Quelle tracce di sangue che legano l’abbandono in mare alla guerra in Libia

di Fulvio Vassallo Paleologo

Dietro il clamore mediatico derivante dalle indagini della magistratura sul blocco di 177 naufraghi a bordo della nave Diciotti della Guardia costiera italiana, prima a Lampedusa e poi nel porto di Catania, si cela un collegamento diretto tra la sorte (ancora attuale) dei migranti intrappolati nei centri di detenzione libici tra le fazioni in conflitto e il nuovo tentativo di respingimento che si è tradotto ancora una volta nel diniego di attracco in un porto italiano. La stuazione di scontro militare a macchia di leopardo sul territorio libico, con rapidi capovolgimenti di fronte, sta bloccando temporaneamente le partenze, al punto che taluni centri di detenzione sono abbandonati dalle milizie che li controllano ed i migranti si trovano esposti tra i due fuochi. A questa situazione, e non certo alle politiche governative di deterrenza dei soccorsi umanitari praticati dalle ONG, che si deve l’ulteriore calo delle partenze dalla Libia registrato nel mese di agosto. A fronte delle posizioni del governo italiano e della situazione in Libia, le prospettive sulla rotta del Mediterraneo centrale rimangono assai preoccupanti.

Se gli accordi con la Guardia costiera libica risalgono allo scorso anno,nel quadro del Memorandum d’intesa stipulato il 2 febbraio 2017 da Gentiloni con il governo di Tripoli, è dal mese di giugno di quest’anno che il governo italiano ha rinforzato la pressione, prima sulle ONG, poi sulla Guardia costiera, quindi sulle navi della missione europea Eunavfor Med  (Sophia), per impedire attività di salvataggio in acque internazionale. In modo che fossero le motovedette di Tripoli e Zawia a intercettare in alto mare i barconi carichi di migranti ed a ricondurli in territorio libico. Dopo lo sbarco in Libia, report recentissimi confermano il passaggio dei migranti da un centro all’altro, fino a subire violenze estreme, delle quali si continuano a raccogliere, al di là dei materiali video, circostanziate testimonianze dirette.

Sono stati proprio i migranti sbarcati dalla Diciotti a confermare che le violenze si verificano anche all’interno dei cosiddetti centri governativi, quelli che per il ministro dell’interno italiano sarebbero luoghi sicuri. Addirittura nelle stesse ore nelle quali loro potevano sperimentare a Messina ed a Rocca di Papa “l’accoglienza” degli italiani, altri loro amici più sfortunati continuavano a rischiare la vita nei centri libici nei quali erano internati.

Si è appreso ieri che l’UNHCR ha provveduto all’evacuazione di centinaia di migranti “abbandonati”  nei centri di detenzione ubicati alla periferia di Tripoli, per trasferirli in altri centri “più sicuri”, ma oggi tanti sembrano concordare sul fatto che l’intera Libia non costituisce più un “paese terzo sicuro” nel quale sia possibile individuare “place of safety”  per lo sbarco dei naufraghi intercettati in mare. Sono mesi che l’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite (OHCHR) avverte i gravi rischi che corrono i migranti internati nei centri di detenzione libici, compresi i cd. centri governativi.

Spetta alla magistratura accertare la violazione delle norme relative al soccorso ed allo sbarco in Italia delle persone recuperate in acque internazionali, senza ulteriori intimidazioni da parte della politica che oppone la logica del consenso populista al rispetto della legge e dello stato di diritto.

Quanto è avvenuto in queste ultime settimane potrà ripetersi ancora, come dichiara espressamente il ministro dell’interno, e vicepresidente del Consiglio, ed è dunque importante accertare, oltre la responsabilità penale ed amministrativa, la responsabilità politica di chi continua a ritenere che i respingimenti in Libia delegati alla Guardia costiera di Tripoli siano legittimi, tanto da promettere la cessione di altre motovedette.

