Il Decreto Salvini, una stretta pericolosa, di Eleonora Andriolo

Il decreto-legge “immigrazione e sicurezza” del Ministro dell’Interno Matteo Salvini è stato presentato ed approvato dal Consiglio dei Ministri in data 24 settembre 2018. Per l’entrata in vigore si dovrà aspettare la firma della Presidente della Repubblica, incaricato di valutare l’urgenza del provvedimento: in caso di approvazione, spetterà infine al Parlamento convertire il decreto in legge, entro 60 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

Il contenuto non si discosta molto da quello della bozza e annessa relazione illustrativa, diffuse il 6 settembre dall’agenzia Adnkronos, recante “disposizioni urgenti in materia di rilascio di permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario nonché in materia di protezione internazionale, di immigrazione e di cittadinanza”. Il decreto-legge rappresenta il naturale proseguimento delle dichiarazioni del leader del Carroccio degli ultimi mesi in tema di immigrazione, dai toni forti, di chi è in continua campagna elettorale, alla costante ricerca di consensi.

Il decreto, se approvato dal Parlamento nella sua forma attuale, comporterebbe notevoli restrizioni alla disciplina in materia di cittadinanza, protezione internazionale ed umanitaria. Il testo interviene infatti su diversi profili del diritto d’asilo, dall’abolizione dell’istituto della protezione umanitaria, alla previsione di nuove misure per garantire l’effettività dei rimpatri, passando per la stretta sui motivi di concessione e revoca della cittadinanza, fino alla limitazione di accesso al sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR). Tuttavia, a pochi giorni dalla diffusione ed approvazione del decreto immigrazione, le misure in esso contenute sono state oggetto di critiche di incoerenza e incostituzionalità.

Cosa cambia con il decreto-legge immigrazione: gli aspetti salienti

Protezione umanitaria

Nella relazione illustrativa diffusa da adnkronos si legge che “esiste sproporzione tra il numero di riconoscimenti delle forme di protezione internazionale espressamente disciplinate a livello europeo (nell’ultimo quinquennio, status di rifugiato: 7%; protezione sussidiaria: 15%) e il numero dei rilasci del permesso di soggiorno per motivi umanitari (25%, aumentato fino al 28% per l’anno in corso)”, anche a causa delle decisioni positive assunte dai giudici.

Se nella Circolare ministeriale del 4 luglio 2018 il Ministro dell’Interno chiedeva alle Commissioni e Sezioni Territoriali “il più assoluto rigore e scrupolosità nella valutazione dei casi” questa volta si spinge oltre, abrogando la protezione umanitaria, sostituita da una tipizzazione delle altre forme di protezione complementare (motivi di salute di eccezionale gravità, calamità naturali nel Paese di origine, permesso-premio per gli atti di particolare valore civile). La logica dietro questa misura, dettata da motivazioni economiche e che porterebbe ad un aumento del numero di stranieri irregolari, non tiene tuttavia in considerazione che la protezione umanitaria – attualmente disciplinata dall’articolo 5, co. 6 del Testo Unico del 1998 (d.lgs. 286/98) – offre una forma di tutela residuale e necessaria per quei soggetti meritevoli di protezione che però non rientrano nella definizione ginevrina di rifugiato o di protezione sussidiaria: è questo il caso, tra gli altri, dei migranti che hanno subito violenze in Paesi di transito come la Libia nel tentativo di raggiungere l’Europa.

Il riconoscimento della protezione umanitaria non è quindi un “regalo” frutto della benevolenza del funzionario di turno, ma un diritto dello straniero: in materia sono infatti numerose le pronunce giurisprudenziali, a seguito di dinieghi da parte delle Commissioni Territoriali.

Oltre alle criticità evidenziate, inoltre, se approvata la misura potrebbe essere tacciata di incostituzionalità. La protezione umanitaria trova infatti il proprio fondamento direttamente nell’articolo 10 co. 3 della Costituzione italiana, che – dando seguito anche a quanto previsto nei commi 1 e 2 sulla conformità della legge italiana al diritto internazionale – prevede una forma di “asilo costituzionale” per lo straniero che nel suo Paese non può godere dell’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite invece dalla nostra Costituzione, “secondo le condizioni previste dalla legge”. Non esistendo ad oggi nell’ordinamento giuridico italiano una legge attuativa del portato costituzionale sopracitato, tale garanzia si risolve residualmente nell’istituto della protezione umanitaria come regolato dall’art. 5 co. 6 del TU, anche in quanto contemplato, ma non regolato, dalla legislazione derivante dal diritto dell’Unione europea.

