Dalla guerra ai migranti quale sicurezza ?

1.A partire dall’11 settembre 2001 abbiamo assistito all’uso strumentale delle categorie di sicurezza interna ed internazionale, di ordine pubblico (nei confronti del nemico interno) con una confusione sempre più evidente tra le tante guerre in corso nelle aree più povere del mondo, le minacce del terrorismo internazionale ed i sistemi di difesa dei confini e di esternalizzazione delle frontiere. Dal Consiglio di Tampere del 1999 alle decisioni adotatte a livello europeo e nazionale negli anni successivi si è verificato un progressivo abbattimento dei livelli di garanzia dei diritti umani, e del diritto di asilo, previsti dalle Costituzioni e dalle Convenzioni internazionali seguite al secondo conflitto mondiale. I processi di globalizzazione hanno prodotto un impoverimento diffuso, la frantumazione delle classi sociali e l’aumento dei divari nella distribuzione della ricchezza, su scala nazionale ed internazionale. E’ cresciuta in molti paesi europei l’esigenza di una nuova forza lavoro d’importazione, e per un primo periodo si scambiava una possibilità di regolarizzazione, anche successiva all’ingresso (in Italia con le grandi sanatorie dal 1998 al 2008) con la concessione di uno status di cittadinanza inferiore, caratterizzato da una elevata discrezionalità nel rilascio e nel rinnovo dei permessi di soggiorno. Le politiche di contrasto delle cd. migrazioni irregolari, e di subordinazione hanno eroso lentamente il riconoscimento effettivo dei diritti fondamentali della persona migrante. Con una preoccupante continuità tra governi di segno diverso, come si è verificato ad esempio nei rapporti tra l’Italia e la Libia.

Sul piano interno le spinte populiste hanno riacceso una vera e propria competizione tra poveri, sfruttata dagli imprenditori politici della paura. Ma in Italia è ormai guerra, piuttosto che alle povertà, ai poveri, non solo contro i migranti ma anche ai giovani senza lavoro, illusi dalle promesse di un reddito di “cittadinanza” che diventerà un ulteriore fattore di discriminazione. Mentre è in corso una guerra alle classi economicamente più deboli, scompare il ceto medio e il divario sociale all’interno della nostra società si amplia giorno dopo giorno. Da questi processi vengono fuori rancore sociale e odio per i diversi. I principali bersagli di questa conflittualità diffusa sono ancora una volta le persone di origine straniera.

La differenza religiosa viene sfruttata per alimentare le politiche di esclusione e di criminalizzazione. I migranti, soprattutto se di religione diversa da quella cristiana, sono ritenuti come una fonte sempre più diffusa di insicurezza e dunque soggetti a forme diverse di controllo e di confinamento, a fronte della conclamata impossibilità di allontanamenti di massa. Qualunque loro manifestazione di presenza, soprattutto sul fronte dei cosiddetti “sbarchi”, ma adesso anche nei quartieri urbani, è diventata conferma dell’esistenza di un nemico interno ed occasione di propaganda elettorale. Che ha toccato l’apice in occasione di delitti che hanno influenzato il corpo elettorale, ben al di là della dimensione personale della vittima o della sanzione penale individuale. Si è così legittimata, già nella passata legislatura, nel senso comune della popolazione, una nuova dimensione di responsabilità collettiva, in luogo del carattere personale della sanzione penale affermato dalla Costituzione italiana, con un capovolgimento della cd. presunzione di innocenza e con la criminalizzazione di un numero crescente di migranti, e di chi presta loro assistenza. Una strategia di emergenza, da stato di eccezione, nei confronti di soggetti target individuati per l’appartenenza ad un gruppo sociale, che si riproduce giorno dopo giorno, a tutto vantaggio di chi predica che i valori della libertà si devono piegare alle esigenze del controllo e della securizzazione. Decisivo in questa direzione il ruolo dei mezzi di informazione, e più di recente della comunicazione sui cd. social, oltre che sulla carta stampata. Nei fatti, un allontanamento dai principi cardine di garanzia dello stato di diritto sanciti nella Costituzione repubblicana.

