Fulvio Vassallo Paleologo
1.Nel corso del semestre di Presidenza dell’Unione Europea nel 2014 l’Italia ha lanciato il Processo di Khartoum che, nel solco del Processo di Rabat e degli Accordi di Cotonou, tendeva a trasferire sui paesi terzi, di transito e di origine, il compito di “difendere” le frontiere europee di fronte ad un crescente afflusso di migranti, aumentando i controlli, anche attraverso la collaborazione con l’agenzia europea FRONTEX, in modo da realizzare operazioni di respingimento o di espulsione collettiva verso i paesi di origine.
L’Unione Europea ha risposto alle stragi del Mediterraneo, le più grandi il 3 novembre del 2013 davanti Lampedusa ed il 18 aprile del 2015 nel Canale di Sicilia, con politiche di contrasto dell’”immigrazione irregolare”, con la esternalizzazione dei respingimenti e degli arresti, con un progressivo inasprimento dei controlli alle frontiere esterne ed interne, con il tentativo di trasferire all’esterno delle proprie frontiere le procedure di selezione dei richiedenti asilo, che in questo caso potrebbero avvalersi soltanto delle previsioni più restrittive della Convenzione di Ginevra del 1951, piuttosto che delle norme della stessa Unione Europea e dei singoli paesi in materia di protezione internazionale e protezione temporanea. Invece di aprire canali di ingresso legale, si è ritenuto che l’unica soluzione praticabile fosse costituita da un inasprimento del cd. “contrasto dell’immigrazione irregolare”. Il risultato è stato un aumento esponenziale delle vittime, mentre il numero delle persone che comunque entravano in Europa, dopo il picco del 2015, è rimasto sostanzialmente costante anche quest’anno. Gli aumenti dei cd. sbarchi che si potrebbero registrare in Italia alla fine del 2016 ( stimabili attorno alle 30.000 persone in più rispetto all’anno precedente), non dovrebbero costituire un problema se i 28 paesi dell’Unione Europea non facessero a gara per innalzare muri e bloccare le vie di accesso.
Dopo il fallimento della Conferenza de La Valletta a Malta, nel novembre dello scorso anno, di fronte alla minaccia dell’Austria di “chiudere” la frontiera del Brennero, Renzi ed il governo italiano, con l’appoggio della Commissaria UE Mogherini, hanno adottato la nuova formula, ben poco comprensibile, del “Migration Compact“, inserito nell’ambito del Processo di Khartoum. Un atto che è rimasto al di fuori di una procedura legislativa, ma che ha segnato l’azione dell’Unione europea nei confronti dei paesi di origine o di transito dei migranti che riuscivano comunque a raggiungere lo “Spazio Schengen”. I governi europei hanno fatto lavorare in modo febbrile le diplomazie per concludere nuovi accordi con i “paesi terzi sicuri” che in Africa dovrebbero garantire l’arresto o la riammissione dei migranti . Questo il Migration Compact, definito come “Contribution to an EU strategy for external action on migration”.
Le misure previste dal Migration Compact ricalcano il modello degli accordi che l’Italia di Berlusconi e Maroni stipularono nel 2009 con la Libia di Gheddafi, sul principio della “condizionalità migratoria” nei rapporti con i paesi terzi, che il governo Sarkozy aveva proposto nel 2008 all’Unione Europea. Si tratta in sostanza di garantire congrui finanziamenti e forniture tecniche e militari ai paesi di transito per contrastare le partenze dei cd. “clandestini”, con la collaborazione attiva da parte delle polizie di questi paesi nella identificazione dei migranti giunti in Europa, anche se poi nessuno garantisce il rispetto dei diritti umani delle persone respinte, espulse, oppure riprese in mare e ricondotte nei porti di partenza. Il ricorso agli stati terzi per bloccare le partenze dei migranti era avvertito da tempo come una esigenza prioritaria, dopo che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo aveva bocciato gli accordi bilaterali che prevedevano operazioni di respingimento diretto da parte delle unità militari dei paesi europei, in particolare Italia e Grecia.
