e capo della Lega adduce tali argomenti, già usati per giustificare i divieti di ingresso imposti, anche prima dell’entrata in vigore del decreto sicurezza bis, alle navi private delle ONG, che avevano soccorso naufraghi al di fuori delle acque territoriali italiane, e della zona SAR riservata all’Italia, che chiedevano tuttavia alle autorità italiane la indicazione di un porto di sbarco sicuro. A fronte della situazione notoria della Libia, che non garantisce porti sicuri di sbarco, e del rifiuto frapposto da altri paesi, come Malta o la Tunisia, che da tempo si rifiutano di offrire porti di sbarco ai naufraghi soccorsi al di fuori delle loro acque territoriali.
Secondo il Tribunale dei ministri di Palermo Matteo Salvini nel non concedere un porto sicuro alla nave Open Arms nell’agosto 2019 avrebbe violato le convenzioni internazionali “… mentre è stata poi stralciata la posizione del capo di gabinetto, prefetto Piantedosi. Come afermano i giudici palermitani,”la condotta omissiva ascritta agli indagati, consistita nella mancata indicazione di un Pos alla motonave Open Arms, è illegittima per la violazione delle convenzioni internazionali e dei principi che regolano il soccorso in mare, e, più in generale, la tutela della vita umana, universalmente riconosciuti come ius cogens”.
“L’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati che non si esaurisce nel primo intervento di salvataggio e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica (…), assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna (l’art. 117 Cost. prevede infatti che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”. Lo afferma una importante sentenza del Giudice delle indagini preliminari di Trapani, sul caso Vos Thalassa/Diciotti ed in modo meno esplicito lo stesso principio era stato già alla base di decisioni precedenti di altri giudici, nell’ambito di procedimenti di convalida del sequestro di alcune navi delle ONG, impegnate nel soccorso in acque internazionali nel Mediterraneo centrale.
Le Convenzioni internazionali ed i Regolamenti europei assumono quindi immediato rilievo nell’ambito della giurisdizione interna anche in materia di soccorsi in mare. Sotto il vaglio del giudice finiscono le norme interne e le prassi applicate che costituiscono una violazione di norme cogenti di rilievo internazionale.
L’obbligo per lo Stato responsabile della zona SAR di adoperarsi affinché le persone soccorse siano condotte in un “luogo sicuro” ( place of safety) rappresenta un fondamentale punto di svolta rispetto alla disciplina internazionale più risalente. Nella sentenza pronunciata dal Tribunale di Agrigento il 7 ottobre 2009 relativa al caso Cap Anamur, il collegio giudicante ha ritenuto di specificare che tale “peso” non si riferisce unicamente alle incombenze legate alla somministrazione del vitto e dell’assistenza medica, ma, soprattutto, va rapportato alla necessità di garantire ai naufraghi “il diritto universalmente riconosciuto di essere condotti sulla terraferma”.
Nessuna norma di diritto internazionale del mare autorizza uno Stato ad esercitare poteri d’interdizione su imbarcazioni sospettate di trasportare migranti irregolari nelle acque internazionali. In base alla sentenza del Tribunale di Agrigento sul caso Cap Anamur, “le violazioni delle norme sull’immigrazione possono costituire illeciti rilevanti per gli ordinamenti nazionali degli Stati che ne sono coinvolti (Stato di partenza o Stato di arrivo o entrambi). Ma è ovvio che qualsiasi illecito d’immigrazione clandestina si consuma soltanto dopo che le persone coinvolte sono entrate nel mare territoriale dello Stato di destinazione ( o di uno Stato di transito), e non già prima, e cioè quando la nave che li trasporta si trova ancora in alto mare”..
L’art. 19 della Convenzione UNCLOS prevede la libertà di navigazione in acque internazionali, ed anche nel mare territoriale, ma al secondo comma della norma si prevede una deroga che in Italia è stata utilizzata capovolgendo il rapporto regola eccezione. In base all’art. 19 comma 2 della stessa Convenzione Unclos però “il passaggio di una nave nelle acque territoriali di uno Stato” è permesso “fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”.
La disposizione contenuta nel decreto sicurezza bis n.53/2019, all’art. 2 permette al ministro dell’interno di qualificare come “non inoffensiva” la condotta della nave che dopo una azione di soccorso in acque internazionali, chieda di fare ingresso nelle acque territoriali. La disposizione avrebbe natura “meramente esemplificativa”, anche se la lettera g) del comma 2 precisa che tra le attività che potrebbero portare a considerare il passaggio non inoffensivo c’è anche “il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”. Ma non si può ritenere che il completamento di una operazione SAR di ricerca e salvataggio possa tradursi in un preordinato ingresso di “clandestini” sul territorio italiano e risultare dunque penalmente perseguibile. Lo impedisce la chiara formulazione letterale dell’art. 10 ter del Testo unico sull’immigrazione n.286 del 1998 che appunto distingue dall’ingresso irregolare l’ingresso “per ragioni di soccorso”.
La Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione Solas) impone poi gli interventi di soccorso al comandante di una nave “ che si trovi nella posizione, di essere in grado di prestare assistenza”. In altri termini chi si trovi più vicino al mezzo in difficoltà, per il quale è giunta una chiamata di soccorso, ha l’obbligo di avvertire le competenti autorità SAR e di attivarsi immediatamente seguendo le istruzioni fornite dal Comando centrale della Guardia Costiera (IMRCC). Una prescrizione che non sempre è stata adempiuta tempestivamente, soprattutto quando sono venute in gioco questioni di competenza che ritardavano l’avvio delle azioni di soccorso, come nel caso, attualmente all’esame del Tribunale di Roma, della strage avvenuta a sud di Malta l’11 ottobre 2013.
