CIE: risposte vecchie e fallimentari di fronte a problemi nuovi. È ancora 29 dicembre

Stefano Galieni

Proprio il 29 dicembre, 17 anni fa, si consumava nel Centro  di Permanenza Temporanea (i CIE di prima generazione), Serraino Vulpitta, a Trapani, la peggiore strage in un  luogo di detenzione amministrativa per migranti. Sei ragazzi tunisini, la cui vita è stata letteralmente bruciata. Lo Stato è stato condannato per quanto accaduto, ma non basta. Tanti e tante sono state le persone che in questi centri, vero bubbone di qualsiasi Stato che voglia definirsi democratico, hanno perso la vita, come documenta il lavoro fatto dal gruppo Morti di CIE. Ma si tratta soltanto della punta più tragica di un meccanismo infernale che ha visto distruggerere  la vita di uomini e donne, con rimpatri o con la condanna ad una “vita clandestina”, con sofferenze che minano l’essenza stessa di una persona. Di questo strumento messo in pratica nel 1998 da un governo di centro sinistra al richiamo “ce lo chiede l’Europa” e via via peggiorato negli anni come progetto che univa insieme la possibilità di trarre profitto per gli enti gestori e la propaganda repressiva che ha sempre portato consenso, in molti ci siamo resi presto conto. Le grandi battaglie di movimenti antirazzisti nei primi anni 2000 non hanno portato a risultati concreti. I centri aumentavano col consenso dei cittadini e una volontà politica ampiamente condivisa. Ma gli anni passano e lentamente ci si è cominciati a rendere conto di come tali strutture oltre che essere disumane e causa di sofferenza si rivelavano fallimentari  nello scopo per cui erano stati propagandati: “espellere i pericolosi clandestini”. Fallimentari ed  eccessivamente costosi al punto che anche una parte della classe politica ha cominciato a porsi domande rispetto al rapporto costi /benefici. Nel 2007 venne istituita una commisione di inchiesta in materia, presieduta da Staffan De Mistura, e si parlava, anche se in maniera poco convincente, del  superamento dei  centri. L’arrivo del governo Berlusconi riportò indietro le lancette dell’orologio. Col “pacchetto sicurezza” del 2009 i centri  vennero  denominati “di Identificazione ed Espulsione, superando la precedente ipocrita denominazione, e si portarono i tempi massimi di trattenimento a 18 mesi. Una pena per un reato di media gravità insomma, comminata per il solo fatto di non aver ottemperato all’obbligo di allontanarsi dal territorio nazionale.

Ad affrontare questa nuova fase repressiva ci furono meno persone e meno forze politiche. Il tema faceva arretrare anche tante coscienze limpide, una sterzata giunse nel 2011 con l’arrivo dei tanti in fuga dai paesi in cui si realizzavano le Primavere Arabe. L’attenzione si concentrò allora sui porti, sulle vie di fuga dall’Italia, su una nuova tipologia di persone da imbrigliare  e da controllare. Lampedusa divenne in quei mesi, un immenso CIE a cielo aperto, dove si operò per rimpatriare direttamente, soprattutto i cittadini tunisini che erano approdtati. Ma molte persone venivano portate anche nei CIE “ordinari”a tal punto che il Ministro dell’Interno di allora, Roberto Maroni, con una misera circolare interna, impedì di punto in bianco l’accesso ai centri ai giornalisti e agli esponenti di associazioni non registrate in un ristretto elenco. Nacque, a causa di questa circolare, una Campagna, costituita da esponenti della società civile e da attivisti dell’intero territorio nazionale, si chiamò e si chiama ancora LasciateCIENtrare

