di Fulvio Vassallo Paleologo
I più recenti rapporti delle Nazioni Unite a settembre dello scorso anno, e dell’UNSMIL di pochi giorni fa, sulla situazione dei diritti umani nei campi di detenzione e nelle prigioni libiche, seguiti ad altri rapporti di MSF, di Amnesty International e di Human Rights Watch, confermano come la situazione dei luoghi di internamento dei migranti e nelle prigioni sia in progressivo peggioramento, come aumenta la frequenza degli scontri armati attorno ai centri di detenzione. Chiunque oggi venga riportato in Libia è esposto al pericolo di vita o di subire trattamenti inumani o degradanti, se non vere e proprie torture.
Dal Rapporto delle Nazioni Unite del settembre dello scorso anno si ricava la compromissione di talune guardie costiere, come quella della città di Zawia, con i trafficanti di esseri umani, ed al tempo stesso con gli stessi trafficanti che operano nel contrabbando di petrolio. Una materia che dovrebbe essere ben nota alla Procura di Catania che da mesi ha aperto una indagine a tale proposito ed ha eseguito anche diversi arresti.
“Armed groups and criminal networks continue to exploit different sources of financing, such as the smuggling of migrants and fuel. The Panel has identified networks along the western coastline, which are active in both.”
“Annex 30
Human rights violations against migrants in Zawiya
1.
Abd al-Rahman Milad (alias al-Bija) is the head of the Zawiya branch of the coast guard. He obtained this position thanks to the support of Mohammad Koshlaf and Walid Koshlaf. Both had leverage over the coast guard hierarchy, according to internal sources in the coast guard.
2.
Fathi al-Far, a former army colonel, is the head of al-Nasr detention centre. The centre is under the de facto control of al-Nas r Brigade of Mohammad Koshlaf. The Panel collected testimonies of the inhumane detention conditions at al-Nasr, which is not suitably equipped to hold migrants. Women and children live in critical conditions.
3.
In addition, many migrants are frequently beaten, while others, notably women from sub-Saharan countries and Morocco, were sold on the local market as ‘sex slaves’.
4.
Tareq al-Hengari is also a member of the coast guard. He shot at migrants’ boats at sea, causing the death of an unknown number of migrants, in an attempt to undermine the smuggling business of Koshlaf’s competitors”.
La definizione di Guardia costiera libica appare destituita di fondamento perché in realtà ciascuna citta’ (Zuwara, Tripoli, Zawia, Sabratha, Gharian, Khoms, è controllata da milizie diverse che a loro volta dispongono di unità navali che vengono denominate “Guardia costiera libica”, pur senza corrispondere ad un Comando centrale unificato. Sono quelle unità che si dirigono verso le acque internazionali e che, a seconda dei rapporti con le milizie che gestiscono il traffico, lasciano passare, oppure bloccano le imbarcazioni cariche di migranti che sono riuscite a raggiungere le acque internazionali, in diversi casi, ormai documentati anche in sede giudiziaria, sotto il “sostanziale” coordinamento della Marina militare italiana. Sono due anni che l‘Unione Europea e l’Italia tentano di costruire un Comando centrale di coordinamento a Tripoli, ma si è ancora allo stato dei progetti e dei comunicati stampa. Intanto nessuno si preoccupa davvero delle condizioni terribili in cui versano i migranti intrappolati nei centri di detenzione libici dopo essere stati “soccorsi”, piuttosto intercettati ,su indicazione delle autorità europee ed italiane, in acque internazionali.
Secondo il Rapporto ONU dello scorso anno,
“According to Libya’s Department of Combatting Illegal Migration (DCIM) 19,900 people were being held in facilities under its control in early November, up from about 7,000 in mid-September when authorities detained thousands of migrants following armed clashes in Sabratha, a smuggling and trafficking hub, about 80 kilometres west of Tripoli.
The EU and Italy are providing assistance to the Libyan Coast Guard to intercept migrant boats in the Mediterranean, including in international waters, despite concerns raised by human rights groups that this would condemn more migrants to arbitrary and indefinite detention and expose them to torture, rape, forced labour, exploitation and extortion. Those detained have no possibility to challenge the legality of their detention, and no access to legal aid.”
La Guardia costiera di Tripoli, che corrisponde alle milizie che sostengono il Presidente del Governo di riconciliazione nazionale (GNA), è stata rinforzata dalle motovedette donate o revisionate dall’Italia, che fanno base nel porto militare di Abu Sittah a Tripoli, dove operano in stretto coordinamento con i comandi della missione italiana NAURAS, presente prima con la nave Capri ed adesso con la nave Capraia della Marina militare. Un coordinamento che, dopo essere emerso in diverse indagini portate avanti dalla Magistratura, nessuno potrà più negare. Un coordinamento che doveva essere tenuto nascosto, senza scomodi testimoni, e per questa ragione si dovevano allontanare le ONG dalla rotta del Mediterraneo centrale.