Il mancato intervento delle unità italiane nelle acque della zona SAR (ricerca e salvataggio) maltese non può essere ritenuto un atto dovuto, al punto da contestare alla Guardia costiera italiana l’ultimo soccorso operato a sud di Lampedusa, si assume in zona SAR maltese. Quale che sia la dinamica di questo ultimo soccorso, sottoposto adesso al vaglio della magistratura, il mancato intervento delle autorità maltesi non esime l’Italia dal rigoroso rispetto degli obblighi di soccorso affermati dal diritto internazionale.

La salvaguardia della vita umana in mare viene prima degli accordi tra stati e della lotta all’immigrazione irregolare. Come ricorda Annalisa Camilli su l’Internazionale, “Lo ha spiegato molto bene nel maggio del 2017 il procuratore di Trapani Ambrogio Cartosio di fronte alla commissione d’indagine del senato italiano: “Se una nave di una ong, un mercantile, una nave della marina militare, un peschereccio, una privata imbarcazione viene messa al corrente che c’è un’imbarcazione in cui alcune persone rischiano l’annegamento, questa imbarcazione deve essere soccorsa. E questo principio travolge tutto. Viene commesso il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma non è punibile, perché è stato commesso al fine di salvare una vita umana”.

Sotto questo profilo, ed in vista di altri conflitti di competenza che si potranno ancora verificare in futuro, è bene chiarire che Malta, che tiene ancora sotto un sequestro arbitrario tre navi delle ONG, non è palesemente in grado di garantire gli interventi di ricerca e salvataggio che si potrebbero rendere necessari nella sua vastissima zona SAR. La tesi di quelle procure ( di Catania e di Ragusa) che, in linea con i governi in carica, contestavano alle navi delle ONG, come nel caso Open Arms, la mancata richiesta di attracco alle autorità maltesi, sono state disattese dalle successive pronunce dei Tribunali, e dalle esplicite dichiarazioni del governo maltese.

Malta non ha mai accettato le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) che dispongono che il governo responsabile per la regione S.A.R. in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito(salvo casi di emergenza medica MEDEVAC). Il governo maltese dunque non accetta lo sbarco a La Valletta di nessuna persona soccorsa in acque internazionali, all’interno della zona SAR che l’IMO (International Maritime Organization) gli riconosce, da navi private o militari che non battano bandiera maltese.

Esisteva da anni, esattamente dall’avvio dell’Operazione Mare Nostrum, dopo le stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, un accordo tacito di coordinamento SAR delle autorità italiane con Malta (che non ha mai ratificato gli emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR in ordine alla individuazione del porto di sbarco), per garantire la “più rapida conclusione” degli interventi di soccorso in alto mare, come previsto dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare. Al riguardo gli emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR (in particolare, l’emendamento dell’articolo 33 della Convenzione SOLAS e l’emendamento del capitolo 3.1.9. della Convenzione SAR) mirano a garantire che le persone in pericolo in mare vengano assistite con rapidità e, allo stesso tempo, vengano ridotti al minimo gli inconvenienti per la nave che presta assistenza. Rimaneva e rimane tuttora il problema della sovrapposizione parziale delle zone SAR italiana e maltese a sud di Lampedusa, problema che ha sempre trovato soluzione sul piano del coordinamento operativo, senza avere riscontri in accordi formali tra i due paesi. Di certo non sembra ipotizzabile un “asse SAR tra Italia, Malta e Libia”, ammesso che ancora si possa parlare della Libia come di uno stato unitario.

La questione delle zone SAR del Mediterraneo centrale si complicava ulteriormente quando il 28 giugno scorso il governo di Tripoli, su forte pressione del governo italiano, notificava all’IMO l’esistenza di una zona SAR “libica”, . A partire da quella data aumentava  in modo esponenziale il numero delle vittime, anche a seguito dell’intervento delle motovedette libiche, in assenza di una vera centrale operativa di coordinamento nazionale (MRCC). Il governo di Tripoli non disponeva neppure di mezzi nautici e di dotazioni tecnologiche, tali  da garantire la salvaguardia della vita umana in mare,mentre il “ccordinamento di fatto” delle unità libiche continuava ad essere garantito dai mezzi della missione italiana NAURAS presente nel porto di Tripoli con una nave. La nave Caprera  presente da mesi nel porto militare di Tripoli svolge infatti “compiti di nave officina ma anche di coordinamento tra le forze navali libiche e quelle italiane ed europee per la ricerca e soccorso (SAR”). 

