Soccorsi in mare tra obblighi internazionali, propaganda xenofoba e ragione di stato.

di Redazione

La parabola della giustizia italiana in materia di soccorsi in mare, con particolare riguardo alla cd. rotta del Mediterraneo centrale, si sta chiudendo con l’ennesimo attacco alle Organizzazioni non governative, colpevoli di avere impegnato le proprie risorse ed i propri equipaggi per soccorrere persone in procinto di affogare, e di avere resistito alle intimazioni provenienti dalle autorità libiche e dai comandi italiani, che, affidando il coordinamento SAR alle autorità libiche, volevano eseguire respingimenti di fatto verso i porti della Tripolitania.

On wednesday may 6 Italian ships intercepted 227 would be immigrants at sea and sent them directly back to Libya.
On wednesday may 6 Italian ships intercepted three boatloads of migrants they were transferred to three Italian ships and by Thursday morning they were returned to Tripoli.

Dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo sul caso Hirsi, per i respingimenti effettuati dalla Guardia di finanza verso il porto di Tripoli nel maggio del 2009, si era raggiunta una prima intesa operativa, di fatto, tra la Guardia costiera libica (allora) e i comandi militari italiani, in base alla quale, fino al 2010, i migranti “soccorsi”, meglio, intercettati in mare venivano consegnati ai libici che li riportavano nei centri di detenzione dai quali erano riusciti a fuggire solo grazie alla corruzione delle guardie.

Il grande aumento delle partenze dai paesi nordafricani nel 2011, effetto prima delle primavere arabe e poi della crisi siriana, oltre che del peggioramento della situazione umanitaria in Eritrea, ed in altri paesi del Corno d’Africa e dell’Africa subsahariana, soprattutto occidentale, mettevano in crisi questo sistema di respingimento ideato dall’allora ministro dell’interno Maroni. Non bastavano neppure le diverse missioni di Frontex nel Mediterraneo centrale a contenere il numero delle partenze mentre il numero delle vittime continuava a crescere in modo esponenziale, sia in mare, che nei deserti libici.

Il rifiuto di alcuni paesi come Malta, che pure avevano già sottoscritto un Memorandum d’intesa con i libici, ad intevenire in operazioni di ricerca e soccorso (SAR) ai limiti di quella che pure risultava la zona di competenza maltese, ed i conflitti di competenza tra autorità maltesi e Marina italiana, producevano prima l’incidente della nave Salamis, respinta dal porto della Valletta, e poi la strage dell’11 ottobre 2013, a sud di Malta, nella quale perivano centinaia di persone, tra queste moltissimi bambini.

La giustizia italiana che in passato era stata molto solerte nei confronti degli operatori umanitari (caso Cap Anamur) e poi contro semplici pescatori “colpevoli” di salvataggio ( caso dei pescatori tunisini di Teboulba), ignorava per anni le denunce dei parenti delle vittime. Solo una indagine giornalistica di grande spessore e la tenacia dei difensori costringeva la magistratura ad aprire un fascicolo d’inchiesta che però si sarebbe dovuto chiudere subito, almeno secondo quanto richiesto prima dalla Procura di Agrigento e poi dalla procura di Roma. Il processo per “la strage di bambini dell’11 ottobre 2013” resta invece ancora aperto, per il parere contrario all’archiviazione, prima del Giudice delle indagini preliminari di Agrigento, e poi del GIP di Roma, anche se sta procedendo con tempi che fanno preventivare una archiviazione per prescrizione. Ben due procure, quella di Roma e quella di Agrigento prima, avevano dunque chiesto invano l’archiviazione del caso, non ravvisando estremi di reato nei ritardi accertati degli interventi di soccorso.