Ci si avvia così alla creazione di diversi “regimi di cittadinanza” con nuove forme di stratificazione, anche tra coloro che chiedono protezione, o di “esclusione dall‟interno”, come si è verificato con la sottovalutazione dei ghetti agricoli e dei connessi fenomeni di caporalato. Si eclissa la prospettiva europea. Le politiche di immigrazione e asilo sono sempre più lasciate alla regolamentazione degli Stati nazione, sotto l’influenza di partiti populisti o apertamente nazionalisti. Con il progressivo oscuramento di quei diritti umani e di quelle garanzie che si trovavano sancite nelle Convenzioni internazionali e nelle Costituzioni nazionali, oltre che nella normativa dell’Unione Europea.

2. Nei suoi sviluppi più recenti, dopo il fallimento delle prospettive di regolamentazione della mobilità migratoria a livello europeo, si assiste ad una intensa iniziativa degli stati, spesso in concorrenza tra loro, per interessi economici confliggenti e per effetto dei risorgenti nazionalismi, proiettati verso la conclusione di accordi con i paesi di origine e transito dei migranti. Accordi che nei fatti circoscrivono l’ambito dei diritti fondamentali che vengono riconosciuti ai migranti in quanto persone.

Con il Processo di Khartoum prima (un accordo siglato il 28 novembre 2014 a Roma, tra stati Ue, Paesi del Corno d’Africa e Paesi “di transito” per il controllo dei flussi migratori) e con la Conferenza europea di Malta del 3 febbraio 2017 poi – si è offerta la “base di lancio” per le destre europee per un ulteriore chiusura su questioni come il diritto di asilo e la distribuzione dei richiedenti asilo fra i vari Paesi europei, questioni che bisognava affrontare non in chiave securitaria, ma in una chiave di accoglienza e di equa distribuzione dei suoi oneri. La situazione attuale in Sudan ed in molti stati dell’Africa subsahariana a sud della Libia prova come gli accordi bilaterali mirati esclusivamente al contenimento della mobilità migratoria attraverso la militarizzazione delle frontiere producano conflitti permanenti legittimando regimi come quello sudanese.

La situazione in Libia è degenerata proprio dopo l’intensificazione della collaborazione dei libici con l’Italia nelle operazioni di blocco e di respingimento dei migranti in mare, a partire dal mese di giugno del 2018. Se poi si considera il fronte della cooperazione giudiziaria e di polizia quegli stessi accordi producono risultati disumanizzanti che si concretizzano in arresti spettacolari, come nel caso del preteso trafficante Mered arrestato nel 2016 in Sudan, ed in processi che palesano la effettiva portata degli accordi di cooperazione e non sembrano destinati a bloccare effettivamente le filiere criminali ancora saldamente radicate all’estero. Intanto gli accordi bilaterali con paesi che non rispettano i diritti umani, come l’Egitto, lo stesso Sudan e tanti altri bene individuati nei rapporti annuali di Amnesty International creano una pericolosa assuefazione nell’opinione pubblica occidentale, e rischiano di contaminare il tessuto democratico dei paesi aderenti all’Unione Europea, con pericolosi processi osmotici delle formazioni identitarie di estrema destra presenti in Europa e finanziate a livello globale..

Il “surriscaldamento” del clima politico, in vista delle prossime scadenze elettorali, sta riproponendo l’ennesimo capovolgimento della narrazione dei fatti concernenti le più importanti questioni di politica estera e interna, con particolare riferimento ai temi della migrazione e dei rapporti con i paesi terzi, ai quali si affida da tempo il compito di intercettare i migranti e impedire che possano raggiungere l’Europa.