La Corte Europea di Strasburgo ha infatti condannato in diverse occasioni paesi come l’Italia o la Grecia, che hanno effettuato respingimenti individuali, ed altre volte collettivi, verso stati non appartenenti all’Unione Europea che non garantivano il rispetto dei diritti umani. In questo senso le sentenze sui casi Hirsi contro Italia e Sharifi contro Italia e Grecia, nelle quali si riscontrava la violazione dell’’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, che vieta, oltre alla tortura, i trattamenti inumani o degradanti, e del divieto di espulsioni collettive, sancito dall’art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU, divieti ribaditi dagli articoli 4 e 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Adesso che la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha reso più difficili i respingimenti diretti effettuati dagli stati dell’Unione Europea, o comunque sottoposti alla giurisdizione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, si stanno moltiplicando gli accordi con i paesi terzi, d’origine o di transito, per affidare a questi paesi, anche con il concorso di agenti e mezzi forniti dall’Unione Europea, il compito di bloccare e rimpatriare i migranti che tentano di entrare nello spazio Schengen. Si tratta della cosiddetta esternalizzazione dei controlli di frontiera, obiettivo centrale dei Migration Compact.
Nel Migration Compact che il governo italiano ha proposto all’Unione Europea si ripropone uno “scambio” tra persone migranti, definite come “irregolari”, se non “illegali”, da bloccare e respingere verso i paesi di origine, con armamenti e finanziamenti. Uno “scambio”basato su una rete di rapporti commerciali che si vuole instaurare attraverso un uso distorto della cooperazione internazionale, e delle organizzazioni umanitarie, finalizzato al blocco della mobilità umana, piuttosto che ad una crescita sostenibile dei territori ed a una loro stabilizzazione nel segno della pace, della democrazia e del rispetto dell’ambiente.
L’accordo tra Unione Europea e Turchia per fermare i profughi siriani diventa un modello da seguire. Si pensa già a replicarlo in Libia, anche se il paese rimane spaccato in tre parti. Si premiano i dittatori o le milizie che fanno morire, o che arrestano e torturano i migranti, come qualunque oppositore politico interno, piuttosto di incentivare chi realizza processi di riconciliazione e rispetta il diritto di asilo e gli altri diritti fondamentali della persona. Una completa inversione del sistema di valori sui quali si basava l’idea federalista dell’Europa rappresentata dal Manifesto di Ventotene che qualcuno ha richiamato per invocare una maggiore “solidarietà” europea. Un tentativo di stravolgere il diritto internazionale ed i diritti fondamentali che questo riconosce, dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, come pure i principi riconosciuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, attraverso una serie di Migration Compact . Una miriade di accordi separati con singoli stati, spesso a livello di Memoriali d’intesa, definiti come MoU (Memorandum of Understanding) o di accordi di polizia, che consentirebbero di realizzare lo scambio tra aiuti economici (camuffati da sostegno allo sviluppo) e attività di contrasto di quella che si definisce “immigrazione illegale”. Anche se i paesi di origine e di transito individuati come interlocutori non garantiscono alcun rispetto dei diritti umani e sono governati da militari o da politici corrotti, responsabili di tante crisi regionali ed in qualche caso, se pensiamo al Sudan di Bashir, al centro del Processo di Khartoum, condannati per crimini contro l’umanità.
- Nel mese di agosto di quest’anno, in concomitanza con l’intervento americano in Libia, sono avvenuti fatti importanti che hanno confermato come il realismo politico dei maggiori leader europei e gli accordi con i governi dei paesi di origine o transito, piuttosto che garantire i diritti umani, i migranti o gli operatori umanitari, tendessero in realtà a rassicurare gli elettorati nazionali allarmati dall’emergenza terrorismo e dal pericolo di una “invasione” di migranti. Tentativo evidentemente fallito, almeno per quanto concerne Angela Merkel, alla luce dei più recenti risultati elettorali tedeschi.
