A breve saranno passati 6 anni da quel 3 ottobre de 2013 che produsse una ferita ancora aperta nella coscienza civile di una parte del Paese. La Strage di Lampedusa, quei 368 morti a poche centinaia di metri dalla salvezza costituiranno per molti anni un marchio indelebile di vergogna. Sembra passata un’era geologica e politica, migliaia le persone che hanno perso la vita in successivi naufragi, vicende che se considerate in successione, senza perdere la memoria, dovremmo considerare come una guerra silenziosa e infame in cui a perdere la dignità è stata l’intera Europa. Una storia che andrà scritta, senza dimenticare esecutori e mandanti, silenti e complici, ma anche raccontando delle tante e tanti solidali, posti anche sotto attacco che hanno continuato a denunciare. Ma fermiamoci all’oggi, proviamoci almeno, fra naufragi privi di testimoni, dichiarazioni roboanti e promesse a cui è difficile prestare credito. Dopo la caduta del governo giallo verde e la sospensione della tragica pantomima dei porti chiusi, il nuovo governo ha sin dalle prime dichiarazioni affermato di voler rivedere le politiche passate, ma le affermazioni sono state ambigue e carenti. Il vertice che si è tenuto a Malta il 23 settembre scorso e che ha prodotto una bozza di documento su cui si dovranno pronunciare i ministri dell’interno dei 27 paesi UE nell’incontro che si terrà l’8 ottobre a Lussemburgo, contiene poche luci e tantissime ombre. Intanto, rimuovendo i trionfalismi utilizzati nell’annunciarne i risultati, prima di rendere pubblico il testo condiviso, va chiarito che all’incontro hanno partecipato unicamente i rappresentanti di Francia, Germania, Italia e Malta, alla presenza di un rappresentante finlandese per il fatto che la Finlandia ha la presidenza del Consiglio per il semestre in corso. È vero che si è momentaneamente attenuato l’uso strumentale della condanna ad ogni iniziativa di solidarietà e di soccorso in mare, ribadendo anzi, nel rispetto delle norme, l’obbligatorietà degli interventi di salvataggio. Ma per il resto? Ma poi principalmente promesse, come quella di far valere fra i paesi contraenti un vincolo di solidarietà, in cui non è chiaro dove termina l’impegno volontaristico e inizia quello obbligatorio per ripartire i profughi salvati. Da tempo a parlare di emergenza è rimasto solo un ex ministro italiano, di fatto gli arrivi dalla Libia e intercettati da Ong e Marina italiana sono numericamente ridicoli. Oggi sono soltanto 2 l Ong operative in un tratto di mare divenuto da troppo tempo deserto d’acqua. L’accordo, valido nelle attuali condizioni ma che potrebbe essere sospeso in caso di aumento forte degli arrivi, riguarda solo le navi delle Ong. Per chi, peschereccio o nave di altra natura che soccorre persone, l’obbligo è quello di portarli nel porto del Paese di cui si batte bandiera. Sono poi esclusi da tali trattative coloro che da mesi raggiungono Lampedusa dalla Tunisia senza aiuto alcuno. Li chiamano “sbarchi fantasma”, si tratta soprattutto di ragazzi tunisini sopraffatti dalla crisi economica e sociale ma che tramite gli accordi di rimpatri venivano imbarcati da Palermo a Tunisi il lunedì e il giovedì di ogni settimana. Nei giorni precedenti il summit de La Valletta si è preferito, a scopo di propaganda, tenerli tutti a Lampedusa ad intasare l’hotspot in cui la capienza è stata ridotta e a permettere di riparlare di “allarme” per 200 persone. Continuano ad arrivarne anche in queste ore, ma sembrano non esistere. L’accordo raggiunto, che almeno prevede la redistribuzione di chiunque chieda asilo e non, come si voleva soprattutto da Francia e Germania, soltanto di chi proveniva da paesi in cui era probabile che lo status di rifugiato o altre forme protezione sarebbero state concesse, avrà durata semestrale ma rinnovabile e già questo rende l’idea della precarietà del terreno d’intesa. Come ormai noto, chi verrà salvato potrà essere ripartito in un paese fra quelli che aderiranno all’accordo, entro 4 settimane dall’arrivo. Le