Dopo la parentesi dell’Operazione umanitaria Mare Nostrum, condotta per tutto il 2014 ed avviata sull’onda emotiva della strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, la questione dei soccorsi nelle acque internazionali a nord della Libia ritornava ad essere un tema politico utile alle destre ed a gruppi neofascisti di mezza Europa per rinfocolare le campagne xenofobe e razziste che, malgrado la percezione degli abusi in Libia, stavano già spostando consistenti settori dell’opinione pubblica e dell’elettorato verso scelte di chiusura delle frontiere e di respingimenti collettivi in mare. Le stesse logiche che facevano proliferare in Africa ed in Europa bande criminali che sfruttavano il proibizionismo della frontiera per arricchirsi sulla pelle dei disperati in fuga verso l’Europa. Bande criminali che nel tempo si confondevano con le milizie che controllavano i territori, soprattutto in Libia, e che riuscivano a condizionare regimi ed assetti militari facilmente permeabili ed in gran parte corrotti. Bande criminali che però restavano anche l’unica possibilità di fuga per centinaia di migliaia di persone alle quali l’Europa negava ogni possibilità di accesso legale. Anche quando si trattava visibilmente, come nel caso di Siriani, Eritrei, Somali e tanti altri provenienti da paesi in mano a dittature, di persone evidentemente titolari del diritto di chiedere (ed ottenere) asilo.

Dovrebbe essere noto a tutti che la Libia, o le autorità che se la contendono, non hanno mai aderito alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Le attività dell’UNHCR che ha aperto canali umanitari di evacuazione per qualche migliaio di persone, definite particolarmente “vulnerabili”, ed è presente in alcuni punti di sbarco, ed i rimpatri volontari assistiti gestiti dall’OIM, non possono fare ritenere la Libia un porto sicuro di sbarco, se si pensa alla sorte delle decine di migliaia di persone internate nei centri di detenzione, dopo essere state intercettate in alto mare dalla Guardia costiera “libica” e riportate a terra. I più recenti rapporti delle Nazioni Unite confermano quanto sia ancora terribile la sorte delle persone internate nei centri di detenzione e nelle prigioni libiche.

Con la esternalizzazione dei controlli di frontiera e con la negazione sostanziale del diritto di asilo ( anche attraverso il ricorso alla nuova categoria di “migrante economico” nei centri Hotspot) l’Unione Europea ed i singoli stati portavano avanti il Processo di Khartoum, e negavano la portata sostanziale del diritto di asilo e della protezione internazionale, riconosciuti nelle Costituzioni nazionali e nel Diritto europeo.

Le prime accuse di costituire un fattore di agevolazione per i trafficanti, che facevano partire migranti dalla Libia, erano già piovute sulle autorità della Guardia costiera italiana, tanto da determinare la chiusura dell’Operazione mare Nostrum alla fine del 2014. Frontex nel frattempo, dopo una breve parentesi di maggiore presenza in attività SAR nel 2015, in particolare dopo la strage del 18 aprile, alla fine di quello stesso anno ritirava i suoi assetti navali, che avrebbero dovuto operare fino a 135 miglia a sud di Lampedusa e Malta, e manteneva una presenza di un paio di navi, quasi in funzione simbolica. L’attribuzione a imbarcazioni commerciali di compiti di ricerca e soccorso comportava con tutta evidenza un aumento vertiginoso delle vittime in mare.

Mentre riduceva la presenza in mare l’agenzia Frontex intensificava il suo impegno contro le Organizzazioni non governative, lasciando trapelare rapporti nei quali si esprimevano dubbi sulla correttezza del loro operato. Rapporti poi smentiti in successivi comunicati stampa, ma che innescavano una deriva profonda nell’opinione pubblica e spingevano la magistratura italiana ad aprire una serie di inchieste. Nel 2016 Frontex veniva assorbita nella nuova Guardia Costiera e di Frontiera europea ed i suoi compiti diventavano prevalentemente di intelligence, di collaborazione multiagenzia, anche con EUROPOL, e di raccolta dati, mentre le operazioni SAR, pure previste dal Regolamento n.656 del 2014, mantenevano un ruolo sempre più residuale. Nello stesso periodo si completava lo schieramento in acque internazionali a nord della Libia della missione militare Eunavfor Med, fortemente voluta dalla Commissaria UE Mogherini, una missione che nella sua terza fase, mai realizzata, prevedeva addirittura l’ingresso di navi militari europee in acque libiche, e che oggi appare irrimediabilmente fallita, come autorevoli studi internazionali confermano.