Non esiste dunque una zona SAR “libica”, soprattutto dopo che il governo di Tripoli ha ritirato la dichiarazione unilaterale di sei mesi prima con la quale si attribuiva una sua zona SAR che interpretava come se si trattasse di acque territoriali.
On 10th December, Libya has provisionally withdrawn the application to determine the search and rescue region. This followed an implication from the IMO in December that without a rescue coordination centre, the requirements for international registration of the SAR zone were not met.
Nothing is known about the reasons of the withdrawal. Probably Libya would not have met the relevant conditions, and the request would thus have been declined. According to the IMO principles, any SAR zone needs a Maritime Rescue Coordination Center (MRCC) which must operate 24/7, its staff shall speak English and should be provided with relevant communication means and ambulance vehicles. This is why all rescue missions in high seas are still coordinated by the Italian MRCC in Rome.
Le persone sbarcate dalla Guardia costiera “libica” a Tripoli, dopo essere state intercettate in acque internazionali, ormai si calcola più di 20.000 esseri umani in un anno, vengono generalmente internate nel centro di Tajoura, e quindi dopo pochi giorni, secondo le testimonianze raccolte da diversi giornalisti, trasferiti verso altri centri di detenzione governativi. Su questa struttura ci sono denunce note da tempo. Da Tajoura si viene poi trasferiti in altri centri di detenzione, nei quali le visite dell’UNHCR e dell’OIM sono sempre sporadiche. Tutti i migranti internati in questi centri di (seconda) detenzione soffrono di gravi condizioni di denutrizione e di privazione delle cure mediche che possono portare alla morte, come si è verificato nel caso di Sagen, sbarcato a Pozzallo dalla Open Arms,e poi morto per gli stenti subiti in Libia, pochi giorni prima che la nave venisse sequestrata per ordine della Procura di Catania.
Risulta però che gli abusi ai danni dei migranti si verifichino anche all’interno di queste strutture, come in modo ancora più grave nei centri di detenzione non governativi, direttamente in mano alle milizie, e poi ancora come siano sistematicamente oggetto di violenze i migranti che riescono ad uscire dai centri di detenzione, corrompendo qualche agente o qualche miliziano, ma poi si ritrovano a lavorare di fatto come schiavi alle dipendenze dei libici o sono raccolti in quelle che si definiscono “Connecting House” in attesa di un ulteriore tentativo di fuga attraverso il Mediterraneo.
Dal più recente rapporto di UNSMIL aggiornato a gennaio del 2018, emerge anche come il governo Serraj non controlli che una minima parte del territorio libico. E’ dunque destituita di fondamento la denominazione di “Libia” come uno stato unitario, ricorrente nella comunicazione giornalistica e purtroppo anche nei più recenti provvedimenti giudiziari che hanno avuto ad oggetto mezzi e operatori umanitari dediti ad attività di ricerca e soccorso (SAR) nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Nessuna valutazione dei rischi che corrono le persone allo sbarco, dopo essere state intercettate in alto mare dalla sedicente Guardia costiera “libica” può basarsi su una visione unitaria dello stato “libico”, senza considerare le diverse entità territoriali tra loro in conflitto. La stessa valutazione del regime delle acque “territoriali” libiche appare dubbia, se pensiamo alla mancanza di un territorio unitario “libico” riconducibile ad una unica entità politica e militare.E se occorre salvare vite umane, in assenza di mezzi dello stato costiero, il diritto internazionale permette l’ingresso nelle acque territoriali per attività SAR ( ricerca e soccorso). La priorità assoluta di queste attività è la salvaguardia della vita umana in mare, non certo la riduzione degli sbarchi in un paese europeo.
Dall’ultimo rapporto UNSMIL emerge anche come le violazioni dei diritti umani nelle prigioni libiche, riguardi anche cittadini di quel paese, che si è ormai dissolto in una miriade di entità locali, spesso città, controllate da milizie e bande che alternativamente vestono i panni di militari o di banditi, quando non svolgono contemporaneamente le funzioni di controllo e di taglieggiamento dei migranti comunque costretti a percorrere il corridoio libico verso il Mediterraneo. Sono le stesse forze che direttamente o indirettamente sono state foraggiate dall’Unione Europea e dall’Italia per rallentare le partenze dei migranti.
Queste circostanze, enormemente aggravate dopo la stipula degli accordi tra Italia e Libia nel febbraio dello scorso anno, e dopo gli accordi con i sindaci, conclusi dal governo italiano per “pacificare” la Libia ed arrestare il passaggio di migliaia e migliaia di migranti provenienti dai paesi confinanti, hanno prodotto una crescita significativa di arrivi di cittadini libici, costretti a fuggire dal loro paese per le condizioni di generale insicurezza e di grave pericolo per la vita e l’integrità fisica nelle quali versano.