La Convenzione SOLAS specifica l’obbligo contenuto nell’art. 98, par. 2, CNUDM, prevedendo l’obbligo per tutti gli Stati parte di adottare le misure necessarie per la comunicazione di situazioni di pericolo e per il coordinamento delle attività nelle loro aree di responsabilità, nonché per il salvataggio delle persone in pericolo nel mare che circonda le loro coste. Tali misure devono comprendere la creazione, l’operazione e il mantenimento dei mezzi e delle attrezzature che si ritiene siano fattibili e necessarie, alla luce della densità del traffico e dei pericoli alla navigazione, e dovranno, nella misura possibile, prevedere adeguati mezzi per localizzare e salvare queste persone.
La terza Convenzione internazionale che viene in considerazione riguarda anch’essa la ricerca ed il salvataggio marittimo. La Convenzione di Amburgo SAR (1979)8 impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare “…senza distinguere a seconda della nazionalità o dello stato giuridico, stabilendo altresì, oltre l’obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un “luogo sicuro”. L’art. 10, par 1, della Convenzione di Amburgo del 1979 (SAR) prevede che ogni comandante è obbligato, nella misura in cui lo possa fare senza serio pericolo per la propria nave e le persone a bordo, a rendere assistenza a qualsiasi persona che rischia di perire in mare. Il comandante di una nave in navigazione che sia in grado di poter prestare assistenza, al ricevimento di un segnale da qualsiasi provenienza indicante che delle persone si trovano in pericolo in mare, è obbligato a portarsi a tutta velocità ad assisterle, se possibile informando tali persone o il servizio di ricerca e soccorso di quanto la nave sta facendo.
Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, adottate nel 2004 dal Comitato Marittimo per la Sicurezza dell’IMO ai fini della corretta attuazione agli emendamenti in questione precisano che: 1)in ogni caso il primo centro di soccorso marittimo che venga a conoscenza di un caso di pericolo,anche se l’evento interessa l’area SAR di un altro Paese, deve adottare i primi atti necessari e continuare a coordinare i soccorsi fino a che l’autorità responsabile per quell’area non ne assuma il coordinamento; 2) lo Stato cui appartiene lo MRCC che per primo abbia ricevuto la notizia dell’evento o che comunque abbia assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, ha l’obbligo di individuare sul proprio territorio un luogo sicuro ove sbarcare le persone soccorse, qualora non vi sia la possibilità di raggiungere un accordo con uno Stato il cui territorio fosse eventualmente più prossimo alla zona dell’evento. Ciò indipendentemente da qualsiasi considerazione in merito al loro status.
I giudici del Tribunale dei ministri di Palermo rilevano come “la Risoluzione MSC 167-78 ha quindi individuato delle “linee guida” che costituiscono la cornice entro cui i singoli Stati possono disciplinare la materia: esse, in particolare, prevedono che ciascuno Stato dovrebbe disporre di piani operativi che disciplinino in dettaglio le modalità con cui deve effettuarsi l’azione di coordinamento, per affrontare tutti i tipi disituazioni SAR, con la precisazione che essi “dovrebbero coprire gli incidenti che si verificano all’interno della propriaregione SAR e, se necessario, dovrebbero coprire anche incidenti al di fuori della propria regione fino a quando l’RCC responsabile della regione in cui viene fornita l’assistenza (v.paragrafo 6.7) o un altro RCC in una posizione migliore intervenga a gestire il caso accettandone la responsabilità”. Come ricordano gli stessi giudici, “la Risoluzione citata individua altresì il principio del centro di coordinamento di “primo contatto” stabilendo che (punto6.7) “Se del caso, il primo RCC contattato dovrebbe iniziare immediatamente gli sforzi per il trasferimento del caso al RCC responsabile della regione in cui l’assistenza viene prestata. Quandoil RCC responsabile della regione SAR in cui è necessaria assistenza è informato della situazione dovrebbe immediatamente assumersi la responsabilità di coordinare gli sforzi di salvataggio,poiché le responsabilità correlate, comprese le disposizioni relative a un luogo sicuro per i sopravvissuti, cadonoprincipalmente sul governo responsabile di quella regione. Il primo RCC, tuttavia, è responsabileper aver coordinato il caso fino a quando l’RCC o altra autorità competente non ne assumerà la responsabilità.”
Nessuna disposizione di diritto internazionale autorizza gli stati a considerare le persone “al sicuro” su una nave tenuta a tempo indeterminato al di fuori delle acque territoriali. La nave soccorritrice può essere considerata soltanto come un luogo sicuro temporaneo. Una nave che interviene per fornire soccorso non può essere assunta come porto sicuro, in quanto essa non è dotata dei servizi e dell’equipaggiamento adatti per assistere le persone soccorse in maniera adeguata e senza mettere in pericolo la sua stessa sicurezza. Per tale ragione: “even if a ship is capable of safely accommodating the survivors and may serve as a temporary place of safety, it should be relieved of this responsibility as soon as alternative arrangements can be made. A place of safety may be on land, or it may be aboard a rescue unit or other suitable vessel or facility at sea that can serve as a place of safety until the survivors are disembarked to their next destination” (par. 6.13 e 6.14 delle Linee guida).
Esiste dunque un preciso dovere per le autorità SAR, informate di un evento di soccorso, di coordinare le attività di soccorso ed indicare alle navi soccorritrici, siano essere militari o private, un porto sicuro di sbarco più vicino.
Una volta che la Centrale nazionale di coordinamento di soccorso marittimo della Guardia Costiera di Roma abbia comunque ricevuto la segnalazione di un’emergenza e assunto il coordinamento iniziale delle operazioni di soccorso – anche se l’emergenza si è sviluppata fuori dalla propria area di competenza Sar – questo impone alle autorità italiane di portare a compimento il salvataggio individuando il luogo sicuro di sbarco dei naufraghi. Se le autorità di Malta hanno negato il loro consenso allo sbarco in un porto di quello stato, l’Italia non può negare lo sbarco in un proprio porto sicuro, che diventa essenziale per completare le operazioni di salvataggio.
