….e poi hanno un nome e una storia. Una sconfitta che parla a noi

Questa vicenda, in cui è incappata la nostra amica Agata Ronsivalle, è un pretesto. Un pretesto per raccontare aspettative e delusioni,  fatica e sogni, riscatto, amicizia ma, soprattutto, l’importanza di decidere in prima persona, del proprio futuro. Ne abbiamo discusso, ci ha fatto riflettere e passare senza soluzione di continuità da una empatia totale alla necessità di comprendere razionalmente un punto di vista. La raccontiamo in prima persona, insieme  a queste riflessioni, perché anche ad una parola abusata come “accoglienza”, si possa provare  a ridare senso e valore.

Agata Ronsivalle & Stefano Galieni

Ricordo quel giorno alla stazione di Catania, quando li ho salutati prima di salire sul treno. Eravamo tristi come quegli amici che sanno che non si rivedranno per tanto tempo, ma pieni di entusiasmo perché per loro stava iniziando una nuova vita in Europa. Sembra una storia come quella di tanti rifugiati: fuga dalla Siria, mesi di prigionia trascorsi in Egitto, un viaggio lungo e pericoloso attraverso il mare. Ma adesso c’era un grande sogno da realizzare. Il peggio era passato. Loro sono una bella famiglia siriana, simpatici, accoglienti come sanno essere gli arabi e aperti al mondo. Con loro ho assaporato la gioia di mangiare un gelato in una bella giornata di sole primaverile dopo che avevano attraversato l’inferno. Ma l’inferno sembrava alle spalle. Lo vedevo dagli occhi dei bambini. Le loro foto ancora mi arrivano e mi incantano con la bellezza di una madre in procinto di dare alla luce un altro figlio con l’entusiasmo di suo marito. I nostri incontri erano divenuti sempre più occasione di piccole ma preziose gioie, momenti di intimità, in cui ci raccontavamo, scoprendoci e conoscendoci mano mano, le nostre vite. Mi mostravano con orgoglio alcune piccole foto del loro matrimonio che erano sopravvissute al lungo viaggio e alle tante traversie affrontate. Confidenze che toccano il cuore. Mi sembra quasi di vederli Feisal ed Halima (nomi di fantasia), con lui che le chiede la mano, le incertezze iniziali di lei e poi le foto sul cellulare dei genitori, della loro bella casa, in quel momento ancora intatta come un’isola in un mare di macerie. E Feisal continuava a chiedersi il perché di questa beffa: «La nostra casa è ancora in piedi. Chissà fino a quando lo resterà».

In quel momento ho capito che, trovarsi, capirsi, annullare le distanze e trovare quel luogo in cui a prevalere è la fiducia reciproca, la stima, l’affetto, beh sembrerà banale ma è possibile, addirittura facile e inevitabile.

E mi trovavo a riflettere sul fatto che “accoglienza” non significa un tetto, un pasto caldo, qualcuno che ti organizza la vita e determina il tuo futuro ad orari prestabiliti. Accoglienza significa mettersi reciprocamente in gioco, rischiare di trovarsi o di non trovarsi, di condividere e di scontrarsi, ma alla pari, potendosi guardare negli occhi. Certo quando si arriva da un passato che fa gelare il sangue solo a immaginarlo, può essere un primo momento in cui quello che prevale è la necessità di veder soddisfatti i bisogni elementari, ma non ci si può limitare a questo e non si possono costruire gradini come “prima”, “seconda” e poi magari “terza” accoglienza, mantenendo inalterati quelli che sono rapporti di potere, meno violenti e solo per questo meno percepibili. C’è bisogno di accompagnarsi verso un possibile futuro in cui a cambiare non è solo la vita di chi arriva ma anche di chi accoglie, in cui la percezione del mondo diviene più complessa, in cui si accumulano ricordi, momenti, fotografie, odori e suoni. Un incontro del genere non potrà mai avvenire nei centri ghetto che sorgono un po’ dovunque ma rischia a volte di non avvenire neanche quando prevale la logica dell’accoglienza diffusa, dello Sprar, come lo chiamiamo in Italia, in quanto momento di passaggio.

Non ci sono mediazioni possibili: o mondi diversi riescono ad incontrarsi e a costruirne un altro, fatto di pluralità, di identità mai fossilizzate e chiuse, o ogni forma di accoglienza sarà fragile, esposta alle intemperie e ai mutamenti del volere di chi comanda e delle percezioni di chi si sente padrone in casa propria e al massimo fa sfoggio di tolleranza.