Quando poi le Organizzazioni non governative furono costrette a sostituire i mezzi di soccorso statali  ed europei che si erano ritirati, all’inizio del 2016, entrarono subito nel mirino di quanti ritenevano che il controllo dei “flussi” migratori passasse attraverso una attività di dissuasione in mare. Una attività che si sarebbe dovuta perfezionare se non con respingimenti collettivi vietati dalla Corte Europea, con l’abbandono in mare e l’utilizzo pedagogico delle stragi per disincentivare le partenze. Una strategia che nessun paese democratico dovrebbe sostenere.

Nello stesso periodo si cominciavano a definire i progetti per dotare i libici, o meglio i governi “amici” che si erano insediati in alcune città libiche,di proprie motovedette e di personale addestrato, e dunque in qualche modo “affiliato” a bordo delle unità europee, prima di Eunavfor Med ( missione UE di contrasto dell’immigrazione irregolare) e poi della Marina italiana e della Guardia di finanza. Oltre agli accordi con le autorità di Tripoli il governo Gentiloni imponeva poi alle ONG i Codice di condotta preparato dal ministro Minniti, e gli obblighi da questo previsti, in contrasto con il diritto internazionale, comportavano una riduzione delle navi delle ONG ancora operative ed un allontanamento di quelle che rimanevano ben oltre il limite delle acque territoriali libiche. Alla fine del 2017 i progetti di collaborazione tra la Marina militare italiana e la Guardia costiera “libica” diventavano sempre più espliciti. Nel silenzio imposto dal segreto militare si moltiplicavano gli interventi di intercettazione in acque internazionali da parte delle unità libiche, coordinate di fatto dalla Marina militare italiana, come sta adesso emergendo anche in sede giudiziaria.

A partire dalla fine del 2016 si è dispiegata in Italia, ed in Europa,  contemporaneamente e su più fronti, l’offensiva contro la solidarietà, prima con gli attacchi della organizzazione di estrema destra olandese GEFIRA, poi con alcune relazioni di attività di FRONTEX, infine con una serie di segnalazioni raccolte a bordo di navi delle ONG “infiltrate”, che i servizi di informazione ed agenzie private di intelligence trasmettevano prima ai politici di maggiore riferimento, e solo in un secondo momento alla magistratura.

Nel mese di febbraio del 2017 il governo Gentiloni, con il ministro dell’interno Minniti e degli esteri Alfano, concludevano un accordo con le autorità di Tripoli, che comportava, oltre alla cessione di alcune motovedette, ed il ripristino di altre già donate in precededenza, una sostanziale “cogestione” delle acque internazionali a nord delle coste libiche, in modo da delegare alle motovedette libiche quelle attività di respingimento collettivo che gli equipaggi su navi militari che battevano bandiera europea non potevano eseguire. Le navi delle ONG a quel punto andavano eliminate, sia per la mole di soccorsi che riuscivano ad operare, sia soprattutto perchè scomodi testimoni di operazioni che violavano il diritto internazionale del mare e costituivano di fatto veri e propri respingimenti collettivi.

Malgrado diversi incidenti, culminati nell’attacco del 6 novembre del 2017 contro una nave di Sea Watch,nessun magistrato apriva indagini sulle vittime di queste politiche di dissuasione e di respingimento collettivo, camuffato dietro “azioni di salvataggio” affidate in acque internazionali alla Guardia costiera “libica”.

