Un blitz, un campo, una panchina.

di Giulia Veca

A pochi metri dal campo della Favorita di Palermo c’è una panchina in cui mi fermo spesso a riflettere dopo aver ascoltato le famiglie rom che in quel campo vivono da decenni. È il mio luogo della risonanza, una tappa necessaria che dà forma agli eventi prima di tornare a casa. Su questa panchina mi sono seduta la sera del 17 febbraio scorso, a poche ore dal blitz delle forze armate, il più imponente che io ricordi nella mia città, le cui cause ancora oggi sono poco chiare.

Quella stessa mattina ero stata svegliata dalle telefonate degli abitanti del campo. La paura nelle loro voci aveva chiarito fin da subito che non si trattava di un normale controllo: carabinieri, vigili del fuoco, sanitari del 118, unità cinofile, polizia municipale avevano fatto irruzione all’alba, terrorizzando bambini, anziani, donne e uomini ancora nei loro letti. “Nessuno entra e nessuno esce”, aveva comunicato un carabiniere ad alta voce. “I bambini devono andare a scuola”, aveva provato a obiettare il padre di tre alunni che frequentano la scuola elementare a pochi passi dal campo, forse per risparmiare loro la vista di ciò che di lì a poco sarebbe accaduto. “Oggi vacanza”. Due parole che hanno dato il via al rastrellamento. Dall’alto, un elicottero osservava tutto.

Nei 73 verbali di perquisizione personale redatti dalle forze armate si legge: “ricerca di armi, munizioni o materiale esplodente”. Nessuna delle 73 persone perquisite è risultata in possesso di armi, munizioni o materiale esplodente. Se il blitz è stato realizzato in seguito a una soffiata o sulla base di ipotesi investigative, bisognerà cercare altrove o cambiare informatore.

Dopo avere messo sottosopra le case e le persone per un’intera giornata, le forze dell’ordine hanno denunciato gli abitanti per “invasione di terreni”. Una follia, se si pensa che il campo della Favorita non è stato occupato dai rom ma è stato creato nei primi anni Novanta dall’amministrazione comunale che decise di segregarli in un luogo privo di acqua, luce, riscaldamento (e che divenne qualche tempo dopo Riserva naturale orientata, con tutti i vincoli che ciò comporta) dove a distanza di decenni le famiglie sono ancora costrette a vivere. Un uomo di trent’anni è stato segnalato alla Prefettura perché assuntore di sostanze stupefacenti; peccato che alla stampa non sia stato raccontato ciò che gli stessi carabinieri hanno specificato nel verbale: le sostanze stupefacenti consistono in mezzo grammo di marijuana. Un quarantatreenne è stato arrestato e condotto in carcere dove dovrà scontare una pena di otto mesi. Giornali e siti di informazione lo hanno definito “latitante” perché nel 2010 il Tribunale di Messina, città nella quale risiedeva, aveva emesso nei suoi confronti un ordine di carcerazione. La famiglia sostiene che il suo unico reato è quello di non avere un regolare permesso di soggiorno e di aver ricevuto la notifica di un decreto di espulsione, da qui la fuga a Palermo. Giudici e avvocati faranno le loro valutazioni; io mi limito a osservare che una pena che potremmo definire lieve lascia intendere che il reato commesso non sia stato poi così grave. Non si spiega allora il perché di una tale stigmatizzazione mediatica. A Palermo, città nella quale vivo e sono nata, i “latitanti” sono altri e quando vengono assicurati alla giustizia, in genere scontano pene con il regime del 41 bis. Infine, la conseguenza più dolorosa del blitz, ciò che ha sconvolto l’intera comunità rom: il fermo di quattro donne, due ventenni, una trentenne e una cinquantenne, e il loro invio al centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, a Roma. Di tutte le vicende accadute quel giorno, questa è certamente la più penosa perché la più ingiusta.

Nessuna di loro ha commesso reati, se non avere permessi di soggiorno scaduti e in via di rinnovo, ma tanto è bastato a definirle, nei giornali e nei verbali, “clandestine”.

Le “clandestine” sono due ventenni nate e cresciute a Palermo, inserite per molti anni nel permesso di soggiorno del padre, un profugo giunto in Italia dai territori dell’ex Jugoslavia martoriati dalle guerre. L’impossibilità di ottenere un passaporto da uno Stato che non esiste più gli ha impedito

negli anni successivi all’arrivo di rinnovare il permesso di soggiorno. L’assurdità della legge lo ha fatto precipitare nell’irregolarità incolpevole insieme alla sua famiglia.