Se, come risulta dai rapporti delle Nazioni Unite e come ha riconosciuto persino il ministro degli esteri del precedente governo Conte, Enzo Moavero Milanesi, la Libia non garantisce «porti di sbarco sicuri», spetta al ministero dell’interno, di concerto con la Centrale operativa della Guardia costiera di Roma, su indicazione del ministro dell’interno, indicarne uno con la massima sollecitudine, anche se l’evento Sar si è verificato nelle acque internazionali che ricadono nella pretesa Sar libica. Eventuali inadempimenti di tali obblighi potranno essere sanzionati a livello nazionale o internazionale. Non si può ammettere che in mare ci siano persone sottratte a qualsiasi giurisdizione, soltanto per effetto della qualificazione come “clandestini”.
E’ dunque l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio tanto nel caso in cui l’autorità nazionale competente Sar dia risposta negativa alla possibilità di intervenire in tempi utili quanto in assenza di ogni riscontro da parte di quest’ultima. La cessione della competenza ad operare interventi Sar in acque internazionali non dovrà comunque pregiudicare la dignità e la vita delle persone che si devono soccorrere.
In base a quanto espressamente previsto dalle Convenzioni UNCLOS e SAR, il primo MRCC che riceva notizia di una possibile situazione di emergenza S.A.R. ha la responsabilità di adottare le prime immediate azioni per gestire tale situazione, anche qualora l’evento risulti al di fuori della propria specifica area di responsabilità. Ciò almeno fino a quando tale responsabilità non venga formalmente accettata da un altro MRCC, quello competente per l’area o altro in condizioni di prestare una più adeguata assistenza (Manuale IAMSAR – Ed. 2016; Risoluzione MSC 167-78 del 20/5/2004). Il mero recupero a bordo della nave soccorritrice delle persone in pericolo o dei naufraghi, non determina la conclusione delle operazioni S.A.R., perché le operazioni possono considerarsi terminate solo con lo sbarco di dette persone in un luogo sicuro (place of safety o P.O.S.). Per tale motivo, l’obbligo di individuare detto luogo sicuro, in accordo con tutte le altre Autorità eventualmente interessate, ricade sull’MRCC che ha la responsabilità del coordinamento delle operazioni stesse, in accordo con tutte le altre Autorità governative interessate. I dubbi sulla valenza normativa cogente di quanto previsto dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare e dalle Risoluzioni dell’IMO possono essere superati richiamando la natura di ius cogens dei Regolamenti europei che hanno efficacia vincolante diretta nell’ordinamento interno degli stati dell’Unione europea.
4. Naufraghi e richiedenti asilo, il dritto al soccorso in mare ed allo sbarco in un porto sicuro (POS).
Si deve infine considerare che i Regolamenti europei n.656/2014 e n.1624/2016 prevedono espressamente un richiamo a tutte le Convenzioni internazionali di diritto del mare, congiuntamente alla Convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati. L’art. 4 del Regolamento europeo 2016/1624 (costitutivo della nuova Agenzia per la guardia di frontiera e costiera europea) prevede espressamente che, nel corso delle operazioni di controllo delle frontiere marittime, le attività S.A.R.continuano comunque ad essere avviate e condotte in conformità a quanto previsto dal Reg. EU2014/656, ovverosia in conformità alle norme di diritto internazionale sul S.A.R.
In base al Considerando n.8 del Regolamento n.656/2014, richiamato dal successivo Regolamento n.1624/2016, ”durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti”. Si può quindi ritenere che per effetto di questo richiamo le disposizioni delle Convenzioni internazionali del mare ed i relativi emendamenti accettati dagli stati membri dell’Unione Europea diventino vincolanti per tutte le autorità di questi paesi.
Ai fini della individuazione del porto di sbarco sicuro non può assumere rilievo la bandiera che batte la nave soccorritrice, soprattutto quando questa ha già fatto ingresso nelle acque territoriali.. Come ha ricordato in diverse occasioni l’Autorità garante per le persone private della libertà personale, “l’interdizione all’ingresso costituisce esercizio della sovranità e implica che ai migranti soccorsi e a bordo della nave debbano essere riconosciuti tutti i diritti e le garanzie (divieto di non refoulement, diritti dei minori stranieri non accompagnati, diritto di protezione internazionale…) che spettano alle persone nei confronti delle quali l’Italia esercita la propria giurisdizione”. Come osserva Giancarlo Guarino, già Ordinario di Diritto Internazionale all’Università di Napoli Federico II, “il riferimento ripetuto del Governo italiano al fatto che le navi delle ONG battono bandiera di vari Paesi è irrilevante,…perché non si tratta di navi pubbliche ma private e quindi il principio per cui lo Stato della bandiera assume anche la responsabilità di chi si trovi a bordo della nave non vale”.
I giudici del Tribunale dei ministri di Palermo ricordano in proposito come “deve escludersi che lo Stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio; tale individuazione, invero, confligge innanzitutto con la stessa lettera del testo normativo di riferimento (Risoluzione MSC 167-78), che al punto 6.7 fa esplicito riferimento al “primo RCC contattato”, esigendo, dunque che il “contatto” sia realizzato con il centro di coordinamento per le attività di ricerca e soccorso costituito, in ottemperanza alle linee guida IMO, presso ogni Stato aderente alle convenzioni in materia; essa, poi, appare incoerente con lo scopo perseguito dalle richiamate linee guida (criterio ermeneutico, questo, di primaria rilevanza nell’applicazione dei trattati e delle convenzioni internazionali), scopo che, come s’è detto, consiste nel far sì che la collaborazione degli Stati converga verso il risultato di consentire alle persone soccorse di raggiungere quanto prima un posto sicuro, arrecando alla nave soccorritrice il minimo sacrificio possibile”.
