Politica dei procuratori, soccorsi in mare e diritto internazionale

di Fulvio Vassallo Paleologo

La recente convalida, da parte del Giudice delle Indagini preliminari (GIP) di Catania, del sequestro della nave della ONG Proactiva Open Arms, battente bandiera spagnola, ha aperto interessanti squarci sulla effettiva attuazione del Protocollo di intesa tra Italia e governo di Tripoli sottoscritto il 2 febbraio 2017, e sul rispetto dei doveri di ricerca e soccorso previsti da diverse Convenzioni internazionali ( Convenzione di Amburgo per le operazioni SAR del 1979, Convenzione dell’ONU (UNCLOS) di Diritto del mare del 1982, e Convenzione SOLAS del 1974), oltre che sull’attuale portata del principio di non respingimento affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. In caso di violazioni di queste Convenzioni è possibile adire anche i Tribunali internazionali come la Corte penale internazionale, che sta già indagando sulla Guardia costiera libica, ed il Tribunale internazionale del mare di Amburgo. E se si riscontrasse la violazione di diritti garantiti dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo esiste anche la possibilità di ricorso, se occorre in via di urgenza ( art.39) davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Nel caso di violazioni accertate da parte di operatori dell’Unione Europea o di agenzie come Frontex, adesso impegnata nella nuova operazione Themis, si potrebbe profilare un ricorso incidentale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, o una denuncia all’Ombudsmann europeo ( Garante dei diritti fondamentali). In ogni caso tutti i mezzi impegnati nelle Operazioni Frontex, dunque anche in Themis, sono tenuti al rigoroso rispetto degli obblighi di soccorso in mare affermati dal Regolamento UE n.656 del 2014.

Il provvedimento di convalida del sequestro della nave di Proactiva emessso dal Gip di Catania prende atto delle modalità irrituali con le quali erano stati sentiti, come testimoni in assenza di un difensore, il comandante della nave ed il capo missione, che immediatamente dopo sarebbero stati indicati come imputati dei reati di associazione a delinquere e di agevolazione dell’ingresso di clandestini in territorio italiano. Lo stesso provvedimento esclude la sussistenza del reato di associazione per delinquere, finalizzata al compimento di delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per la mancanza di “serietà degli indizi” addotti dalla Procura di Catania. Che ha cercato fino all’ultimo di integrare un quadro accusatorio sotto questo profilo inesistente, e che certamente continuerà ad indagare in questa direzione.

Il Gip ha invece convalidato il sequestro, pur dichiarando l’incompetenza della Procura di Catania, caduta l’ipotesi del reato associativo, ritenendo seri gli indizi addotti dalla stessa Procura in ordine al reato di agevolazione dell’ingresso di clandestini ( art. 12 T.U. n. .286 del 1998). La sequenza temporale degli avvenimenti, ricostruita dal Gip anche sulla base di una memoria aggiuntiva, depositata dalla Procura pochi giorni prima della decisione di convalida del sequestro, evidenzia come  già nelle prime ore del mattino del 15 marzo 2017 (ore 5,37) ” il personale a bordo della nave militare italiana Capri ( Operazione NAURAS), di stanza a Tripoli, comunicava a Roma che una motovedetta della Guardia Costiera Libica di lì a poco avrebbe mollato gli ormeggi per dirigersi verso l’obiettivo, e specificava che la detta Guardia costiera avrebbe assunto la responsabilità del soccorso”. Eppure già alle ore 4,35 la Centrale operativa della Guardia Costiera di Roma (IMRCC) aveva assunto la responsabilità dell’evento SAR contattando la Open Arms e informando contestualmente la Guardia costiera “libica”. Secondo la ricostruzione del GIP, “alle ore 4,50, sempre la Centrale operativa di Roma comunicava la posizione del gommone con a bordo i migranti alla Open Arms, richiedendo a questa di dirigere sul posto per valutare la situazione”. Fino a quell’ora dunque i movimenti della Open Arms erano coordinati dalla Centrale operativa di Roma (IMRCC), quindi la nave spagnola non si recava certo ad un “appuntamento” con le imbarcazioni da soccorrere, come invece asseriscono fonti giornalistiche da tempo note per le calunnie che rivolgono alle ONG seguite, purtroppo, da alcune deduzioni, prive di alcun riscontro fattuale, presenti nel provvedimento di sequestro ed in pregresse dichiarazioni della Procura di Catania.