Dopo la campagna diffamatoria contro le ONG, gestita anche sui social più diffusi, veniva varata nello stesso anno l‘operazione “Defend Europe”, affidata ai giovani ( e meno giovani) estremisti di Generazione identitaria, guidati da un ex comandante della Marina italiana.  Generazione identitaria riusciva ad inviare una nave, la C Star, dal lontano porto di Gibuti, nel mar Rosso, fino alle acque libiche, con il compito di interdire alle ONG quelle attività di soccorso che erano imposte dalle Convenzioni internazionali, ma che gli stati vedevano come una minaccia perchè scoperchiavano la portata reale degli accordi bilaterali conclusi con paesi nei quali non si rispettavano i diritti umani. La nave “nera” veniva respinta da tutti i porti nei quali cercava di attraccare, a Cipro, in Grecia, in Tunisia ed a Malta, Alla fine quella missione si concludeva nel ridicolo, con l’abbandono della nave e dell’equipaggio, ridotto alla fame, davanti al porto di Barcellona, che negava ancora una volta l’ingresso. Ma le organizzazioni che la avevano promossa si diffondevano come un cancro in tutta Europa.I finanziatori non mancavano, e neppure le sponde politiche, da Borghezio a Salvini.  La propaganda anti ONG era servita ad acquistare consensi. Ma a fermare le ONG nelle acque internazionali era arrivato prima Minniti con la Guardia costiera di Tripoli.

Anche in questo caso, di fronte a proclami apertamente razzisti ed a comportamenti illegali attuati da italiani all’estero, in acque internazionali, ma pur sempre da persone dotate della cittadinanza italiana, la magistratura stava a guardare. Proprio negli stessi mesi dell’estate 2017 in cui si discuteva di un Codice di condotta, dopo un forsennata campagna mediatica, si portava a fondo l’attacco contro le ONG impegnate nel Mediterraneo centrale, con il sequestro della Juventa, nave della ONG tedesca  Jugend Rettet, ancora oggi bloccata nel porto di Trapani.

Più degli attacchi delle formazioni razziste della destra europea, le iniziative della magistratura, spesso più annunciate che formalizzate e dunque tali da garantire almeno i diritti di difesa, facevano crollare il consenso verso le ONG e l’opinione pubblica si spostava significativamente su posizioni di chiusura recependo la narrazione tossica sui cd. “taxi del mare”.

Il calo degli arrivi in Italia veniva intanto pagato con un aumento esponenziale delle persone trattenute ed abusate nei centri di detenzione in Libia, oltre che con un rilevante aumento ( in termini percentuali) delle vittime. Nel 2017 oltre ventimila migranti venivano intercettati in acque internazionali dalla Guardia costiera “libica” e riportati a terra nei entri di detenzione. Aumentavano le vittime ( in percentuale), malgrado il calo delle partenze. Le autorità libiche dimostravano una totale assenza di capacità operative finalizzate al soccorso in mare, al punto che nel dicembre del 2017 ritiravano la loro proclamazione di una zona SAR “libica” che dunque oggi NON esiste.

Le successive attività di intercettazione in mare affidate alle autorità libiche nel corso del 2018, con l’operazione NAURAS della Marina militare basata a Tripoli, e poi con l’avvio dell’Operazione Themis di Frontex il 2 febbraio di quest’anno, aumentavano ulteriormente il numero dei migranti bloccati in acque internazionali e riportati nei centri di detenzione in Libia. Siamo ormai in una fase avanzata di militarizzazione delle acque del Mediterraneo centrale, una prospettiva che non gioverà a ridurre ulteriormente gli arrivi di migranti, ma che potrebbe avere effetti devastanti sul piano del mantenimento della pace e della soluzione dei conflitti regionali, soprattutto in Libia.