Dalle indagini svolte dal Tribunale dei ministri di Palermo emerge che “il POS (indicato ad Algeciras ovvero, successivamente alle osservazioni trasmesse dalla Guardia Costiera italiana, presso le Isole Baleari) offerto dalla Spagna – peraltro solo in data 18.8.2019, quando la nave si trovava già da tre giorni alla fonda in prossimità delle coste di Lampedusa – non rispondeva, già in astratto, alle esigenze tutelate dalla normativa internazionale; in base al par. 6.18 della Risoluzione MSC 167-78, infatti, la nave soccorritrice ha diritto di ottenere l’autorizzazione allo sbarco dei migranti in un luogo che implichi il minimo disagio per la nave stessa, gravando specularmente suiresponsabili l’obbligo di tentare di organizzare delle alternative ragionevoli per questo scopo (v. par. 6.13 ris. cit, secondo cui la nave deve essere comunque sollevata da questa responsabilità non appena possono essere presi accordi alternativi”); sotto questo profilo, sia il porto di Algeciras, ubicato addirittura sullo stretto di Gibilterra, che quello di Palma di Maiorca, nelle Isole Baleari, distante circa 590 miglia nautiche da Lampedusa, erano entrambi troppo lontani dalla posizione della nave per poter essere considerati idonei a salvaguardare le esigenze in rilievo”.
Secondo l’UNHCR, “nel determinare se gli obblighi di uno Stato sui diritti umani sussistono nei confronti di una determinata persona, il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato”. Nei suoi documenti ” L’UNHCR chiede nuovi sforzi per limitare la perdita di vite in mare, tra cui il ritorno delle navi di ricerca e soccorso degli Stati Membri dell’UE. Le restrizioni legali e logistiche alle operazioni di ricerca e soccorso delle ONG, sia in mare che per via aerea, devono essere eliminate. Gli Stati costieri dovrebbero facilitare, non ostacolare, gli sforzi volontari per evitare le morti in mare”.
Il Contrammiraglio Nicola Carlone, della Guardia costiera italiana, già nel corso di un’audizione parlamentare del 3 maggio 2017. aveva spiegato che “Dublino si applica nel momento in cui si arriva a terra, Dublino non è applicabile a bordo delle navi. Il caso Hirsi lo dimostra”. Lo stesso aveva poi aggiunto che “il mero recupero a bordo della nave soccorritrice delle persone in pericolo o dei naufraghi, non determina tuttavia la conclusione delle operazioni S.A.R., perché le operazioni possono considerarsi terminate solo con lo sbarco di dette persone in un luogo sicuro (place of safety o P.O.S.), come si dirà meglio in seguito. Per tale motivo, l’obbligo di individuare detto luogo sicuro, in accordo con tutte le altre Autorità eventualmente interessate, ricade sull’MRCC ( Centrale di comando della guardia costiera) che ha la responsabilità del coordinamento delle operazioni stesse, in accordo con tutte le altre Autorità governative interessate”. Il fatto che la nave soccorritrice possa essere considerata, in base alla Convenzione UNCLOS, come un’estensione del territorio olandese “non è infatti rilevante ai fini del Regolamento di Dublino, che individua il Paese dove devono essere compiuti gli accertamenti necessari per stabilire chi abbia o no il diritto alla protezione internazionale”. I naufraghi soccorsi in acque internazionali vanno sbarcati nel porto sicuro più vicino, soprattutto qualora tra essi vi siano richiedenti asilo, minori non accompagnati, donne con bambini piccoli, altri soggetti in situazioni di vulnerabilità come le persone provenienti dalla Libia che, in misura crescente, sono state vittime di tortura o di abusi sessuali.
Il testo del Regolamento (UE) n. 656/2014, contiene diverse disposizioni che regolano i molteplici aspetti riguardanti la sicurezza in mare (art. 3), la protezione dei diritti fondamentali e principio di non respingimento (art. 4), la localizzazione (art. 5), l’intercettazione nelle acque territoriali, in alto mare, nella zona contigua (rispettivamente: artt. 6-7-8), le situazioni di ricerca e soccorso (art. 9), lo sbarco (art. 10), i meccanismi di solidarietà (art. 12).
Il Regolamento europeo su Frontex n. 656/2014, direttamente vincolante nell’ambito della giurisdizione italiana ed europea, definisce il Place of Safety come il «… luogo in cui si ritiene che le operazioni di soccorso debbano concludersi e in cui la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è minacciata, dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e possono essere definite le modalità di trasporto dei sopravvissuti verso la destinazione successiva o finale tenendo conto della protezione dei loro diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento…».
Il porto di sbarco definibile come “place of safety” deve trovarsi all’interno di un paese che garantisca l’effettiva applicazione della Convenzione di Ginevra e delle altre Convenzioni internazionali che salvaguardano i diritti della persona umana. Questo paese oggi non è certo la Libia, o quello che ne rimane, nei diversi governi che si contendono il controllo del paese, anche perché la Libia non ha mai aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati.
Secondo lo stesso Regolamento ( al Considerando 8), “durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti”.
Il Considerando 26 della Direttiva 2013/32/UE prevede che “al fine di garantire l’effettivo accesso alla procedura di esame, è opportuno che i pubblici ufficiali che per primi vengono a contatto con i richiedenti protezione internazionale, in particolare i pubblici ufficiali incaricati della sorveglianza delle frontiere terrestri o marittime o delle verifiche di frontiera, ricevano le pertinenti informazioni e la formazione necessaria per riconoscere e trattare le domande di protezione internazionale tenendo debitamente conto, tra l’altro, dei pertinenti orientamenti elaborati dall’EASO. Essi dovrebbero essere in grado di dare ai cittadini di paesi terzi o agli apolidi presenti sul territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito degli Stati membri, e che manifestano l’intenzione di presentare una domanda di protezione internazionale, le pertinenti informazioni sulle modalità e sulle sedi per presentare l’istanza. Ove tali persone si trovino nelle acque territoriali di uno Stato membro, è opportuno che siano sbarcate sulla terra ferma e che ne sia esaminata la domanda ai sensi della presente direttiva”.