Gli ultimi viaggi in Africa dei governanti italiani e la Conferenza di Palermo sulla Libia, nel novembre dello scorso anno, continuano ad essere spacciate come basi per la “pacificazione” dei paesi di transito e per un ulteriore inasprimento delle misure di contrasto di quella che si continua a definire soltanto come immigrazione “illegale”. Tutti vedranno gli effetti negativi di politiche mirate soltanto a bloccare la mobilità migratoria, anche a costo di cancellare il riconoscimento effettivo dei diritti umani. Chi oggi promette sicurezza ed alimenta lo scontro con i migranti, dovrà rendere conto della insicurezza che è derivate dalle scelte politiche e giudiziarie che tendono soltanto a criminalizzare la mobilità e la presenza degli stranieri in Italia.

Gli accordi conclusi con i paesi “terzi” da singoli stati europei o dall’Unione nel suo complesso, colpiscono direttamente coloro che sono fuggiti, anche per ragioni economiche, da paesi nei quali i diritti delle persone sono filtrati dalla più assoluta discrezionalità delle autorità di governo e delle milizie o forze di polizia alle loro dipendenze. Una discrezionalità che sconfina spesso nell’arbitrio e nella corruzione diffusa se non nella violenza di genere o su base etnica. Emblematici i diversi, ma connessi, regimi che governano i paesi dell’Africa subsahariana a sud della Libia, destinatari da tempo di una intensa iniziativa diplomatica, anche da parte del governo italiano.

In molti casi, piuttosto che favorire una democratizzazione di quei paesi o una qualsiasi mobilità umana attraverso canali legali di ingresso, si è preferito rafforzare la cooperazione di polizia, se non militare, per tentare di ridurre le partenze. Se sono diminuiti gli sbarchi, nessuno parla degli immigrati che entrano regolarmente con un visto di ingresso breve e poi, dopo la scadenza del visto Schengen, rimangono in Italia a tempo indeterminato, senza permesso di soggiorno. Certo gli sbarchi sono diminuiti, ma anche le attività di soccorso dovute dagli stati, e dall’Italia in prima linea, si sono rarefatte. La conta dei morti in mare, ma anche nei deserti, non si ferma, anche se adesso si cerca di nascondere i naufragi e di colpire gli ultimi testimoni indipendenti rimasti in mare.

Nessuno stato europeo, nè tantomeno l’Unione Europea, ha garantito, o soltanto agevolato, l’effettivo rispetto dei diritti umani ” a casa loro” e i processi di riconciliazione democratica e di soluzione pacifica dei conflitti nelle aree geografiche dalle quali sono fuggiti, e continuano a fuggire, centinaia di migliaia di persone attratte dalla speranza che in Europa le garanzie accordate dalle Costituzioni degli stati democratici . Una speranza che si trasforma presto in disillusione quando poi si viene risucchiati nel sistema di protezione e nel reticolo di procedure che, oggi più che in passato, risultano finalizzate all’esclusione ed alla subordinazione. Come confermano gli ultimi dati relativi ai dinieghi pronunciati dalle Commissioni territoriali competenti per il riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria.

La strategia della militarizzazione delle frontiere è stata affidata agli Stati più esterni, con l’Italia che ha gestito i rapporti con il governo di Tripoli e la Grecia che ha dato attuazione, con un legge, agli accordi segreti tra gli stati dell’Unione Europea e la Turchia. L’attacco alle ONG che operavano soccorsi umanitari, prima nell’Egeo e poi nel Mediterraneo centrale, è stato un tassello centrale della politica di esternalizzazione dei controlli e di militarizzazione delle frontiere marittime. Le politiche di chiusura delle rotte migratorie via mare, e quelle meno enfatizzate di blocco delle frontiere terrestri, hanno prodotto, e continuano a produrre, migliaia di vittime e sofferenze indicibili, che si tende a nascondere all’opinione pubblica, nel tetativo di rassicurare i cittadini votanti che “i flussi migratori” sono sotto controllo, se non drasticamente bloccati. Per questo sono state lanciate, avvalendosi degli strumenti di comunicazione più mderni, vere e proprie campagne di aggressione politica, giudiziaria, e mediatica delle Organizzazioni non governative e degli operatori umanitari. Che comunque costituivano testimoni pericolosi perchè in grado di smentire la narrazione dominante e di restituire visibilità alle vittime delle politiche di sbarramento delle frontiere e di chiusura dei porti.

