Africa-ExPress
Tripoli, 11 settembre 2016
La Guardia costiera libica ha arrestato venerdì scorso due operatori umanitari dell’organizzazione tedesca Sea Eye. Secondo quanto riportato dalla Deutsche Welle, i due viaggiavano su un motoscafo, recentemente acquistato da Sea Eye per interventi veloci, che sarebbe penetrato nelle acque territoriali della nostra ex-colonia proveniente dalla Tunisia. La nave madre sta raggiungendo in queste ore il motoscafo e il suo equipaggio proveniente da Malta.
La nave tedesca Sea Eye
Ayoub Qasim, portavoce della “Libyan navy” riferisce che il motoscafo dei tedeschi sarebbe stato intercettato venerdì a largo di Zawiya. Qasim ha sottolineato che l’equipaggio avrebbe ignorato gli avvertimenti della Guardia costiera libica. “I nostri uomini hanno sparato qualche colpo in aria e solo allora i tedeschi si sono fermati. Due persone sono state arrestate”, ha aggiunto il portavoce.
Uno di loro è stato identificato. Si tratta di Dittmar Christian Kania, cittadino tedesco. Del suo connazionale, arrestato insieme a lui, non sono state rese note le generalità.
Il portavoce della Libyan Navy ha annunciato poco fa che i due tedeschi sono stati rilasciati questa sera. Gli operatori umanitari avrebbero dichiarato di essersi addormentati e non si sarebbero dunque accorti di essere penetrati nelle acque libiche.
Organizzazione Sea Eye è nata nell’autunno del 2015, quando un piccolo gruppo di persone della città di Regensburg, guidato dall’imprenditore Michael Buschheuer, ha deciso di non voler più assistere inerme alla morte di rifugiati nel Mediterraneo. Ha acquistato un vecchio peschereccio battente bandiera olandese, l’ha risistemato e allestito per il soccorso in mare, e lo ha utilizzato per trovare persone in pericolo e salvarle dall’annegamento. La Sea-Eye è oggi costituita da circa 200 persone provenienti da tutta la Germania e da altri paesi europei. Tutti lavorano per il progetto Sea-Eye in maniera volontaria, rinunciando alle proprie ferie e al tempo libero. Dallo scorso aprile la nave tedesca è attiva a largo della costa libica e in pochi mesi è riuscita a trarre in salvo oltre quattro mila persone.
Ma perché accade. Facciamo qualche passo indietro
Nel 1979, ad Amburgo, venne stipulata una convenzione che mirava a sviluppare un piano internazionale secondo cui, indipendentemente dai luoghi in cui si verifica un incidente in mare, il soccorso debba essere organizzato attraverso operazioni SAR (Search and Rescue, ricerca e soccorso). L’approccio è quello della cooperazione fra organizzazioni. Nel maggio 1998 la Convenzione SAR è stata rivista, nel 2000 è entrata in vigore. Il Mediterraneo centrale è stato diviso in “zone SAR”, partendo dalle rotte che si percorrono fra Italia, Malta e Libia, Egitto e Grecia. Lo Stato responsabile di ogni area SAR deve coordinare le operazioni di ricerca e salvataggio.
Lo Stato responsabile di una zona SAR è responsabile del coordinamento delle operazioni per il trattamento delle persone soccorse in mare: in particolare, lo Stato deve fornire un luogo di sbarco di sicurezza o di assicurare che tale luogo sia garantito. Questo può essere attuato anche mediante accordi bilaterali formali o informali. Anche dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum in Italia, nella Zona SAR maltese, molte persone in difficoltà sono stati portati sul territorio italiano. Sembra che un accordo informale fra Italia e Malta sia ancora in vigore. Del resto Malta e Italia sono fondamentali per la rotta di chi fugge dalla Libia.
Sembrava che un accordo dello stesso tipo fosse stato stipulato tra la Marina militare italiana, in particolare dal comando dell’operazione Mare Sicuro con i vertici delle diverse autorità che controllano le coste libiche. Fino al mese di luglio di quest’anno non si erano registrati incidenti rilevani, e soprattutto le diverse navi umanitarie ( di MOAS, MSF, Sea Eye e SOS Mediterranèe) operanti nell’area si erano svolte sotto il coordinamento della Guardia Costiera italiana, fino al limite delle 12 miglia, estensione delle acque territoriali libiche. Una gran parte della zona SAR ( ricerca e soccorso) appartenente alla Libia, di fatto, era “coperta” dalle navi militari italiane e dalle navi umanitarie, mentre i mezzi di frontex si ritiravano a nord del 34 parallelo, allontanandosi dalla costa di oltre 80 miglia, una distanza irrangiungibile dai gommoni che venivano fatti salpare dalle organizzazioni criminali che gestivano il traffico, con una vasta rete di complicità sul territorio libico.
La situazione è mutata drasticamente dopo la stipula di un Protocollo d’intesa tra l’Agenzia Europea EUNAVFOR MED, in collegamento con FRONTEX, e le autorità libiche che controllavano la cd. Guardia Costiera libica, da altri definitta West Coast Guard perché rispondeva al governo di Tripoli sostenuto dall’Unione Europea e dalle Nazioni Unite. Mentre segnali di contrasto rispetto a questo governo venivano dalle autorità di Bengasi e Tobruk, alle quali già dal 2013 i francesi avevano fornito motovedette veloci molto avanzate, e da altre autorità militari che non vedevano positivamente gli accordi stipulati con EUNAVFOR MED.