Si deve infine ricordare quanto richiama Irini Papanicolopulu, docente di diritto internazionale presso l’Università di Milano Bicocca, secondo cui “l’ingresso di una nave che trasporta persone soccorse in mare in adempimento dell’obbligo internazionale di salvare la vita umana in mare non può considerarsi come attività compiuta in violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione, a condizione che l’obiettivo della nave sia semplicemente quello di far sbarcare le persone soccorse. Infatti, l’obbligo di salvare la vita umana in mare vincola sia gli stati (ai sensi dell’art. 98, par. 1 CNUDM) sia i comandanti di navi (ai sensi del Capitolo V, reg. 33 SOLAS, nonché di numerose norme nazionali, quali ad esempio l’art. 489 cod. nav.). Tale obbligo richiede al comandante di assistere le persone in pericolo e di condurle in un luogo sicuro. In altri termini, la fattispecie del salvataggio in mare continua fino a quando il comandante non abbia fatto sbarcare le persone in luogo sicuro, e il suo ingresso nel mare territoriale e nei porti di uno Stato non può essere visto sotto luce diversa. Non si può quindi precludere il passaggio inoffensivo ad una nave che ha soccorso persone in pericolo, anche al di fuori del mare territoriale, qualora questa intenda entrare al fine di perfezionare il proprio obbligo di salvare la vita umana in mare.”
Non si possono dunque adottare provvedimenti amministrativi che intaccano i diritti fondamentali della persona sulla base del mero sospetto che le Ong siano colluse con trafficanti o scafisti, oppure che compiano attivita’ dolosamente preordinate alla introduzione di immigrati irregolari in Italia. I divieti di ingresso nelle acque territoriali fin qui adottati sono illegittimi perché contrastano con le Convenzioni internazionali di diritto del mare e con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati che non consentono di qualificare come comportamenti illegali le attività di ricerca e soccorso in acque internazionali ed il successivo ingresso nel mare territoriale per lo sbarco dei naufraghi in un place of safety.
5. Il divieto di respingimenti collettivi ed il diritto di accesso al territorio per la richiesta di asilo e per i minori non accompagnati.
Nell’estate del 2019 veniva emanato il cd. “decreto sicurezza bis” (Decreto legge n. 53 del 14 giugno del 2019) poi convertito in legge (Legge n. 77 dell’8 agosto 2019), nel qualel’articolo 1, recante misure a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e in materia di immigrazione, inseriva nell’articolo 11 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il nuovo comma 1-ter, con il quale si attribuiva al Ministro dell’interno, nella sua qualità – riconosciutagli dall’articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121 – di Autorità nazionale di pubblica sicurezza, nell’esercizio delle funzioni di coordinamento al comma 1-bis del medesimo articolo 11, nonché nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia, il potere di limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, con l’eccezione del naviglio militare (nel quale rientrano anche le navi militari e le navi da guerra, a mente degli articoli 239 e seguenti del codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66) e delle navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e di sicurezza pubblica, ovvero quando, in una specifica ottica di prevenzione, ritenga necessario impedire il cosiddetto «passaggio pregiudizievole» o «non inoffensivo» di una specifica nave in relazione alla quale si possano concretizzare – limitatamente alle violazioni delle leggi in materia di immigrazione – le condizioni di cui all’articolo 19, paragrafo 2, lettera g), della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, sottoscritta a Montego Bay il 10 dicembre 1982 e ratificata dall’Italia ai sensi della legge 2 dicembre 1984, n. 689. Il provvedimento di divieto “e’ adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri.».
Se è vero che, in base alla Convenzione UNCLOS lo stato può comunque impedire l’ingresso nei propri porti ad una nave sospettata di trasportare migranti irregolari, è altrettanto da considerare che se uno Stato respinge una imbarcazione carica di naufraghi soccorsi in acque internazionali, senza controllare se a bordo vi siano dei richiedenti asilo o soggetti non respingibili, o altrimenti inespellibili, come donne abusate e/o in stato di gravidanza e minori, e senza esaminare se essi possiedano i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, commette una grave violazione del principio di non respingimento sancito dall’art. 33 par. 1 della Convenzione del 1951 se i territori (Stati terzi o alto mare) verso cui la nave è respinta non offrono garanzie sufficienti per l’incolumità dei migranti o per il riconoscimento dei loro diritti fondamentali. Respingere una nave che ha effettuato un soccorso (SAR) verso l’alto mare, con la certezza che nessuno dei paesi confinanti (come aree SAR) provvederà al soccorso tempestivo dei naufraghi, corrisponde ad una grave lesione del diritto internazionale, oltre che ad un atto disumano, che nessuna norma di legge potrà mai ratificare.
Con riferimento all’articolo 10 comma terzo della Costituzione italiana si osserva (Luca Minniti) che ” ostacolare l’entrata nel territorio dello Stato e della Ue significa sottrarre, in radice, al titolare del diritto di asilo, la possibilità di esercitarlo tramite la domanda di protezione di cui agli art. 10 Cost. e 18 Carta Ue. Con la conseguenza che le norme, gli atti amministrativi, i comportamenti che chiudono i confini dell’Ue indipendentemente dallo scopo che si prefiggono, violano la Costituzione, nella misura in cui precludono la possibilità di accesso al territorio e, dunque, l’accesso alla tutela del diritto alla protezione dello straniero”.