Infine, sul dibattuto tema dell’esistenza negli altri Stati membri di una forma di protezione concessa sulla base di “humanitarian grounds”, i dati Eurostat smentiscono il governatore leghista del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga secondo cui quest’ultima “va tolta perchè esiste sono in Italia”.

Le altre misure del decreto

Anche per le altre misure contenute nel decreto, la ratio non cambia: la presunta razionalizzazione economica e velocizzazione dei tempi sembrano essere il fil rouge che lega tutti i provvedimenti presenti nel decreto.

La decisione di limitare l’accesso allo SPRAR ai minori stranieri non accompagnati e ai rifugiati, lasciando i restanti richiedenti protezione in strutture quali CAS (centri di accoglienza straordinaria) e CPA (centri di prima accoglienza) rappresenta un passo indietro nelle politiche di integrazione degli stranieri, che al contrario necessitano di maggiori pratiche di inclusione sociale, anche al fine di evitare situazioni di marginalizzazione.

Tale preoccupazione emerge anche dalle parole di Gianfranco Schiavone, vice-presidente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che afferma: Cancellare l’unico sistema pubblico di accoglienza che funziona appare come uno dei più folli obiettivi politici degli ultimi anni. […] La sua caratteristica di sistema unico di accoglienza sia dei richiedenti che dei rifugiati dentro un’unica logica di gestione territoriale è ciò che ha reso lo Sprar un sistema efficiente e razionale. Senza questa unità non rimane più nulla”.

La linea del governo va invece nella direzione opposta: un tale stravolgimento del sistema di accoglienza non solo valorizza le buone pratiche dello SPRAR, che funzionano grazie all’impegno volontario degli oltre 400 Comuni ed enti del terzo settore coinvolti, ma al contrario punta tutto sulla normalizzazione dei centri straordinari e precari, spesso dalla dubbia gestione.

A discapito di questi tagli, aumentano invece i fondi destinati ai rimpatri, pur senza garanzia di accordi con i Paesi terzi sicuri per la loro effettiva esecuzione. Inoltre, in una logica in cui l’espulsione è prioritaria rispetto all’accoglienza, il decreto propone l’aumento da 90 a 180 giorni della durata della detenzione dei migranti nei CPR (centri di permanenza per il rimpatrio); questo termine coincide con il periodo massimo di possibile trattenimento secondo la direttiva rimpatri (Direttiva 2008/115/CE), già oggetto nel suo recepimento tutto italiano di una pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea nel caso El Dridi del 2011.

Eppure, se il Ministro Salvini sponsorizza i centri di CPR – ex Cie – come rapida soluzione per l’allontanamento degli stranieri, paradossalmente la detenzione in tali centri non fa invece che ritardare l’esecuzione del rimpatrio, aumentandone i costi di gestione. Infine, il decreto sembra dimenticare la gradualità della misura, che dovrebbe al contrario – salvo in specifiche circostanze – incentivare per i destinatari dei provvedimenti la possibilità di una partenza volontaria, possibilmente assistita.

Tralasciando, poi, le ulteriori misure restrittive presenti nel decreto, quali ad esempio l’ampliamento della categoria dei reati che comportano la revoca o diniego della protezione internazionale, un accenno va fatto alle nuove norme relative alla concessione e revoca della cittadinanza.

Risulta infatti difficile non ritenere discriminatoria la norma secondo cui la cittadinanza italiana andrebbe revocata a quei cittadini condannati per atti terroristici o eversione dell’ordine costituzionale, ma – attenzione! – esclusivamente se “stranieri”: un vero e proprio corto circuito logico.

Al pari della norma sulla protezione umanitaria, anche tale norma presenterebbe un profilo di incostituzionalità, andando a scontrarsi con l’articolo 3 co. 1 della Costituzione secondo cui “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Infine, si ricorda che un simile tentativo di riforma costituzionale volto alla revoca della cittadinanza ai condannati per terrorismo con doppia cittadinanza era stato avviato dalla Francia di François Hollande all’indomani degli attacchi terroristici del 13 novembre 2015. Il tentativo di riforma – che spinse alle dimissioni dell’allora ministra della giustizia francese Christiane Taubira – venne abbandonato proprio a causa del contrasto con uno dei pilastri della Repubblica francese: il rispetto dell’égalité.

In conclusione, è evidente come il decreto-legge manchi di una propria coerenza interna e lungimiranza, andando ad inasprire con norme dalla dubbia legittimità costituzionale, una situazione già precaria in preoccupanti tempi di razzismo diffuso. Affidandosi a misure che sembrano pensate con finalità di deterrenza, l’approccio securitario del Governo contrappone al rispetto dei diritti umani e delle esigenze di protezione l’insicurezza degli italiani.

Eleonora Andriolo