Su questo scenario, che si andava complicando giorno dopo giorno per l’aggravamento del conflitto tra le diverse milizie in Libia, anche a Tripoli ed attorno ai centri nei quali venivano internati i migranti intercettati in mare dalla sedicente guardia costiera “libica“, si è calata la politica del nuovo governo italiano, che ha posto in essere una precisa tattica dell’abbandono in alto mare, che si è tradotta in respingimenti collettivi ordinati alle navi private o “delegati” aile motovedette partite da Tripoli. Quando le chamate di soccorso, inizialmente ricevute dalle autorità italiane, sono state “girate” alle autorità libiche che sono intervenute con maggiore frequenza rispetto al passato. Poi si è arrivati alla “chiusura dei porti”,senza adottare provvedimenti formali, prima nei confronti delle imbarcazioni delle ONG, e per le navi commerciali ( Alexander Maersk), poi anche per le navi della Guardia costiera italiana, e sembra adesso anche per le unità delle missioni Eunavfor Med (Sophia) e Themis di Frontex. Il numero dei migranti riportato nei centri di detenzione libici dopo essere stati intercettati dalla guardia costiera di Tripoli, per effetto di queste scelte politiche, è così aumentato in modo  vertiginoso.

L’esigenza degli stati di contrastare l’immigrazione irregolare non può giustificare in alcun modo accordi con autorità di governo che non riescono ad impedire arresti arbitrari in condizioni disumane e violenze ( anche sessuali) tanto gravi come quelle che riferiscono ogni giorno i migranti fuggiti dall’inferno libico.

Le responsablità politiche di quanto subiscono i migranti intrappolati oggi in Libia sono chiaramente legate, con una diversa scala di gravità, alle scelte dei governi che si sono succeduti nel tempo. Si è preferito puntare su accordi che nel breve periodo garantissero il blocco dei migranti in Libia, concentrando gli sforzi sulla eliminazione delle ONG,  piuttosto che ricostruire un quadro di conciliazione e di sicurezza per tutti, migranti e libici, in quel paese ormai da anni preda delle lotte tra tribù e milizie. Sono ormai evidenti. le responsabilità dell’Unione Europea, incapace di risolvere la competizione tra Italia, sostegno del governo filo-occidentale di Serraj a Tripoli, e Francia, più vicina alle posizioni del generale Haftar, a sua volta sostenuto dalla Russia e dall’Egitto.

Come ha osservato Luigi Ferrajoli, “una linea molto dura e crudele era già stata avviata con successo dal ministro Minniti del passato governo. La differenza è che la pratica disumana del respingimento, che in passato veniva negata e occultata, viene oggi sbandierata proprio perché fonte di facile consenso. Salvini non si limita a interpretare la xenofobia, ma la alimenta e la amplifica, producendo effetti distruttivi sui presupposti della democrazia.”

In Italia in un dibattito pubblico ormai inquinato da sofisticate tecniche di orientamento del consenso si sta cercando di confondere i diversi piani di responsabilità, con l’obiettivo di una assoluzione generale di vertici ed esecutori, in nome del blocco degli arrivi e della criminalizzazione di ogni forma di solidarietà. Al di là del trattenimento arbitrario inflitto ai naufraghi soccorsi dalla nave Diciotti il 16 agosto scorso, si tratta adesso di individuare responsabilità di natura legale da fare valere davanti alle corti internazionali ed ai giudici italiani qualora si verifichino casi di mancato intervento di salvataggio in acque internazionali, per ordine del ministero dell’interno, ed in aperta violazione delle Convenzioni internazionali e del diritto interno.

Il ministro dell’interno Salvini, anche nella veste di vicepresidente del Consiglio, ha affermato in diverse occasioni che qualora l’Unione Europea non avessero accettato la sua posizione sulla distribuzione dei naufraghi soccorsi in acque internazionali, il governo italiano avrebbe adottato scelte unilaterali, per impedire comunque lo sbarco di altri immigrati in Italia, sulla base del cd. modello australiano NO WAY. Per il ministro le contestazioni penali elevate dalla procura di Agrigento sono medaglie.