Secondo l’UNHCR quando i naufraghi si trovano ancora in mare non è possibile una valutazione formale dello status di rifugiato o di richiedente asilo (in virtù del Protocollo di Palermo del 2000 contro la tratta di migranti; Reg. EU 2014/656 per le operazioni Frontex; d.lgs 286/’98 – T.U. immigrazione e discendente DM 14 luglio 2003; ecc.). Tutte le imbarcazioni coinvolte in operazioni SAR hanno come priorità il soccorso e il trasporto in un “luogo sicuro” dei migranti raccolti in mare e le azioni di soccorso prescindono dallo status giuridico delle persone. Il rifiuto, aprioristico e indistinto, di un governo, peggio di un singolo ministro, di far approdare la nave in porto comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola il divieto di espulsioni collettive previsto dall’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU. L’invito a rivolgere la prua verso un altro stato (ad esempio Malta o la Tunisia) rivolto ad una nave che ha effettuato un soccorso e che si trova all’interno della zona contigua alle acque territoriali di un paese, per quanto osservato in precedenza, viola il diritto internazionale. L’articolo 10 del Testo Unico sull’immigrazione 256/98 prevede ancora espressamente la possibilità di applicare il respingimento differito (comma 2) alle persone straniere che sono state “temporaneamente ammesse nel territorio per necessità di pubblico soccorso”. Ma anche nei casi di respingimento differito ci sono precisi limiti alla discrezionalità amministrativa, come ricorda la Corte Costituzionale.
Non si possono delegare alle motovedette libiche attività che, se operano sotto coordinamento italiano ed europeo, come accertato in diverse occasioni, a Catania, a Ragusa ed a Agrigento dalla magistratura italiana, possono realizzare di fatto respingimenti collettivi vietati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo.
Il principio di non refoulement sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra mplica “no rejection at frontiers without access to fair and effective procedures for determining status and protection needs”. Non è dunque possibile individuare un “contenuto minimo” di natura procedurale del diritto d’asilo, che “prima ancora di imporre in capo agli Stati precisi obblighi materiali di tipo positivo in ordine alla concessione del beneficio, non consente loro comportamenti che possano costituire una limitazione della libertà di accesso alle procedure, a meno di non svuotare di significato la partecipazione alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati”. Come ha ribadito l’UNHCR nel suo Paper sulle intercettazioni in mare ciò dovrebbe comportare in linea generale che la persona intercettata in prossimità della zona contigua alle acque territoriali abbia accesso alle procedure nello Stato che ha effettuato l’intercettazione, poiché questo di solito consente sia l’accesso alle strutture di accoglienza, sia eque ed efficienti procedure d’asilo, nel rispetto degli standards garantiti dal diritto internazionale.Secondo l’UNHCR, «il soccorso in mare è una tradizione secolare e un obbligo che non si esaurisce tirandole persone fuori dall’acqua. Un salvataggio può essere considerato completo una volta che i passeggeri hanno raggiunto la terraferma in un porto sicuro».
6. Doversità del soccorso immediato delle imbarcazioni in situazione di distress e responsabilità del primo stato che ha notizia dell’evento SAR.
Un gruppo di giuristi del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha scritto al governo italiano richiamando l’art. 98 della Convenzione UNCLOS che il decreto legge sicurezza bis richiama soltanto per la norma di carattere derogatorio rispetto al principio generale della libertà di navigazione (art. 19), precisando che la normativa introdotta dalla Convenzione «is con-sidered customary law. It applies to all maritime zones and to all persons in distress, without discrimination, as well as to all ships, including private and NGO vessels under a State flag» . In ordine alle attività SAR ed alla indicazione di un porto di sbarco sicuro tutti i naufraghi vanno sbarcati nei tempi più rapidi senza che gli stati possano distinguere a seconda della loro vulnerabilità, della loro età o del loro sesso. Con l’ovvia riserva preferenziale delle evacuazioni per accertate condizioni sanitarie d’urgenza ( MEDEVAC).
Come ha affermato il contrammiraglio Liardo in una audizione alla Camera, “Lo scopo delle norme internazionali di diritto del mare vigenti dal 2004 è quello di assicurare che all’obbligo del comandante della nave di prestare assistenza faccia da necessario complemento l’obbligo degli Stati di coordinare le operazioni e fornire ogni possibile assistenza alla nave soccorritrice, liberandola quanto prima dall’onere sostenuto in adempimento del dovere di soccorso. In particolare tali emendamenti e le discendenti linee guida emanate dall’IMO (Ris. MSC 167-78 del 20.5.2004) hanno stabilito l’obbligo, per lo Stato cui appartiene il MRCC che per primo abbia ricevuto la notizia dell’evento o che comunque abbia assunto il coordinamento delle operazioni di soccorso, di individuare sul proprio territorio un luogo sicuro ove sbarcare le persone soccorse, qualora non vi sia la possibilità di raggiungere un accordo con uno Stato il cui territorio fosse eventualmente più prossimo alla zona dell’evento”. Se si esclude che la Libia possa garantire porti sicuri di sbarco, come escludono l’UNHCR, la Commissione europea e la magistratura italiana, in caso di disaccordo con le autorità maltesi, l’Italia non può eludere l’obbligo di una sollecita indicazione del porto sicuro di sbarco più vicino, o di altro rapidamente raggiungibile nel territorio nazionale. Come peraltro è stata prassi regolarmente seguita dal 2014 al 2017. Una prassi che è stata bruscamente interrotta con l’insediamento del senatore Salvini come ministro dell’interno, a partire dal mese di giugno del 2018.