Ma da mesi ormai lo scenario del Mediterraneo Centrale è radicalmente cambiato. Le navi militari hanno delegato tutti gli interventi di soccorso a quelle delle organizzazioni umanitarie che già operavano attività di ricerca e soccorso (SAR) al largo delle coste libiche, spesso ben al di dentro della zona delle 24 (o delle 12) miglia dalla costa, per soccorrere vite umane che nessun altro mezzo militare libico o straniero avrebbe potuto salvare, ha funzionato fino agli accordi stipulati nei primi giorni di agosto tra EunavforMed e pezzi della Guardia Costiera libica che si collegavano al governo Serraj a Tripoli.
Dopo quella data abbiamo assistito al blocco ed all’occupazione ( per quasi un ora) da parte della sedicente “Guardia Costiera libica”, di una nave umanitaria, la Bourbon Argos di MSF, al alrgo della costa di Zuwara. Sull’”incidente” ammesso anche dai libici e riportato dal Guardian è subito calata la censura internazionale. Come sta avvenendo anche adesso, con il sequestro raccontatoci da Africa-ExPress dei due operatori umanitari di Sea Eye. Persino il responsabile dell’organizzazione umanitaria si è preso una settimana di tempo per rispondere alle domande dei giornalisti.
Una vicenda gravissima, tuttora in corso, che comunque finisca, impone alle autorità europe di riconsiderare il ruolo di Frontex e di Eunavfor Med e di revocare gli accordi stipulati cone le diverse autorità libiche, prima di avere garanzie certe sulle modalità di ricerca e soccorso nella “zona contigua” alle acque territoriali libiche, e soprattutto sulla sorte delle persone che vengono riprese dai libici, magari sotto gli occhi dei mezzi militari europei, e riportati a terra. Dove tutti sanno quali abusi vengano inflitti a chi è trattenuto nei centri di detenzione, come quello di Zawia, solo per fare un esempio.
Al di là della esatta dinamica dei fatti, tutta da accertare, appare evidente che gli accordi stipulati tra le diverse autorità libiche, e singoli governi europei o agenzie dell’Unione Europea, come Eunavfor Med o Frontex, piuttosto che essere finalizzati a coordinare i soccorsi ed a garantire lo sbarco dei migranti in un porto sicuro ( place of safety) secondo le regole del diritto internazionale del mare, mirano esclusivamente a bloccare ad ogni costo il passaggio delle persone in fuga dalla Libia verso l’Europa.
In questo quadro il ruolo delle navi umanitarie diventa sempre meno decifrabile, anche se il loro contributo al salvataggio delle vite umane in mare, dopo il ritiro della missione europea Frontex, risulta essenziale. In alcuni casi infatti risultano assetti di collaborazione con le autorità libiche, come anmesso da MOAS e talvolta dalla Marina italiana, anche se non è mai chiara la sorte dei naufraghi, perché di questo si tratta, che vengono soccorsi e “salvati” dai libici. Le navi umanitarie svolgono oggi un ruolo di supplenza anche politica rispetto alla possibilità di realizzare istituzionali corridoi umanitari; la frammentazione della situazione libica, in cui ad ogni giorno che passa cambiano gli equilibri e che potrebbe da un momento all’altro precipitare ancora più nel baratro con un intensificarsi dell’intervento militare occidentale, (dall’Italia dovrebbero presto partire 200 paracadutisti), porta l’Unione Europea a porsi in una condizione di attesa. Nel frattempo la politica UE intensificherà i rimpatri, l’esternalizzazione delle frontiere ben al di sotto dei paesi delle coste meridionali del Mediterraneo costringendo chi arriva ad un orrendo gioco dell’oca. Si arriva in salvo grazie alle Ong, si finisce in hotspot e centri di malaccoglienza, in gran parte si viene considerati non degni di protezione o asilo, si viene rispediti dal luogo di partenza o di transito.
Diventa fondamentale ora rompere il silenzio che circonda questi rapporti di diritto internazionale sui quali si gioca la vita di migliaia di persone su quella che rimane la rotta migratoria più pericolosa del mondo.
Un silenzio imposto dalle gerarachie militari, che cercano in ogni modo di nascondere i propri fallimenti, anche quando si continuano a contare le vittime delle politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera e di accordi con i paesi terzi, per fermare i migranti, anche quando questi paesi non rispettano i diritti umani ed il diritto internazionale del mare universalmente riconosciuto. Affidare ai libici il “lavoro sporco” di riprendere i migranti che partono dalle coste di Zawia, di Zuwara o di Sabratha,, fornendo mezzi, personale e formazione, come sta facendo l’Unione Europea con le sue agenzie, non è meno grave della politica e delle prassi di respingimento collettivo, condannate dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel 2012, nel caso Hirsi. Una giurisprudenza che oggi dà fastidio e che qualcuno vorrebbe superare, estendendo alla Libia, o alle autorità che in Libia vengono di volta in volta accreditate, gli accordi stipulati il 18 marzo scorso tra Unione Europea e Turchia. Purtroppo anche il governo italiano spinge in questa direzione, segnata dalla Commissaria Europea Mogherini. Una direzione che nega i diritti umani, a partire dal diritto alla vita.