Non basterà ancora per molto tempo censurare il flusso di notizie che stanno arrivando per confermare gli abusi perpetrati sui migranti intercettati in acque internazionali dalla Guardia Costiera “libica”, e se ne sta occupando anche la Corte penale internazionale. Mentre in Italia le procure continuano ad indagare sui soccorritori. Non sembra che i corsi di formazione impartiti da italiani e agenti europei a bordo delle navi della missione Sophia, e da ultimo su assetti della Marina militare italiana, con il coordinamento satellitare SEAHORSE siano serviti ad implementare nei libici una pratica rispettosa dei diritti umani delle persone fermate in mare.
Di fronte a tale situazione, che appare evidente a chi soltanto voglia considerare le condizioni fisiche delle persone che vengono sbarcate nei porti italiani, e le torture che portano impresse tanti, nel corpo e nella propria anima, non si può attribuire maggiore valenza ad un Codice di Condotta in violazione del divieto di respingimento ( refoulement),sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, e degli articoli 1 (Diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) e 13 ( Diritto di difesa), affermati dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Nessun Codice di Condotta, peraltro privo di base legale, in quanto frutto di un accordo tra le parti, può consentire una violazione dei diritti fondamentali della persona. Se tali violazioni sono frutto di un ordine (illegittimo) dell’autorità appare legittimo disobbedire e dare priorità alla vita ed all’integrità fisica delle persone soccorse. Il Codice di condotta siglato da alcune ONG nell’agosto dello scorso anno NON assegna alle autorità libiche poteri di intervento in acque internazionali, ma ribadisce soltanto la loro competenza SAR nelle acque territoriali. Il diritto alla vita non può essere intaccato da ordini di stand by impartiti alle navi umanitarie con una catena di comando che ritarda i soccorsi in attesa dell’arrivo delle motovedette libiche.
E’ a tutto noto peraltro, che la Libia non ha una zona SAR internazionalmente riconosciuta e che lo scorso dicembre ha ritirato la richiesta già avanzata all’IMO pochi mesi prima per la totale mancanza dei requisiti tecnici richiesti da questa istituzione delle Nazioni Unite e per l’assenza di una unica centrale di coordinamento dei soccorsi (MRCC), che peraltro manca ancora oggi. Tutti dati che si ricavano dall’ultimo rapporto di attività pubblicato nel 2017 dalla Guardia costiera italiana. Anche quest’anno sono già centinaia le vittime in mare che vengono immediatamente rimosse dalla narrazione collettiva, colpita invece a raffica dagli allarmi più inconsistenti sull’arrivo di presunti terroristi.
Il “sostanziale” coordinamento affidato alla Marina italiana, nel quadro dell’operazione NAURAS, con base a Tripoli, delle operazioni di intercettazione in acque internazionali, affidate ad autorità libiche, per quanto emerge dalle indagini della magistratura, quando sarà possibile visionare tracciati e comunicazioni radio, incrociando i dati al di là delle ricostruzioni di parte, potrebbe poi configurare una ennesima violazione del divieto di respingimenti collettivi, per l’evidente aggiramento della sentenza Hirsi Jamaa e altri contro Italia, nella quale già nel 2012 si condannava il nostro paese per la violazione di tale divieto.
In questi giorni ancora il Ministro Minniti agita i dati della riduzione del 70 per centro ed oltre degli sbarchi rispetto allo scorso anno. Dai rapporti delle Nazioni Unite sulla Libia emergono elementi dei quali non si potrà non tenere conto in sede giudiziaria, e che comunque dimostrano il costo umano delle politiche di esternalizzazione e di cooperazione con i paesi terzi, che sono la cifra comune delle politiche italiane ed europee in materia di immigrazione ( Processo di Khartoum e Migration Compact). Le forze che sono uscite vincenti dalle elezioni, la Lega in particolare, ripropongono intanto i loro metodi scorretti nella guerra che hanno dichiarato alle organizzazioni non governative ed ai cittadini solidali.
Sembra che la reiterata collaborazione con paesi che non rispettano i diritti umani e che neanche riescono a garantire tali diritti ai propri cittadini, abbia consolidato nell’opinione pubblica ed in taluni operatori della giustizia la convinzione che il rispetto delle regole dello stato di diritto ( rule of law) sia una variabile dipendente rispetto alla finalità di dissuadere le partenze dal continente africano, e dalla Libia in particolare, verso il nostro paese. Una visione che nega alle fondamenta il diritto di asilo, riducendolo ad una mera concessione discrezionale per pochi “vulnerabili”, e di certo sta comportando una grave involuzione democratica che presto potrebbe colpire anche i cittadini italiani ed europei “colpevoli” di solidarietà.