Il 4 agosto 2016 Italia e Sudan hanno firmato un Memoriale d’intesa (MoU) sul tema della migrazione, che prevede la collaborazione tra i due Paesi nella lotta al crimine, nella gestione degli effetti migratori e delle frontiere. Stando a quanto si precisa nel comunicato diffuso dall’Ambasciata italiana a Khartoum, l’accordo si iscrive nel piu’ ampio quadro di cooperazione tra Sudan e Unione Europea sui temi migratori, in particolare il Processo di Khartoum e il Fondo fiduciario d’emergenza dell’Unione europea per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa, lanciato nel novembre 2015 al Summit de La Valletta. Il Memorandum e’ stato firmato a Roma dal capo della polizia italiana, Franco Gabrielli, e dal suo omologo sudanese, generale Hashim Osman Al Hussein, alla presenza di funzionari del ministero dell’Interno e del ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
Qualche settimana dopo, gruppi di migranti sudanesi rastrellati alla frontiera di Ventimiglia, e trasferiti nell’Hotspot di Taranto, sono stati espulsi, imbarcati su un aereo e riportati a Khartoum. Un’operazione “esemplare”. Occorreva sgomberare la frontiera, da Ventimiglia a Chiasso, e poi dare effettività alle misure di espulsione con accompagnamento forzato, secondo quanto previsto dal “piano Gabrielli”, predisposto dall’attuale capo della polizia italiana. Di fatto si sono realizzate espulsioni collettive e si è negato un diritto effettivo di difesa. Gli accordi bilaterali sui quali si basano queste procedure, definiti “Memorandum d’intesa (MOU)”, non posono prevalere su norme cogenti aventi forza di legge, o sui diritti fondamentali riconosciuti dalle Convenzioni internazionali. Inoltre queste intese costituiscono accordi che hanno natura politica e comportano un rilevante impegno di spesa, e dunque non potrebbero essere attuati prima dell’approvazione da parte del Parlamento nazionale, come previsto dall’art. 80 della Costituzione italiana. Le prassi stanno travolgendo anche i richiami costituzionali. Per non parlare della violazione dei diritti di difesa delle persone espulse prima di potere avvalersi di un ricorso effettivo, e a rischio di subire trattamenti degradanti vietati dall’art. 3 della CEDU. Le operazioni di accompagnamento forzato in frontiera, per le procedure adottate, hanno assunto il carattere delle espulsioni collettive, vietate dall’art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU.
Anche con il Gambia l’Italia sta intensificando la collaborazione per una lotta “più efficace” contro l’immigrazione “irregolare”. Si sta procedendo nella stessa direzione già seguita con il Sudan di Bashir. Dopo una visita di una delegazione del governo del Gambia in Italia nel dicembre del 2015, è stato già stipulato il consueto Memorandum d’intesa (MoU), senza l’approvazione del Parlamento italiano, ed adesso si stanno sviluppando contatti diplomatici per rendere effettive le misure di allontanamento forzato, come respingimenti ed espulsioni. A rischio la sorte dei richiedenti asilo denegati, probabilmente migliaia nei prossimi mesi, visto i criteri restrittivi adottati dalle Commissioni territoriali. Ai ricorrenti asilo denegati si vorrebbe anche ridurre, con il disegno di legge del ministro della giustizia Orlando, le possibilità di un ricorso giurisdizionale effettivo.
Giovedì 11 agosto 2016 si è svolta una missione del ministro Gentiloni in Nigeria, con l’obiettivo di ridurre gli arrivi di quelli che vengono definiti sbrigativamente come “migranti economici”. Sarebbero 12163 i nigeriani arrivati in Italia nei primi sei mesi del 2016. Ad Abuja Gentiloni avrebbe “spiegato il senso del ‘migration compact’, proposto da Renzi e poi condiviso dall’Unione europea. Entro l’autunno si spera di arrivare un’intesa formale con la Nigeria. Per Gentiloni, rimane prioritaria la conclusione di un accordo di riammissione tra Unione e Nigeria (l’Italia ha già un accordo bilaterale). L’avvio del negoziato è previsto a ottobre, dopo che il 7 e l’8 settembre scorsi, a Varsavia, si è svolto un seminario Frontex-Nigeria centrato sul tema delle riammissioni. Nel caso della Nigeria l’Agenzia europea Frontex ha già stipulato nel 2012 un accordo per rendere più efficaci le operazioni di rimpatrio forzato, assumendosi anche la responsabilità di organizzare voli charter congiunti per la riammissione dei migranti nigeriani ritenuti “irregolari” nel paese di origine. Inascoltate le critiche delle organizzazioni non governative.
