di Emilio Drudi
Inseguiva la libertà. Una vita senza dover imbracciare un fucile o subire l’incubo di un lavoro da schiavi. I sogni di ogni giovane della sua età: una ragazza, gli amici, la musica, la possibilità di farsi strada. Per questo è fuggito dall’Eritrea. E invece ha trovato una morte orribile ad Homs, ucciso da un mese di torture nel lager dei trafficanti che lo avevano sequestrato. Si chiamava Robel Kidane e veniva da Asmara: aveva solo 17 anni. Il padre, Kidane Bahta, esule in Germania, lo ha appreso l’otto febbraio scorso da uno dei suoi sei compagni di prigionia. Ora non sa, non può darsi pace: stava cercando di mettere insieme la somma pretesa dai sequestratori, ma non ha fatto in tempo…
Robel è una delle tante vittime degli accordi tra l’Italia e il governo di Tripoli che bloccano in Libia migliaia di profughi e migranti, consegnandoli di fatto all’orrore dei centri di detenzione statali o, peggio, delle prigioni dei trafficanti. A seguire e a raccogliere la sua storia, attraverso i racconti del padre e dei compagni, è stato Abraham Tesfai, un giovane rifugiato che vive a Bologna, membro del Coordinamento Eritrea Democratica, una organizzazione della diaspora che, oltre a lottare contro la dittatura di Asmara, cerca di aiutare i profughi in tutte le tappe del loro difficile cammino: in Africa, nel Medio Oriente, nel Mediterraneo, fino alle porte sempre più chiuse della Fortezza Europa.
La decisione di fuggire Robel l’ha maturata presto, appena adolescente, per sottrarsi all’obbligo del servizio militare pressoché infinito con cui il governo ruba la vita ai suoi giovani. E’ riuscito a passare il confine con il Sudan all’inizio del 2017, rifugiandosi temporaneamente a Khartoum. Ma il Sudan del dittatore Al Bashir non è terra per rifugiati: specie dopo gli ultimi accordi con Roma e Bruxelles, i migranti vengono arrestati e rimpatriati di forza. Nel caso degli eritrei, riconsegnati alla galera del regime da cui sono scappati, rischiando la morte ad ogni passo. Così, appena ha potuto, Robel ha ripreso la fuga, per raggiungere il padre in Germania, affidandosi all’unica possibilità che hanno i profughi: i canali clandestini organizzati dai mercanti di uomini. I “passatori” che si erano impegnati a fargli superare il Sahara per più di mille dollari, lo hanno unito a un gruppo di altri 60 e più eritrei. Nei giorni successivi se ne sono aggiunti numerosi altri. Alla partenza li hanno caricati tutti su un convoglio di cinque pick-up, scortato da uomini armati. Quasi sei giorni di viaggio, ammassati l’uno sull’altro, con poca acqua, cibo scarso, la paura di essere fermati o di cedere alla fatica e al sonno e cadere fuori, con la certezza di essere poi abbandonati nel deserto. Ma in Libia, alla fine, ci sono arrivati.
Prigionieri di Abdel Aziz
Superare la frontiera non è stato difficile: nessuno li ha fermati, quasi ci fosse un tacito accordo. Sembrava fatta: ancora qualche giorno e avrebbero raggiunto la costa. E invece era l’inizio del calvario. Stavano viaggiando verso nord quando il convoglio è stato intercettato da una banda armata di Abdel Aziz, un trafficante sudanese che opera a cavallo del confine tra il Sudan e la Libia. Non è chiaro se il blocco sia stato casuale o se invece, più verosimilmente, siano stati i trafficanti di Khartoum a venderli ad Aziz, dando appuntamento ai suoi miliziani lungo la pista che stavano percorrendo. Sta di fatto che la scorta non ha reagito. L’intero gruppo è stato sequestrato e condotto in una grande prigione gestita dai trafficanti nei pressi di Sabha. E’ assai probabile che si tratti dello stesso grosso complesso descritto da numerosi altri profughi e migranti alle porte di Sabha, collegato anche al “mercato degli schiavi” scoperto e denunciato ripetutamente nel corso del 2017 (rapporto Oim dell’aprile/maggio, filmato trasmesso dalla Cnn nel mese di novembre, ecc.). A tutti è stato detto subito che per essere liberati dovevano pagare un riscatto di migliaia di dollari. In questo carcere, circondato da un’alta recinzione sorvegliata da miliziani pronti a sparare, Robel è rimasto fino al 5 ottobre 2017. Oltre quattro mesi, durante i quali ha stretto amicizia in particolare con altri sei ragazzi, un diciassettenne come lui e cinque poco più che ventenni. Tutti e sette sono stati rilasciati, insieme a decine di compagni, soltanto dopo aver versato ad Aziz 6.500 dollari a testa. Nel prezzo del riscatto era compreso anche il trasporto sino alla costa e l’imbarco su un gommone per raggiungere l’Italia.