I crescenti limiti posti, tanto alle frontiere esterne che nelle procedure interne, all’effettivo riconoscimento del diritto alla protezione internazionale, pure riaffermato nella Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea con il divieto di espulsioni collettive (art.18 e 19), se non sono riusciti a trasformare l’Europa in una “fortezza”, perchè le frontiere sono rimaste ovunque penetrabili, hanno prodotto vittime e meccanismi di subordinazione, con barriere sempre più alte nei confronti di coloro cui non si riconoscono i “requisiti” per essere ammessi legalmente nello spazio politico e giuridico europeo. La vicenda della guerra ai soccorsi umanitari sulle rotte del Mediterraneo, e poi l’abbattimento delle garanzie procedurali previste dalle Convenzioni internazionali e dalle direttive europee in favore dei richiedenti asilo, per non parlare dei minori e delle donne vittime di violenza, o della tratta, o di altri soggetti vulnerabili, come le vittime di tortura, resteranno nella storia delle migrazioni, con i nomi facilmente individuabili dei responsabili e dei loro complici.

3. La restrizione dei casi di riconoscimento della protezione internazionale, con la chiusura delle possibilità di protezione umanitaria, la proliferazione di sanzioni penali, viste come unico strumento per contrastare l’immigrazione irregolare, ed il legame perverso tra il permesso di soggiorno ed il contratto di lavoro, imposto per la regolarizzazione dei cd. migranti economici, producono la moltiplicazione dei migranti costretti alla irregolarità, come anche dei richiedenti asilo e dei rifugiati, perennemente confinati in un limbo tra legalità e illegalità. Moltiplicazione della clandestinità che deriva anche dalla previsione sempre più ampia (anche se poco realizzabile) di spazi di confinamento, come i centri di detenzione, oggi definiti CPR ( Centri per il rimpatrio) anche per i richiedenti asilo, o di aree geografiche di esclusione (come si verifica in qualche isola, da Lesvos a Lampedusa, o per molte strutture di accoglienza di grandi dimensioni, come il centro CARA di Mineo). In vista di un possibile allontanamento forzato che appare destinato a rimanere un brutto manifesto elettorale. L’efficacia delle procedure di allontanamento forzato, e ancora meno la sicurezza dei cittadini, non vengono certo garantite dalla moltiplicazione delle strutture detentive o dalle sanzioni penali, a fronte di carceri ormai affollate fino al collasso. Si è già visto nella passata legislatura come sia ben difficile che le regioni, anche quelle a guida leghista, accettino l’apertura di altri centri di detenzione per irregolari sul loro territorio.

Il connubio che si vuole imporre tra immigrazione e (in)sicurezza costituisce un fattore di disumanizzazione quando le esigene di protezione dei confini e della pretesa sicurezza dei cittadini autoctoni prevalgono sul riconoscimento dei diritti fondamentali dei migranti come persona, diritti che in Italia la Costituzione e l’art.2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998 attribuiscono a tutti gli stranieri “comunque” presenti alla frontiera o nel territorio nazionale, a cui vanno garantiti ” i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti. Come ha insegnato la Corte Costituzionale con la sentenza n.105 del 2001, “per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”.

Le normative nazionali con riguardo agli immigrati irregolari, ed a maggior ragione per quelli regolarmente residenti, non possono violare quei diritti fondamentali. Non si possono violare le norme internazionali sui soccorsi in mare impedendo alle Organizzazioni non governative di portare a compimento le azioni di ricerca e salvataggio, raggiungendo nel tempo più breve possibile un porto sicuro di sbarco. E non si possono violare le Convenzioni internazionali che vietano il respingimento verso un paese non sicuro ( Convenzione di Ginevra art. 33) o le Costituzioni nazionali che prevedono il diritto di asilo con una estensione che ricomprende anche la cd. protezione umanitaria ( come la Costituzione italiana all’art.10).