Se questi accordi previsti dal Migration Compact si estenderanno anche a diversi paesi africani, oltre l’Egitto, la Libia, il Gambia la Nigeria, il Sudan, magari anche al Mali, al Niger, e poi alll’Eritrea o alll’Etiopia, ai quali si potrebbe riconoscere la qualificazione di “paese terzo sicuro”, come si è fatto con la Turchia, si aprirà la strada per la detenzione indiscriminata dei migranti intrappolati in questi paesi, che a questo punto sarebbe qualificati tutti come “migranti economici” e per un ritorno alle procedure di respingimento collettivo e di respingimenti “par ricochet”, come si sta verificando tra la Grecia e la Turchia e tra la stessa Turchia verso paesi come l’Afghanistan e la Siria. Se si procederà in questa direzione diventerà essenziale il ruolo di Frontex e delle nuove agenzie che sono state istituite per rafforzarne il ruolo.
Il 14 settembre 2016 il Consiglio, dopo il via libera del Parlamento Europeo, ha dato la sua approvazione definitiva al regolamento sulla Guardia costiera e la Polizia di frontiera europea. L’adozione del Regolamento su questi nuovi corpi di polizia da parte del Consiglio, avvenuta mediante procedura legislativa, è immediatamente vincolante per tutti gli stati membri e consente lo sblocco dei fondi e l’avvio delle attività delle nuove forze di polizia europea entro il 15 ottobre prossimo, anche se ancora non sono chiari i rapporti con l’Agenzia Frontex, prevista anch’essa da Regolamenti europei ( n.2007/2004/Ce e n. 656/2014/Ue) e con l’operazione tuttora in corso EUNAVFOR MED, definita anche come Operazione Sophia.
3.Pochi giorni dopo il vertice di Ventotene tra Renzi, Hollande e Angela Merkel, nel mese di agosto di quest’anno, si è diffusa la notizia ufficiale della conclusione di un Memoriale di intesa ( MOU) tra EUNAVFOR MED ed i vertici della Guardia Costiera libica. Si tratta di un corpo militare che risponde soltanto ai comandi del governo Serraj, insediato a Tripoli dalle Nazioni Unite, un governo che il parlamento di Tobruk ed il generale Haftar (sostenuto dagli egiziani) non hanno ancora riconosciuto. Il programma vedrà attivamente coinvolti numerosi altri organismi quali EUBAM Libia (EU Border Assistance Mission in Libya), l’agenzia europea Frontex e le Nazioni Unite.
A fronte della situazione di conflitto armato che si sta aggravando giorno dopo giorno attorno ai porti ed ai terminali petroliferi, rimane da chiedersi oggi quale sarà la portata effettiva della collaborazione che la cd. Guardia Costiera libica potrà garantire alle diverse navi europee impegnate in operazioni di ricerca e salvataggio ( Attività SAR – Search and Rescue). Rimane invece certo il destino delle persone che dopo essere state “soccorse” dai mezzi libici in acque territoriali, o in zona contigua, entro le 24 miglia dalla costa, saranno riportate a terra e internate nei tanti centri di trattenimento che esistono da anni in Libia. Luogni nei quali si verificano abusi di ogni sorta, come documentato da testimonianze univoche ed inoppugnabili di tanti migranti che sono riusciti a fuggire, e hanno comunque raggiunto l’Italia. Dai contenuti pubblicati di questo ennesimo Memoriale d’intesa emerge come, con i finanziamenti dell’Unione Europea, si passerà presto dall’addestramento delle Guardie di frontiera e della Guardia costiera “libica”, e quindi ad intese operative. La collaborazione tra i libici ed i mezzi navali coinvolti nella missione europea EUNAVFOR MED ( Operazione Sophia), iniziata in realtà da tempo, ha prodotto anche qualche “incidente”.