L’imbarco e il rientro in Libia
Il viaggio fino alla sponda del Mediterraneo è stato organizzato dai trafficanti con un camion/furgone completamente chiuso. Qualche ora di viaggio, fino a una località imprecisata vicino a Tripoli, ammassati sul piano di carico, al buio, senza la possibilità di vedere nulla. Sono arrivati di notte. In attesa dell’imbarco li hanno tenuti per qualche giorno in un capannone dove c’erano già altri migranti. L’undici ottobre 2017 li hanno caricati in 80 circa su un gommone, facendoli partire prima dell’alba. Il battello era molto malridotto e anche il motore funzionava a stento. Hanno fatto poche miglia e poi, intuendo che lo scafo stava per cedere, hanno deciso di invertire la rotta e rientrare a terra. “I più risoluti – racconta Abraham, riferendo le testimonianze raccolte – volevano tornare da Aziz o prendere contatto con uno dei suoi emissari per chiedere un gommone migliore, visti i 6.500 dollari che ciascuno di loro aveva versato. Una volta a riva sono stati però intercettati da una pattuglia della polizia, che li ha fermati e condotti in un centro di detenzione ‘ufficiale’ nei pressi di Homs. Un complesso, hanno detto, che fa capo al ministero dell’interno di Tripoli, con agenti di polizia per la sicurezza e la sorveglianza e all’interno del quale opera anche una delegazione dell’Unhcr”. Una volta nel campo, in effetti, sono stati registrati e hanno ricevuto le prime, essenziali forme di assistenza. Sono seguiti, poi, uno o più colloqui con delegati dell’Unhcr, i quali li avrebbero rassicurati dicendo che sarebbero stati inseriti in un programma di relocation per raggiungere il Niger e da qui eventualmente l’Italia o un altro paese europeo, nel caso avessero avuto i requisiti per presentare richiesta di asilo.
Il rapimento
La permanenza in questo complesso si è protratta fino al 6/7 gennaio 2018. “Secondo quanto mi hanno riferito – prosegue Abraham – tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio alcune guardie del campo avrebbero avvicinato diversi ragazzi, prospettando la possibilità di svolgere un lavoro retribuito all’esterno. Robel e i suoi compagni hanno accettato. Gli agenti da cui erano stati contattati li avrebbero allora affidati a un uomo, un libico che loro non avevano mai visto prima, presentato come la persona disposta a farli lavorare. Sarebbe stato poi proprio quest’uomo a consegnarli a un emissario della banda che li ha sequestrati. ‘Siamo usciti dal campo a piedi, hanno raccontato, e sempre a piedi abbiamo raggiunto una località che non conosciamo, ma comunque non lontana perché non abbiamo camminato a lungo. E abbiamo scoperto che, invece di portarci a lavorare come ci era stato prospettato, eravamo di nuovo prigionieri di una banda di trafficanti’. Non hanno saputo precisare di quale banda si tratti”.
Se tutti gli spostamenti sono stati fatti a piedi, la prigione dei trafficanti non dovrebbe essere lontana da Homs. Nelle telefonate ai familiari, i ragazzi la descrivono come un locale sotterraneo, pressoché invisibile dall’esterno. Una descrizione che richiama quelle delle prigioni improvvisate nel deserto del Sinai dai trafficanti Rashaida, quando era aperta la via di fuga dal Corno d’Africa verso Israele, attraverso il Sudan, l’Egitto e, appunto, il Sinai: container – hanno detto i prigionieri che sono riusciti a venirne fuori – sepolti o semisepolti nella sabbia e ai quali si accedeva attraverso uno stretto, ripido passaggio dal piano di campagna.