Si deve altresì escludere qualsiasi intento elusivo del comandante e dell’equipaggio della Open Arms che, secondo l’ex ministro dell’interno, avrebbero tentato in sostanza di agevolare l’ingresso irregolare di migranti nel territorio italiano. Le imbarcazioni che trasportano i migranti nella maggior parte dei casi sono unsafe, cioè prive dei requisiti di navigabilità secondo la Convenzione SOLAS. Come osservano Leanza e Caffio, “da ciò deriva la circostanza che la richiesta di soccorso può pervenire agli organi SAR nazionali prima che si verifichi un evento pregiudizievole per la vita delle persone trasportate. Il problema riguarda in particolare la questione dell’esistenza di un effettivo o imminente”distress“ potendosi anche presentare il caso che la richiesta sia avanzata in assenza di pericolo imminente, ma tuttavia pervenga da un’imbarcazione priva dei requisiti di sicurezza. La nozione di “distress” è così stabilita dalla convenzione di Amburgo del 1979 (Annex, ch. 1, para. 1.3.11) “a)situation wherein there is a reasonable certainty that a vessel or a per-son is threatened by grave and imminent danger and requires immediate assistance”.
La nozione di “distress” generalmente adottata in diritto internazionale demolisce la ricostruzione dell’ingresso irregolare camuffato da soccorso, o delle “consegne concordate”, perché se è vero che la presenza della nave soccorritrice ai limiti delle acque territoriali libiche è largamente prevedibile dai trafficanti, questa tende ad impedire che, come purtroppo continua a verificarsi in troppi casi, l’assenza delle imbarcazioni di soccorso o il loro ritardato arrivo, magari in attesa che intervenga qualche motovedetta libica donata dall’Italia, producano l’annegamento di tutti o parte dei migranti. Che una volta abbandonati in alto mare dai trafficanti, o affidati a “scafisti per necessità”, sono soltanto naufraghi da soccorrere e non certo “clandestini” da fare entrare in territorio europeo in violazione delle leggi vigenti. Che invece prevedono espressamente l’ipotesi dell’ingresso per ragioni di soccorso di migranti privi di valido titolo di ingresso, per stabilire che, in assenza di una richiesta di protezione internazionale, può essere disposto il respingimento ( art. 10 del T.U. n.286/1998) o l’espulsione ( art. 13 dello stesso Testo Unico). Ma solo dopo il loro sbarco a terra nel porto sicuro più vicino.
Come rileva il Tribunale dei ministri di Palermo, trattandosi di “una situazione che imponeva al comandante della nave di operare il salvataggio dei naufraghi, e vertendosi in un caso di soccorso della vita umana in mare, non si profilava la predicata ipotesi di “passaggio non inoffensivo” ai sensi dell’art. 19 par. 2 lett. g) della Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 (e della legge di ratifica n. 689/1994), non potendo dipendere la non inoffensività del passaggio da – peraltro meramente supposte – intenzioni dell’organizzazione soccorritrice, bensì dall’oggettiva sussistenza di una condotta diretta al “carico o scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero” che non fosse tuttavia “finalizzata a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo” (art. 18 Conv. UNCLOS): situazione, qui, invece, pacificamente ricorrente.
7. La situazione di tensione a bordo della Open Arms e le procedure di sbarco imposte dal diritto interno
Nel caso della nave Open Arms bloccata davanti al porto di Lampedusa per effetto degli ordini impartiti dal ministero dell’interno,dopo che il TAR Lazio aveva sospeso il primo divieto di ingresso nelle acque territoriali adottato dal ministro dell’interno il primo agosto 2019, persino la Capitaneria di Porto aveva dichiarato espressamente che non ricorrevano più ostacoli perché la nave, ormeggiata per giorni a poche centinaia di metri dalla costa, facesse ingresso nel porto di Lampedusa. Né si può trascurate la precisa valenza del Codice della navigazione una volta che la nave soccorritrice, ancorchè battente bandiera straniera, sia entrata, in questo caso legittimamente, a seguito della sospensione del primo divieto di ingresso del primo agosto 2019, nelle acque territoriali italiane e stazioni a poche centinaia di metri di un isola che appartiene al territorio italiano.
Per effetto del Regolamento Dublino attualmente in vigore tutti i naufraghi della Open Arms dovevano essere sbarcati al piu’ presto e potere presentare in Italia una richiesta di protezione internazionale, anche se intendevano poi trasferirsi in un altro paese o se un accordo europeo ne prevedesse un ricollocamento. In base all’art. 3 del Regolamento n.604/2013/UE, gli Stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide sul territorio di qualunque Stato membro, compreso alla frontiera e nelle zone di transito. Come hanno ricordato i tribunali siciliani, lo impone anche l’art.10 ter del Testo Unico 286/1998 in materia di immigrazione, in base al quale “lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi.” (cd. Approccio Hotspot).
Nell’ordinanza del GIP di Agrigento del 2 luglio 2019, relativa al caso Sea Watch, infatti, si afferma che :”«l’art. 11 comma ter del D. Lgs 286-98 (introdotto dal D. L. n. 53/2019): difatti, ai sensi di detta disposizione, il divieto interministeriale da essa previsto (di ingresso, transito e sosta) può avvenire, sempre nel rispetto degli obblighi internazionali dello Stato, solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti nello Stato Costiero, fattispecie qui non ricorrente vertendosi in una ipotesi di salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio. Peraltro, l’eventuale violazione del citato art. 11 comma 1 ter – si ribadisce sanzionata in sola via ammnistrativa – non fa venir meno l’inderogabile disposto di cui all’art. 10 ter del Dlgs 286/98, avente ad oggetto l’obbligo di assicurare il soccorso, prima, e la conduzione presso gli appositi centri di assistenza, poi».
La chiara formulazione dell’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998 come successivamente emendato non consente di distinguere diverse regole di sbarco a seconda della bandiera che batte la nave soccorritrice. infatti, secondo questa norma, ” lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito”.