I media libici hanno dato notizia che il 17 agosto scorso un battello veloce della Guardia Costiera libica avrebbe aperto il fuoco sulla nave umanitaria Bourbon Argos di Medici Senza Frontiere mentre svolgeva attività SAR ( Ricerca e salvataggio) nella stessa zona, oggetto di tanti salvataggi in passato. Salvataggi che oggi sono in forte diminuzione a causa del rallentamento delle partenze dalla costa libica, effetto della situazione di conflitto armato che rende sempre più difficili e pericolosi gli spostamenti dei migranti che attraversano la Libia per imbarcarsi verso la Sicilia. Nel Comunicato della Guardia Costiera libica si fa riferimento al ritiro degli uomini armati dalla nave umanitaria, occupata per 50 minuti, solo dopo avere avuto notizia che la stessa nave “avrebbe fatto parte dell’Operazione Sophia”. Sull’”incidente”, ammesso anche dai libici e riportato dal Guardian, è subito calata la censura internazionale. Come è avvenuto anche qualche giorno più tardi, dopo il sequestro di due operatori umanitari tedeschi che si trovavano su un gommone di servizio alla nave umanitaria Sea Eye al largo di Zawia, rimessi in libertà dopo 48 ore, come se si fosse trattato di un “incidente” per difetto di comunicazione tra l’imbarcazione tedesca ed i mezzi della Guardia costiera libica.
4, Dietro l’apparenza enfatizzata dai media degli sbarchi di massa, con il contorno tragico delle vittime in mare e degli scafisti arrestati a terra, spesso minori utilizzati come ultimo anello della catena di trafficanti, si nasconde la realtà di sfruttamento lavorativo, di abusi esistenziali, oltre che di natura fisica e sessuale, che i migranti, giunti in Italia, senza alcuna distinzione di status, siano essi “migranti economici” o richiedenti asilo, subiscono una volta che si collocano ai margini o all’interno del mondo del lavoro. Rimane nell’ombra anche la situazione reale dei paesi di origine, etichettati come “paesi terzi sicuri” per potere eseguire respingimenti ed espulsioni senza l’ostacolo costituito dalle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. In questa prospettiva manca qualsiasi riferimento ai profughi ambientali ed alle loro istanze di salvezza in un “paese sicuro”. I Migration Compact chiamano anzi in causa proprio i paesi che appaiono meno sicuri, a condizione che possano garantire ai governi europei una riduzione, se non il blocco delle partenze e dei transiti verso l’Europa.
Non si vuole prendere atto che ci troviamo comunque di fronte a migrazioni forzate, anche per cause ambientali o per la desertificazione economica del territorio. Si parla di un Piano Marshall per l’Africa, ma in realtà si vuole soltanto che i paesi africani si dimostrino più collaborativi nelle politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera e di riammissione con accompagnamento forzato. Non si può chiudere la porta in faccia a quelle persone che sono state costrette a partire da un’Europa incapace di garantire una qualsiasi probabilità di un futuro dignitoso nelle terre di origine. Il ricorso ad una serie di Migration Compact per spostare a livello di cooperazione bilaterale sorretta dal contributo economico dell’Unione Europea non potrà che risultare fallimentare. Come è già dimostrato dal fallimento del recente Vertice “informale”di Bratislava. Nel caso delle grandi aree di crisi come la Siria e la regione che va dal Pakistan all’Afghanistan ed all’Iraq, come per il Corno d’Africa e tutta l’Africa sub sahariana, le responsabilità, veri e propri doveri di solidarietà. vanno condivisi su scala internazionale più ampia.
Di fronte ad un orientamento politico e culturale contrario a tutte le migrazioni, interne ed esterne, un orientamento che appare ormai maggioritario, occorre smascherare il falso umanitarismo che alcuni governi ostentano per differenziarsi da quelli che più apertamente si oppongono alla mobilità dei migranti, sia europei che in arrivo dai paesi esterni all’Unione Europea. Nei fatti poi, sul piano della politica estera e delle prassi di polizia, come nella gestione dei rapporti di lavoro e nella gestione del welfare, o di quello che ne rimane, le differenze tra i diversi stati si attenuano e i diritti fondamentali della persona migrante sono sempre più a rischio, dal diritto alla vita ed a non subire trattamenti inumani o degradanti, fino al diritto di accedere ad un territorio nazionale per chiedere asilo o altra forma di protezione, o al diritto di difendere la propria libertà attraverso una difesa effettiva ed una possibilità di ricorso giurisdizionale. Il diritto alla migrazione per lavoro non esiste più, ma solo gli illusi possono credere che con le espulsioni dei migranti la loro condizione personale potrà ritornare ad una prospettiva di crescita come ai tempi precedenti la grande crisi economica che dal 2008 attanaglia tutto il mondo occidentale. La riforma dei rapporti di lavoro, la riduzione dei servizi offerti dalla sanità pubblica, le politiche urbanistiche di ghettizzazione, la negazione del diritto all’istruzione, sono processi in corso da tempo, che vanno di pari passo con la militarizzazione delle frontiere e con il contrasto dell’immigrazione, tutta, regolare ed irregolare. Si riproduce il peggiore sfruttamento, con la chiusura di tutte le vie legali di ingresso e con la cancellazione sostanziale del diritto alla protezione internazionale.