Il riscatto
E’ stato subito chiaro che si trattava di un sequestro a scopo di riscatto: per rilasciare i ragazzi, la banda ha chiesto inizialmente “non meno di 35 mila dollari a testa”, attivandosi per mettere ciascun prigioniero in collegamento con i familiari in Europa o in Eritrea. Tra i primi ad essere contattato è stato, in Germania, Kidane Bahta, il padre di Robel, con telefonate quasi quotidiane. Alcune volte il colloquio si è protratto per qualche minuto, in una sorta di trattativa accompagnata da minacce e ammonizioni, qualche volta appena pochi secondi: giusto uno squillo e il tempo di far sentire la voce di Robel, come a voler dimostrare che era ancora vivo ma che bisognava decidersi in fretta a pagare. L’ultima, brevissima telefonata di questo tipo è stata fatta il 30 gennaio 2018. L’ultimo contatto per la richiesta del riscatto c’è stato il 5 febbraio. Ogni volta il ragazzo ha riferito di essere sottoposto a continui, durissimi pestaggi. “Nel frattempo – precisa Abraham – la somma pretesa era scesa a 20 mila dollari, ma i rapitori hanno specificato, con un tono estremamente minaccioso, che non intendevano andare in nessun modo al di sotto di questa cifra”.
“Robel è morto”
Tre giorni dopo, l’otto febbraio, è stato Kidane a chiamare il numero di cellulare fornito dai trafficanti per i contatti: voleva rassicurare Robel che stava facendo di tutto per trovare i soldi. Ma questa volta non ha risposto Robel. All’altro capo c’era uno dei suoi compagni. Kidane gli ha chiesto di passargli il figlio, ma quel ragazzo ha dovuto dirgli che Robel era morto poche ore prima, stremato dalle torture e dai maltrattamenti subiti per oltre un mese. Ucciso a 17 anni mentre inseguiva il suo sogno di libertà. Non si sa nemmeno che fine abbia fatto il corpo. “I suoi compagni – specifica Abraham – hanno riferito che i trafficanti lo hanno portato via dalla prigione, ma di non essere in grado di dire se e dove sia stato seppellito… Ma c’è anche un altro aspetto. Nel centro di detenzione di Homs il mancato rientro di Robel e degli altri sei ragazzi ha allarmato alcuni compagni che erano partiti e avevano fatto il viaggio con loro fin da Khartoum e ne avevano diviso la sorte lungo tutto l’itinerario nel deserto, la cattura e la prigionia nelle mani di Aziz, l’imbarco e il rientro in Libia, ecc. Dopo alcuni giorni hanno dapprima chiesto notizia agli agenti di polizia libici e poi, non ricevendo risposte, quattro di loro dicono di essersi rivolti direttamente ai funzionari dell’Unhcr con i quali erano entrati in contatto appena arrivati nel centro e che avevano parlato loro del programma di relocation in Niger e magari in Europa. Sembrerebbe che la polizia abbia ‘giustificato’ l’assenza dei ragazzi rapiti asserendo che si erano allontanati di loro volontà dal campo. Non risulta che siano state fatte ricerche per rintracciarli”.
“Il Governo italiano, il premier Gentiloni, il ministro Minniti in particolare – denuncia il Coordinamento Eritrea Democratica – non perdono occasione per vantare come un grande successo la riduzione degli sbarchi di richiedenti asilo e migranti in Italia. Nel 2017, dicono, c’è stato un calo di oltre il 34 per cento. Nei primi mesi di quest’anno, del 50 per cento. E’ vero: con il blocco della rotta del Mediterraneo centrale ora arrivano meno profughi. Ma quelli che non arrivano non sono ‘salvati’ come pare si voglia far credere. Quelli che non arrivano restano nell’inferno dei ‘sommersi’: resi schiavi, torturati, uccisi. Desaparecidos. Fantasmi di cui nessuno si preoccupa. La storia terribile di Robel lo dimostra. Il preteso successo della politica italiana ed europea si basa su questo inferno. Roma e Bruxelles dovranno sicuramente risponderne di fronte alla storia. Ma siamo sicuri che prima o poi saranno chiamate a renderne conto anche davanti a una corte di giustizia”
Da: Tempi Moderni