La trentenne è madre di una bambina che frequenta regolarmente la scuola. Aveva richiesto un permesso di soggiorno per assistenza alla minore. I carabinieri l’hanno buttata giù dal letto prima di ottenerlo. La cinquantenne è madre di cinque figli, tre dei quali nati a Palermo. Le sue condizioni di salute sono estremamente precarie, è affetta da numerose patologie ed è stata colpita dal cancro in passato. La sua salute non era certo compatibile con la reclusione in un Cie e le forze dell’ordine erano a conoscenza di ciò. Mi trovavo davanti alla porta della sua casa quando una pattuglia dei carabinieri le ha concesso di prendere i medicinali di cui ha bisogno quotidianamente prima di accompagnarla a bordo dell’aereo.

Madri, mogli, figlie sorelle. Ecco le “clandestine” del campo rom fermate dai carabinieri. Solo donne. Chissà perché. Il Cie di Ponte Galeria è una struttura esclusivamente femminile. Forse c’erano quattro posti liberi, sostengono i più cinici.

Contro la loro reclusione si sono mobilitati molti attivisti della città e gli avvocati della Cledu, la Clinica legale per i diritti umani dell’Università di Palermo. Insieme a loro ci siamo recati in caserma la sera del fermo, pregando i militari di farci incontrare le quattro donne per tentare di rassicurarle e accertarci che stessero bene. La nostra richiesta non è stata esaudita. Ci hanno solo concesso di scrivere su un foglio di carta i nomi e i numeri di telefono degli avvocati da nominare una volta giunte a Roma. Di loro abbiamo anche perso le tracce per qualche ora il giorno seguente, poiché appena entrate a Ponte Galeria il cellulare dotato di fotocamera è stato sequestrato. Dopo un buco nero di cinque ore, finalmente una chiamata. Una giovane cittadina proveniente dal Marocco, reclusa insieme a loro, aveva lasciato che inserissero la sim nel suo telefono, un vecchio nokia. “Me l’ha dato un’amica”, mi ha detto una delle ragazze. Amici, sì – ho pensato – come soltanto sono amici gli esseri umani quando intorno c’è il pericolo.

Il giorno seguente, grazie al supporto della Clinica del diritto dell’immigrazione dell’Univerisità Roma tre e al lavoro dell’avvocata Tatiana Montella, il giudice di pace le ha lasciate andare, non rilevando gli estremi per convalidare la loro detenzione. La sera stessa hanno preso un pullman che le ha riportate a Palermo, dove hanno potuto riabbracciare le loro famiglie.

Si apre dunque il tempo delle domande. Chi e perché ha autorizzato un intervento così violento e così inutile, in termini di risultati attesi? Forse i piani di lettura sono molteplici e si intersecano. C’è una politica mondiale ostile all’accoglienza che tende ad alzare muri e a stipulare accordi con Paesi terzi non sicuri. C’è un nuovo Ministro dell’Interno nel nostro Paese che ha forse voluto dare una dimostrazione di forza a tutela della “sicurezza” pubblica. Se così fosse, dovremmo aspettarci altri episodi analoghi, altri blitz, altre possibili ingiustizie.

Ma c’è anche una spiegazione che si declina sul piano locale: tra qualche mese il capoluogo siciliano andrà al voto. Da sempre, durante le campagne elettorali si accende un faro sui campi rom. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, ha mostrato durante quest’ultimo mandato di voler interrompere le fallimentari politiche dei ghetti, dichiarando in più sedi e in più occasioni che nessun campo sarà mai più creato e che gli abitanti della Favorita saranno seguiti nel percorso di fuoriuscita, finalizzato alla chiusura e al recupero dell’area. Inoltre, lo stesso Orlando, in occasione del blitz del 17 febbraio, ha usato parole molto nette nel suo comunicato, definendo “deportazione” quella messa in atto nei confronti delle nostre concittadine rom, che pagano il prezzo dell’assenza di una legge sullo ius soli. L’attuale amministrazione si è mostrata, dunque, aperta alle istanze degli abitanti del campo, cosa che potrebbe aver dato fastidio a qualcuno.

Per il momento c’è una comunità spaventata che fatica a superare lo shock dei soprusi subiti. Ci siamo chiesti come affrontare la paura. La risposta è stata semplice: insieme. Per questo domani mattina il carnevale sociale farà una tappa nel prato adiacente il campo rom. Chi può venga per fare un saluto, per regalare un abbraccio, per manifestare solidarietà a quegli uomini e quelle donne con la paura in petto. Venga in maschera o senza maschera; da solo o con i propri figli. Vediamoci domani. Vediamoci alla panchina.