E proprio dai diritti fondamentali, come il diritto alla salute, il diritto all’istruzione ed al lavoro, il diritto alla coesione familiare ed al rispetto della vita privata, che occorre ripartire per restituire identità e futuro alle persone che sono comunque costrette a lasciare il loro paese non per effetto di false aspettative, ma per circostanze oggettive di impoverimento o di negazione di quegli stessi diritti fondamentali che, nel mondo globalizzato, spingono verso la condizione di migrante un numero sempre più elevato di persone. Occorre costruire nuove solidarietà, e lottare per una distribuzione più giusta della ricchezza, altrimenti non ci si potrà che ridurre alla scelta tra il modello israeliano ed il modello australiano che legano esclusivamente sicurezza interna e controllo delle frontiere esterne. All’Europa dei muri e dei campi di confinamento, come alle tante barriere che circondano chi la frontiera se la porta addosso, marchio o numero segnato su un polso, occorre opporre un’Europa di cittadini e di istituzioni locali che si interpongono e ricostruiscono nuovi legami sociali, nella difesa dei diritti fondamentali delle persone migranti, e dell’intera popolazione di un territorio. Con il passare del tempo sarà questa l’unica forma possibile di integrazione e di convivenza pacifica. Soltanto questa Europa potrà resistere alla sfida globale ed al declino al quale la condannano rapporti di forza, militare, politica ed economica, ormai incentrati più sui due grandi oceani che sul Mediterraneo.
Per questa Europa che resiste e che rifiuta l’uso del mare Mediterraneo come una frontiera, si dovranno individuare nuove forme di rappresentanza popolare e di soluzione pacifica dei conflitti. Un impegno, anche di ricerca, del quale non è possibile anticipare a priori gli sbocchi. Di certo la storia del Mediterraneo è una storia di coesistenza. Ed occorrerà trovare sedi e tecniche di sanzione delle violazioni alle quali non si riesce a trovare risposta davanti ai tribunali ed alle corti internazionali, anche per la difficoltà di accesso delle vittime alla giustizia. Senza una tutela effettiva un diritto non esiste.
La distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo, indotta spesso strumentalmente con informazioni fuorvianti che i destinatari non erano affatto in grado di comprendere, è servita soltanto a marchiare come “irregolari” decine di migliaia di persone, rispetto alle quali adesso il nostro paese, come su scala generale l’Unione Europea, dovranno fare i conti. Vanno individuate possibilità di ingresso legale per lavoro e di regolarizzazione permanente di coloro che non sono più in condizione regolare, magari per il respingimento di una domanda di protezione internazionale, ma che al contempo non possono neppure essere espulsi verso il paese di origine.
Occorre soprattutto rompere il silenzio che circonda i rapporti di diritto internazionale che scaturiscono dal Processo di Khartoum ed adesso dal Migration Compact, rapporti di cooperazione economica e di supporto politico sui quali si gioca la vita di migliaia di persone. Un silenzio imposto dai vertici politici e militari, che cercano in ogni modo di nascondere i propri fallimenti, anche quando si continuano a contare le vittime delle politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera e di accordi con i paesi terzi, per fermare i migranti, anche quando questi paesi non rispettano le Convenzioni che sanciscono i diritti fondamentali che spettano a qualsiasi essere umano ed il diritto internazionale del mare universalmente riconosciuto