Se queste dichiarazioni di Salvini, che intanto hanno avuto un sicuro effetto sul piano della propaganda elettorale, dovessero tradursi in scelte operative con ordini non intervento o di riconsegna di migranti intercettati in acque internazionali a motovedette libiche, come pure ordinò Maroni nel 2009 dopo il caso Hirsi, prima che nel 2012 la Corte europea dei diritti dell’Uomo condannasse quei respingimenti collettivi, l’Italia potrebbe essere convenuta ancora una volta davanti la Corte di Strasburgo. Ancora oggi la Libia, o quello che ne rimane nel conflitto tra le diverse autorità che se ne contendono il controllo, non è un paese nel quale è possibile respingere o fare ritornare persone migranti.

Se il governo italiano, o il vicepresidente del Consiglio Salvini, deluso dalla mancata modifica della missione Eunavfor Med (Sophia) o dalle risposte di rifiuto sulla richiesta-ricatto di ricollocazione dei migranti soccorsi in mare verso altri paesi UE, dovesse dare ordine alle unità della Marina e della Guardia costiera italiana di non intervenire, dopo la denuncia di un evento SAR, in attività di ricerca  e salvataggio in acque internazionali non ricadenti nella zona SAR italiana, anche con riferimento alla zona SAR tunisina che il governo di Tunisi non ha mai formalizzato, si potrebbe configurare una vera  e propria omissione di soccorso. Da riferire a tutti i gradi della catena di comando dei diversi ministeri che dessero esecuzione ad un ordine illegittimo comunque impartito, o imposto, quale che sia il mezzo utilizzato, dal ministro dell’interno. Omissione di soccorso che potrebbe assumere contorni ancora più gravi qualora dal mancato intervento di salvataggio dovessero verificarsi altre stragi, come quelle del 3 e dell’11 ottobre 2013, sulle quali rimangono ancora aperti indagini e procedimenti penali.

Lo stato di diritto non si può piegare al populismo, o ai sondaggi. La Marina militare, incluse le unità coinvolte in operazioni europee come Themis di frontex ed Eunavformed (Sophia) devono continuare ad operare garantendo le modalità di ricerca  e soccorso sancite dalle Convenzioni internazionali. Non sarebbero comunque eludibili gli obblighi derivanti dal Regolamento UE n.656/2014 e, a livello nazionale, dal Codice della navigazione, dal Piano Nazionale per la Ricerca ed il Salvataggio in mare (DPR 662/1994, attuativo della Convenzione SAR del 1979) e dal Decreto Interministeriale 14/07/2003, che ripartisce le competenze alle autorità preposte ai controlli in mare. in caso di omissione di assistenza a navi o persone in pericolo, con particolare riguardo all’ordinamento giuridico italiano, occorre ricordare quanto previsto dall’art. 1158 del Codice della Navigazione, secondo cui il comandante di una nave, nazionale o straniera, “che ometta di prestare assistenza ovvero di tentare il salvataggio” nei casi in cui ne abbia l’obbligo (alla luce di quanto previsto dallo stesso Codice), deve essere punito con la reclusione fino a due anni (la pena sarà invece della reclusione da uno a sei anni, se dal fatto sia derivata una lesione personale; da tre ad otto se ne sia derivata la morte).

I cittadini solidali seguiranno da vicino i procedimenti penali o amministrativi che si dovessero aprire dopo il caso Diciotti, anche attraverso la costituzione di associazioni come parti civili, ma saranno anche testimoni vigili di tutto quanto potrà ancora succedere da oggi in avanti sulla rotta del Mediterraneo centrale, in una situazione nella quale, anche per effetto dell’allontanamento delle ONG di cui qualcuno si vanta, rischia di verificarsi una pericolosa caduta dei livelli di coordinamento e di tempestività degli interventi di soccorso in acque internazionali.