Nessuna attenzione da parte della magistratura verso le diverse denunce pubbliche partite dagli operatori umanitari a bordo delle ONG che, i acque internazionali, avevano avuto ingiunto l’ordine di Stand By da parte della Centrale operativa della Guardia Costiera, e dunque costrette a interrompere attività di soccorso già avviate. In attesa dell’arrivo di unità libiche da Tripoli, allertate ed orientate sulla scena del soccorso dai sistemi di sicurezza e dai gruppi di coordinamento facenti capo alla missione NAURAS a Tripoli, al progetto SEA HORSE, dell’Unione Europea,aperto anche a militari libici, ed  alla Marina militare italiana impegnata nell’operazione MARE SICURO. Dal 1 gennaio 2018, i compiti dell’operazione Mare Sicuro comprendono anche le attività di supporto e sostegno alla Guardia Costiera e alla Marina Militare libiche svolte in porto a Tripoli.

Mentre proseguiva il processo Juventa di Trapani, ancora alla fase dell’opposizione al sequestro della nave, le indagini condotte dalla procura di Catania venivano ulteriormente allargate, e portavano al sequestro di una seconda nave delle ONG, la Open Arms fermata nel porto di Pozzallo il 17 marzo scorso, sulla base di un singolo episodio relativo ad un soccorso effettuato il 15 dello stesso mese. Indagini che peraltro proseguono ancora al fine di configurare una vera  e propria associazione a delinquere tra tutti gli operatori umanitari coinvolti nelle attività di ricerca e soccorso nelle acque internazionali tra la Libia e la Sicilia. Una ipotesi accusatoria che però è stata già respinta dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Catania.

L’originaria accusa per associazione per delinquere finalizzata all’ingresso di immigrati irregolari, formulata dalla procura di Catania, veniva  infatti disattesa dal GIP, che però convalidava il sequestro disposto dalla procura, e trasferiva la competenza al giudice competente per territorio, a Ragusa. Nel frattempo la nave Open Arms restava sequestrata nel porto di Pozzallo, e veniva sottratta al suo prezioso lavoro di ricerca e soccorso in mare. Un danno concreto ed irreversibile di fronte ad un provvedimento che dovrebbe avere natura cautelare, ma che di fatto si trasforma in una condanna anticipata e spesso definitiva, non tanto degli imputati, quanto delle persone che potrebbero essere soccorse dalle navi umanitarie sequestrate, e che invece vengono riprese in alto mare dalle motovedette di Tripoli e rigettate nei centri di detenzione libici.

L’allontanamento forzato delle navi di soccorso obbedisce perfettamente al disegno di legittimazione politica di una nuova tipologia di reato, il cd. delitto di solidarietà, un tentativo che si va affermando non solo in Italia ma in tutta Europa. È di fatto considerato perseguibile per legge chi salva vite in mare e lo stesso accade ormai da troppo tempo a chi presta aiuto a migranti ai confini che permettono di raggiungere altri paesi d’Europa (Bardonecchia, Como, Udine, Ventimiglia). E mentre acquista spazi e risorse il sistema mediatico che amplifica gli allarmismi xenofobi, non casualmente si trovano ad essere ignorati, se non intimiditi, i tanti operatori dell’informazione che invece cercano di raccontare  ciò che vedono. I giornalisti veri danno fastidio: quelli che invitati sulle navi delle Ong raccontano quanto accade nel Mediterraneo  Centrale, quelli che, in altri contesti, osano semplicemente ergersi  a testimoni di violazioni palesi di ogni diritto fondamentale, violazioni che riguardano non solo i migranti ma gli stessi cittadini solidali. Basta svolgere onestamente il proprio lavoro di giornalista su una nave di una ONG per diventare oggetto di attacchi mediatici e di minacce sul web,  che meriterebbero l’attenzione della polizia postale e della magistratura.

Le fasi di formazione del nuovo governo, a differenza di quanto è accaduto per tutto lo scorso anno e fino alle elezioni dello scorso marzo, hanno ridotto la valenza mediatica dei procedimenti penali contro le ONG accusate di soccorso in alto mare. Soltanto Salvini ha continuato ad attaccare giorno dopo giorno, lanciato forse verso altre scadenze elettorali. Chi doveva guadagnare in termini di consenso e voti ha stravinto le elezioni,ed è già passato a progettare nuove alleanze basate sugli accordi con la Libia, tema sul quale il PD di Minniti non potrà certo retrocedere, e la ventata di destra e di populismo (anche giudiziario) in Italia sembra ormai inarrestabile. L’incertezza politica consiglia forse qualcuno al silenzio, ma le prospettive sono nerissime, a mare ed a terra. Ognuno cerca soltanto di difendere la propria posizione e le proprie prerogative, se non veri e propri privilegi di casta.