Allo stesso modo non si possono violare le Convenzioni internazionali e le norme Costituzionali che vietano qualunque discriminazione basata sulla origine etnica o sulla provenienza nazionale. E dunque tutte le norme contenute nei pacchetti sicurezza, come quello Maroni del 2009 o nei decreti sicurezza, come quello convertito nella legge 132 del 2018, vanno interpretate ed applicate sulla base del principio di gerarchia delle fonti, senza dare maggiore rilevanza ad una circolare ministeriale, attuativa della legge, rispetto al principio affermato nella Carta Costituzionale. Così , ad esempio, in materia di obbligo di iscrizione anagrafica in favore di tutti i cittadini stranieri, inclusi i richiedenti asilo, regolarmente soggiornanti in Italia, come prevede espresamente l’art. 6 comma 7 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998.

4. In tutti i casi di violazione di norme di rango superiore, da parte di autorità statali, per effetto di disposizioni legislative o di direttive amministrative di rango inferiore, come le circolari, occorrerà moltiplicare i ricorsi giurisdizionali e creare reti di difesa, sul piano legale e sociale, attorno alle vittime. Fondamentale il ruolo degli enti intermedi e delle comunità locali, che dvrebbero intensificare i tentativi di aggregazione e di raccordo su scala internazionale. Le pesanti violazioni dei diritti fondamentali dei migranti, sulle rotte balcaniche, ai confini alpini, come nelle acque del Mediterraneo, non possono essere contrastate con azioni pure importanti a livello locale. O come a Ventimiglia con il sacrificio di pochi cittadini solidali. Occorre una risposta coordinata anche a livello nazionale ed internazionale. Per questo vanno ricostituite reti di solidarietà in grado di reagire sul terreno giudiziario e politico.

Le prossime scadenze elettorali non potranno che aggravare il clima politico e sociale ed incidere su applicazioni sempre più restrittive delle normative su immigrazione ed asilo. Sarà importante soprattutto l’intervento degli organi giurisdizionali, perchè l’attuale quadro politico non sembra offrire prospettive di una qualsiasi inversione di tendenza in materia di politiche migratorie. Tutti dovrebbero percepire chiaramente i rischi ai quali sono sottoposte le democrazie rappresentative in Europa, sotto la spinta dei partiti populisti che cercano di scavalcare gli enti intermedi, incluso il privato sociale, per instaturare un rapporto diretto tra il “capo” ed il suo popolo. Come si sta verificando in Italia con lo svuotamento del ruolo decisionale delle assemblee parlamentari.

Le proposte di discontinuità che dovrebbero essere sottoposte in materia di immigrazione ed asilo, soprattutto a quanti si candideranno al Parlamento europeo, sono quelle che prevedono la possibilità di ingresso legale per lavoro, di liberalizzazione dei visti di ingresso o di successiva regolarizzazione permanente a regime, l’apertura di canali legali di ingresso per i richiedenti asilo, ben oltre i modesti sbocchi garantiti dai corridoi umanitari, il superamento dell’iniquo Regolamento Dublino, e una disciplina di effettiva tutela per i minori isolati e le vittime di tratta, con una riduzione dei poteri discrezionali esercitati, talora ai limiti dell’arbitrio, dalle autorità amministrative. Il fronte dei centri di detenzione (CPR) sarà uno snodo cruciale di questi impegni, da Milano e Torino alla Sicilia, come nel resto d’Europa.

L’impegno principale sul quale dovranno giocarsi le prossime scadenze elettorali si dovrà incentrare su una difesa strenua, contro lo stato di eccezione, dei fondamenti della democrazia rappresentativa, dal principio di eguaglianza (art.3) al diritto di asilo (art.10), dal diritto di difesa (art.24) al principio di divisione dei poteri, che proprio in materia di immigrazione ed asilo abbiamo visto tante volte tradito o aggirato. Come nel caso delle inchieste contro le ONG o della ratifica giudiziaria dell’operato dei ministri che hanno chiuso i porti italiani alle navi di soccorso. Per questo la (de)crimininalizzazione del soccorso umanitario costituisce una questione decisiva che non riguarda soltanto le ONG direttamente coinvolte e le persone che attendono di essere soccorse, ma investe la responsabilità di tutti.