L’articolo 10 del Testo unico sull’immigrazione 286/98 prevede l’ipotesi dei respingimenti, cioè la pratica di allontanare dalla frontiera uno o più migranti, ma solo su base individuale, Il Testo unico specifica chiaramente all’art.19 che il respingimento non può avvenire «nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari». La legge italiana, in sostanza, vieta di respingere persone che chiedono di ottenere una qualsiasi forma di protezione internazionale. La mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro, come il divieto di ingresso nelle acque territoriali si traduce di fatto in un respingimento collettivo sanzionato da norme cogenti contenute in Convenzioni o in Carte internazionali ratificate dall’Italia, come la Convenzione di Ginevra (art.33), il Quarto protocollo allegato alla CEDU (art.4) e l’art. 19 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea che vietano i respingimenti collettivi. Norme che non possono definirsi di applicazione discrezionale da parte di uno stato, come l’Italia, che ricade sotto la giurisdizione delle Nazioni Unite e della Corte europea dei diritti dell’Uomo, oltre che della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e del Tribunale Penale internazionale.
La situazione di prolungato trattenimento a bordo della nave che non poteva più salpare a quel punto per il porto di Malta, come pure prospettato dal Viminale, appare riconducibile esclusivamente alle scelte del ministro dell’interno, che in quello stesso periodo, a fronte dei dinieghi frapposti da altri ministri alla reiterazione del divieto di ingresso nelle acque territoriali sospeso dal TAR Lazio invocava i “pieni poteri”. Pieni poteri che di fatto lo stesso Salvini aveva già esercitato nel caso dei divieti di ingresso nelle acque territoriali imposti prima e dopo l’adozione del decreto sicurezza bis, che dettava una qualche disciplina sulla delicata fase dell’assegnazione di un porto di sbarco sicuro alle navi delle ONG che avevano soccorso naufraghi in acque internazionali, fase caricata da una forte propaganda elettorale, che indicava nelle navi soccorritrici veri e propri fattori di agevolazione ( pull factor), se non veri e propri agevolatrici dell’ingresso di “clandestini” nel nostro paese. Una propaganda che è stata smantellata dai numerosi provvedimenti di archiviazione o di dissequestro adottati dalla magistratura, ma che ancora ritorna ad ogni soccorso operato dalle navi delle Organizzazioni non governative.
I dati smentiscono peraltro l’affermazione che il blocco delle navi delle ONG sarebbe stato finalizzato alla difesa dei confini o al contrasto della cd. immigrazione “clandestina”. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, al 30 settembre 2019, erano circa 80.800 i migranti arrivati attraverso le tre rotte del Mediterraneo (Occidentale, Centrale ed Orientale) verso l’Europa, con un calo del 21% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (102.700). Nei primi nove mesi dello scorso anno erano arrivate in Grecia circa 46.100 persone, 23.200 in Spagna e appena 7.600 in Italia. Inoltre, circa 1.200 persone sono arrivate via mare a Cipro, mentre circa 2.700 persone, sempre nello stesso periodo, sono state sbarcate a Malta.
Non si vede dunque come si possa ritenere che l’ex ministro Salvini, impartendo al comandante della Open Arms i divieti di ingresso in porto nel periodo dal 14 al 20 agosto del 2019 abbia “agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo” (art. 9 comma 3 L. Cost. n. 1/1989). Come ricordano i giudici del Tribunale di ministri di Palermo, “la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 81 del 5.4.2012, ha affermato che “gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo: e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate”.
Appare incontrovertibile come che la decisione di vietare l’ingresso nel porto di Lampedusa alla nave Open Arms, non abbia contribuito alla sicurezza dei cittadini o alla difesa delle frontiere, ma abbia prodotto in modo diretto e immediato, effetti pregiudizievoli alla sfera giuridica individuale dei migranti soccorsi da settimane e ristretti a bordo della stessa nave, come non si sarebbe verificato se il ministro dell’interno si fosse limitato ad una scelta politica di carattere generale senza violare la normativa interna ed internazionale che stabiliscono procedure vincolate per lo sbarco dei naufraghi soccorsi in alto mare.
Come rileva il Tribunale dei ministri di Palermo, le condotte riferite al senatore Salvini risultano rientrare “nell’esercizio delle funzioni e dei poteri del Ministro dell’Interno”, come “espressione dell’attività amministrativa rimessa a quella autorità, e non invece di quella di indirizzo politico e di attuazione generale dell’azione amministrativa del governo che, nella fattispecie, fa da sfondo allo svolgersi della vicenda, apparendo confinata nell’ambito dei motivi che hanno ispirato la condotta medesima”.
Non entriamo qui nel merito dei successivi sviluppi del processo penale per i reati di rifiuto di atti di ufficio e sequestro di persona, che potrebbe seguire al voto favorevole del Senato sulla autorizzazione a procedere richiesta dal Tribunale dei ministri di Palermo sul caso Open Arms qui in esame. Non si può pensare tuttavia che la magistratura possa essere l’unica autorità dello stato che risolva la questione dei poteri che si è assegnati con il decreto sicurezza bis il ministero dell’interno a guida del senatore Salvini, e che adesso vengono esercitati con modalità ben diverse dall’attuale ministro dell’interno Lamorgese.
Purtroppo il rischio che si ritorni a pratiche interdittive dell’ingresso nelle acque territoriali, e dunque dei soccorsi operati in acque internazionali da parre delle Organizzazioni non governative, rimane assai alto. Vanno accertate tutte le responsabilità della catena di comando e dei ministri che hanno ritardato lo sbarco dopo le operazioni di soccorso, o hanno impedito gli interventi di ricerca e soccorso (SAR) imposti agli assetti aero-navali italiani in base alle Convenzioni internazionali, ma occorre abrogare anche il decreto sicurezza bis nelle parti che riconoscono al ministro dell’interno i poteri di vietare l’ingresso nelle acque territoriali e sanzionano i soccorsi umanitari delle ONG, concedendo ai prefetti il potere di adottare la confisca amministrativa delle navi soccorritrici, con effetti che perdurano anche quando la magistratura penale esclude ogni responsabilità in capo ai soccorritori.