Si vedono già i prodromi per un rilancio delle accuse sul piano giudiziario, e per una nuova campagna elettorale giocata ancora una volta sui temi della paura e della insicurezza che deriverebbe anche dai soccorsi in mare. Le manifestazioni di odio e gli attacchi diffamatori verso coloro che continuano a svolgere attività solidali, e verso i giornalisti indipendenti, a loro volta sottoposti ad indagini, si moltiplicano e le iniziative di “resilienza” della società civile appaiono ancora deboli, ma soprattutto  poco coordinate. Inutile parlare di una sponda politica del fronte della solidarietà, perché si riduce ad una sparuta pattuglia di parlamentari.

La società civile solidale deve quindi tentare di aggregarsi su questi temi, sulle grandi questioni della solidarietà e della pace, ed allargare la base di consenso. Si tratta di materie che non si possono considerare separatamente rispetto alle grandi questioni della disarmo, del non intervento in guerre dunque, e poi dell’accoglienza. Un sistema che toccherebbe proprio alla magistratura ( e non solo) bonificare, come non si sta ancora verificando. Fondamentale in questo difficile passaggio storico il ruolo della stampa indipendente e dei media sociali.

Sulla magistratura, su tutta la magistratura, inquirente e decidente, incombe invece, in un momento di grave incertezza politica, la responsabilità di restare fedele al ruolo indipendente ed autonomo che le viene assegnato dalla Costituzione e di riconoscere quei diritti fondamentali, dei cittadini e dei migranti, che sono riconosciuti anche dalle Convenzioni internazionali e dal Diritto dell’Unione Europea. Nessun “bilanciamento” per finalità politiche è possibile tra l’esigenza di salvare vite umane in mare, o il divieto di trattamenti inumani o degradanti, fissati dalle Convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia e le esigenze di controllo delle frontiere e di riduzioni degli arrivi, obiettivi questi ultimi che sanno più di un programma elettorale che di una posizione valutativa della giurisprudenza.  Esistono fonti sovranazionali che anche il giudice penale non può ignorare.

Qualsiasi ulteriore smottamento verso la criminalizzazione delle attività di soccorso solidale in acque internazionali potrebbe solo contribuire ad allontanare definitivamente le ultime ONG rimaste operative nelle acque del Mediterraneo centrale ( con ulteriore incremento delle vittime), ed a assecondare una deriva politica e militare che potrebbe portare il nostro paese davanti ai Tribunali internazionali, esponendolo a forti tensioni internazionali.

La difesa degli accordi con la Libia non può essere affidata alla magistratura. Senza la sospensione immediata di accordi bilaterali, e dei Memorandum di intesa, tutti incentrati sul blocco delle partenze e sul ruolo di intercettazione in alto mare delle motovedette libiche, donate da Minniti al governo Serraj a Tripoli, l’Italia rischia di trovarsi in un vicolo cieco, dentro una situazione di conflitto endemico che nel medio periodo non garantisce né sicurezza ai cittadini, né una ulteriore diminuzione degli arrivi, né, tanto meno; i diritti umani di chi si trova in Libia, libici compresi. Una situazione in Libia che sta rapidamente degenerando, malgrado l’impegno delle agenzie europee e delle Nazioni Unite, e che potrebbe di nuovo comportare altre fughe verso l’Europa e migliaia di vittime, in mare, come pure in territorio libico. Si potrà restare indifferenti di fronte a questi ennesimi massacri, ma nessuno potrà restare esente dalle conseguenze umane, sociali e politiche che ne deriveranno.