Si cominciarono ad organizzare ispezioni nei centri per far vedere quello che doveva restare ignoto, nel dicembre dello stesso anno l’effetto della circolare venne sospeso ma entrare nei CIE restò a pura discrezione di Ministero e prefetture. La Campagna, nata per voler conoscere  rapidamente si diede come scopo quello di operare per la chiusura di queste irriformabili strutture.  In questi 5 anni ne sono accadute molte: gran parte dei CIE allora aperti sono ora o chiusi, o destinati a fungere da centri di accoglienza o operano con una capienza ridottta. In tutto il territorio nazionale, ad oggi non ci sono più di 250 persone rinchiuse in attesa di un rimpatrio che spesso non avviene, per difficoltà diplomatiche, per assenza del vettore, perché chi è rinchiuso riesce a chiedere asilo, perché qualche avvocato riesce a non far convalidare il trattenimento. Di questi più di 50 sono donne rinchiuse nel CIE di Roma, di Ponte Galeria, dove la sezione maschile è stata distrutta dopo una rivolta e mai più risistemata. Nonostante la legislazione in materia sia piena di  motivazioni per confermare la “legittimità” dei trattenimenti, capita anche che intervenga la CEDU, Corte Europea per i Diritti Umani e che condanni l’Italia per “privazione illegittima della libertà personale. Ma queste sono notizie che spariscono nel dimenticatoio.

Così come sembra lontano nel tempo il rapporto della Commissione Per la Tutela dei Diritti Umani del Senato, resa pubblica nel febbraio 2016, in cui si dava un giudizio impietoso dei CIE. Oggi ad essere aperti come tali sono 4 (Torino, Roma, Bari e Caltanissetta) ma nelle dichiarazioni fatte nei giorni scorsi, il neo ministro dell’Interno Minniti e il Presidente del Consiglio Gentiloni, hanno deciso di rilanciare. Intendono “potenziare il sistema CIE” (come  del resto affermato sotto il governo Renzi dal responsabile  del Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione, Mario Morcone). Altri 1200 posti, forse di più. riaprendo la sezione maschile di Roma, facendo  tornare all’antico uso quelli di Milano, Gradisca D’Isonzo, Bologna e aprendone uno a Potenza. Dovrebbero servire, nelle intenzione di chi governa, a facilitare le pratiche di rimpatrio, visto che sarà questo il compito primario dell’Italia in Europa nei prossimi anni, ma in realtà quello che prevale è l’effetto propaganda. Non potendo rispondere adeguatamente ai rigurgiti fascistoidi  di Grillo  e Salvini, che chiedono in maniera grottesca e ignorante il rimpatrio di tutti coloro che non sono regolari e la chiusura dell’area Schengen, si da una risposta “democratica”. Verranno espulsi o rimpatriati coloro che non risulteranno in condizione di poter stare in Italia. Nel quadro di una espansione degli accordi di riammissione fra paesi europei e paesi di provenienza, dopo lo stop di quello con il Mali si tenterà di allargare il fronte degli Stati disponibili a riprendersi i fuggitivi, il tema dei rimpatri viene utilizzato in maniera peraltro povera di contenuti anche come arma di contrasto al terrorismo jhadista. Eppure i fatti di questo periodo ce lo insegnano in maniera lapalissiana. Per contrastare il terrorismo occorre un serio lavoro di intelligence, possibilmente coordinato, per contrastare la radicalizzazione occorre essere capaci di offrire un modello di accoglienza diverso da quello che si è messo in atto finora.

Ma il livello della politica italiana è infinitamente più basso. Lo testimoniano le parole di una esponente che si dichiara di sinistra, Debora Serracchiani,  vicepresidente del Pd e Presidente della Regione Friuli Venezia Giullia che non solo ha chiesto più forze di polizia per contrastare la crescita dei furti nelle abitazioni della propria regione (una regione in cui oggi, con la chiusura della Balkan Route non arrivano più richiedenti asilo), ma  e credendo di dire una cosa di senso, ha proposto l’espulsione, per valore simbolico, ad alcuni di quei migranti che non si sono sufficientemente integrati.

Tra le battaglie che ci aspettano per un 2017 che si preannuncia molto duro, sarà fondamentale il combattere tanto queste forme di mala politica, quanto i movimenti che si fanno fieramente alfieri  di posizioni letteralmente razziste.

E su un punto dovremmo imparare, reimparare, a fare un fronte comune: da qualsiasi punto di vista, con qualsiasi mezzo, con qualsiasi cultura politica alle spalle, la chiusura dei CIE, senza se e senza ma, deve essere prioritaria. E si deve scegliere da che parte stare.