pratiche per la richiesta di asilo e, in caso di esito negativo, per il rimpatrio, nonché dell’accoglienza e degli spostamenti saranno a carico del paese di ricollocazione. I 4 ministri hanno annunciato che si presenteranno all’incontro dell’8 ottobre proponendo di rimettere in discussione il Regolamento Dublino III (una proposta di riforma non è stata presa in considerazione dal Consiglio durante la precedente legislatura) di rivedere in chiave europea le norme sull’asilo e di voler definire sanzioni o minori contributi da parte dell’UE per i paesi che non accetteranno migranti. Tanto è bastato a far dire alla neoministra italiana Lamorgese “l’Italia non è più sola”. Intanto questo lo si potrà capire effettivamente soltanto dopo il vertice pieno di Lussemburgo, è facile pensare che il blocco Visegrad, alcuni paesi del Nord Europa e per ragioni diverse, altri dell’Europa Meridionale, potrebbero rivederlo in chiave più restrittiva producendo nell’immediato ben pochi cambiamenti. Anche sospendendo il giudizio però gli aspetti negativi dell’accordo permangono, tanto su questioni politiche che pragmatiche e operative. Dal punto di vista politico, dal primo novembre, al posto del Commissari all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos, legato comunque al vecchio governo greco, ci sarà il connazionale Margaritis Schinas, del partito di centro destra Nea Demokratia, uscito vincitore dalle ultime elezioni elleniche, e che si occuperà di queste tematiche all’interno del suo ruolo di Commissario per la tutela dello “stile di vita europeo”. Un termine che ha generato numerose polemiche e che però denota una svolta estremamente inquietante non solo dal punto di vista semantico. C’è poi un secondo punto, ormai divenuto “normalità”. I migranti soccorsi non potranno decidere autonomamente in quale paese recarsi, saranno pacchi da smistare e non soggetti che magari, avendo relazioni familiari, affettive o vicinanze linguistiche in alcuni paesi più che in altri, se messi in condizione di poter decidere peserebbero anche meno e per meno tempo per il paese ospitante. Di questo nel minivertice non si fa menzione. Potrebbe divenire tema di discussione ma non sembra interessare troppo i contraenti. Ma su una serie di punti (il testo ne contiene 15) che si concentrano le maggiori perplessità. Per le navi delle Ong non solo permangono i vincoli del Codice di condotta di Minniti ma anzi ne viene aumentata la portata. Ad esempio se durante un soccorso, una nave della cosiddetta Guardia costiera libica, intercetta i naufraghi o ne pretende, in quanto l’operazione si svolge nella propria zona SAR (Search And Rescue), la restituzione, la nave umanitaria deve riconsegnare le persone. Se applicato alla lettera questo significa poter far ridivenire la Libia un “porto sicuro” e questo proprio la recrudescenza della guerra civile e le persecuzioni verso i migranti detenuti nei centri di detenzione si acuiscono. Un verdetto di morte, le persone si getteranno in mare e preferiranno morire piuttosto che tornare dal paese da cui fuggono. Ultimo passaggio e forse ancora più grave, l’Italia nel vertice è stata ampiamente lodata per i risultati ottenuti attraverso il Mou con la Libia del febbraio 2017 (Minniti). Si invita pertanto il nostro paese a rinnovare e a potenziare gli accordi col regime di Serraj perché funzionante come ostacolo agli arrivi. Un macigno per chiunque sperava in un percorso di liberazione per i prigionieri in Libia e per la ripresa di un percorso di dignità e diritti in Europa. Il 3 ottobre è ormai diventato “giornata della memoria e dell’accoglienza” di quello che è accaduto nei giorni successivi e poi nei mesi e negli anni, meglio non far menzione. Che il vertice a Lussemburgo si tenga fra date drammatiche per quanto riguarda il bilancio delle vittime di leggi repressive e inutili ha un preoccupante valore simbolico, potrebbe voler dire, perdonateci il pessimismo, che l’Europa continua sulla sua strada di morte e di muri.