I miei amici non hanno trovato il futuro che speravano di trovare. Non sono rimasti a Catania, erano qui quando il nord Europa accoglieva e offriva diritto d’asilo, soprattutto in Germania, dove sono andati.

E l’asilo lo hanno ottenuto, insieme ad un alloggio. Cosa desiderare di più?

Fa presto l’incanto a trasformarsi in una realtà terribile, in cui ci si rende conto che forse l’Europa è bella solo per chi ci è nato da generazioni, per chi ha la pelle bianca e il portafoglio possibilmente pieno. Dopo quasi due anni vissuti in Germania i miei amici hanno deciso di lasciare l’Europa per ritornare in Egitto e stabilirsi lì, proprio nel paese che li aveva incarcerati e umiliati perché migranti. Una scelta difficile da capire e accettare. L’inizio della nuova vita tanto sognata in Europa non è stato come lo si era immaginato. Oltre all’umiliazione di essere molte volte trattato come un criminale, anche qua in certi posti devi aver paura a camminare per strada, perché puoi essere aggredito da uno dei tanti picchiatori dei gruppi neonazisti che sono fioriti per dare voce alla parte più becera e vigliacca del continente. Ma finisci con il vivere forme di violenza anche più subdole che non possono essere denunciate, che non costituiscono reato ma che diventano muro invalicabile. Ad esempio quando i tuoi vicini di casa ti guardano con diffidenza perché sei arabo o perché porti il velo. Senti di essere in paese che non ti appartiene e a cui senti di non voler appartenere. Accade in Italia e accade nel piccolo paese tedesco in cui i miei amici sono stati inviati come pacchi postali. Accade che quella speranza iniziale, quell’entusiasmo e quella voglia di ricominciare vengano in poco tempo annullati dallo sconforto.

E mi domando, chissà se i miei amici, inconsapevolmente, hanno anche loro alzato un muro per difendersi. Il nostro vivere da occidentali ormai è fondato sull’indifferenza rispetto al prossimo. Ci si chiude in nuclei sempre più ristretti nella realtà che vengono magari compensati da una vita virtuale. Ma il vicino da salutare piano piano scompare dai propri orizzonti, preso dalla fretta, dalla riserbatezza, dalla paura dell’altro che ormai governa le nostre giornate. La diffidenza è come una valle nelle nostre grandi città, si espande come una malattia, una infezione contro cui non abbiamo gli anticorpi. Magari si saluta il vicino potente o famoso, quello che può sempre tornare utile per ragioni personali. Ma più l’altro diviene lontano, in una gerarchia sociale che è diventata religione e più prevale l’indifferenza. Gli anziani, i poveri, chi è considerato un perdente, sono i primi a divenire non degni di far parte della propria cerchia. Chi ha il colore della pelle diverso,chi arriva da un paese lontano, chi ha una religione diversa, usanze, cucina, ma soprattutto chi rappresenta il marchio indelebile del fallimento occidentale va tenuto distante. Escludere diviene la norma e la reazione è fare di questa esclusione una propria forma di nuova identità.

E forse allora la scelta dei miei amici, di tornare in Egitto, dove rischiano la vita ma risentono i suoni di una lingua conosciuta e in cui la distanza dal paese abbandonato è minore, non è una sconfitta per loro. Loro hanno scelto di rifiutare l’accoglienza gelida e di ricominciare un’altra volta daccapo. Ma loro non guardano noi europei come una massa indistinta e mi sento lusingata del fatto che continuino a scrivermi e a cercarmi.

Ad essere sconfitti non sono loro ma è la nostra tanto decantata superiorità europea, il nostro ergerci a faro del mondo per poi ritrovarci ben presto, in realtà sta già accadendo, soli e incapaci di pensare ad un futuro.

Questo lo dico razionalmente ma poi tornano a prevalere i ricordi e – non me ne vergogno – il sentimento.

E penso a quando, in un bar di fronte al mare, col sole che illuminava un azzurro infinito che permetteva di immaginare un mondo dall’altra parte, ascoltavamo e riascoltavamo una canzone di cui mi resta impresso il ritornello “Eshta’tellek eshta’tellek”. In arabo significa “mi manchi” ed è stato con quella canzone che ho imparato non solo a dire “mi manchi” in arabo ma a percepire il senso profondo di una frase apparentemente così semplice. Chi l’avrebbe mai detto che poco tempo dopo avremmo provato noi, sia io che loro, questo sentimento di mancanza, di nostalgia e di amarezza per un sogno infranto.

E farò tutto quello che posso per impedire che questo resti solo un sogno infranto.

Ci rivedremo amici miei, non so dove né quando ma ci rivedremo.