I fatti successivi accertati dal Giudice delle indagini preliminari sulla base della documentazione prodotta dalla Procura sono ormai noti, e confermati da un ampia documentazione cartacea e video. Appare evidente che la nave di Open Arms fosse stata fin dall’inizio  (ore 4,35) coinvolta in un primo evento SAR dalla Centrale operativa italiana, che solo alle 6.49 comunicava alla stessa nave “che la Guardia Costiera Libica aveva assunto il coordinamento del primo salvataggio, e che era stato richiesto espressamente che la ONG rimanesse fuori dalla portata ottica dei migranti”. Alle 7,20 un elicottero della nave italiana Alpino pure presente in zona ( a che titolo?) comunicava di avere avvistato un altro gommone “in buono stato di galleggiabilità, in condizioni meteo molto buone, e con tutti i migranti dotati di giubbotto salvagente”, insomma tale da non richiedere un intervento urgente, come se le persone non si trovassero comunque in pericolo di vita per il sovraffollamento del mezzo e la distanza dalla costa. Perchè non è intervenuta subito, come in passato, una nave della Marina militare italiana ? Perchè non è stata fatta intervenire subito la nave della ONG con i suoi mezzi di socorso veloce che era presente sulla scena SAR ore porima che arrivassero i libici ? Lo stesso elicottero comunicava successivamente l’avvistamento di un terzo gommone, con circa 100 persone a bordo, anche questo dunque in imminente pericolo di affondare per il sovraffollamento ( criterio adottato dalle Convenzioni internazionali e dal Regolamento Frontex 656 del 2014). Anche in questo caso nessun intervento della nave militare italiana dalla quale era partito l’elicottero. Era tanto lontana da rendere impossibile l’intervento?

Mentre per il secondo gommone avvistato la Guardia costiera libica, evidentemente informata dalla Marina militare italiana, avvertiva che avrebbe provveduto al soccorso, per il terzo gommone avvistato dal medesimo elicottero italiano, alle ore 8,22, la Centrale Operativa comunicava alla Open Arms la richiesta di dirigersi verso quest’ultimo target, in relazione al quale “la Marina Libica non aveva ancora assunto la responsabilità del salvataggio”. Anche in questo caso dunque la Open Arms si spostava non per sua iniziativa , ma a seguito di un ordine ricevuto dalla Centrale Operativa di Roma.

Pochi minuti dopo, secondo la ricostruzione del GIP di Catania,  ” alle ore 8,30 la Guardia Costiera Libica, però, comunicava l’assunzione di responsabilità del coordinamento del soccorso anche in relazione all’evento n.166 ( il terzo gommone avvistato), con la solita specifica indicazione per tutte le altre navi di stare fuori dal quadrante operativo ( in relazione al detto evento si stava dirigendo sul luogo di avvistamento anche la motonave Lamar)”. In sostanza, ancora una volta, dopo che IMRCC di Roma aveva dichiarato un evento SAR, ordinando l’intervento di Open Arms, probabilmente per decisioni maturate in coordinamento tra la Marina militare italiana a Tripoli e la Guardia costiera italiana, la responsabilità dell’operazione SAR veniva trasferita ai libici. Anche se a quell’ora la imbarcazione più vicina ai gommoni in difficolta, come i successivi eventi dimostreranno, era proprio la nave Open Arms con i suoi battelli veloci di soccorso.

A quattro ore di distanza dall’avvio delle operazioni SAR coordinate inizialmente dalla Centrale Operativa di Roma, alle 8.56 per esattezza, ” l’addetto per la Difesa Italia a Tripoli contattava la Centrale Operativa IMRCC di Roma, lamentando il comportamento della Open Arms, in quanto lo riteneva contrario al Codice di Condotta sottoscritto con il Ministero dell’interno”. Nelle stesse ore infatti la Open Arms, trovandosi a ridosso di due gommoni in evidente procinto di affondare, procedeva comunque ai soccorsi ed ai trasbordi delle persone, in assenza di imbarcazioni libiche sulla scena, mentre un terzo gommone veniva rinvenuto vuoto perché probabilmente i libici lo avevano intercettato prima ed avevano potuto imbarcare le persone per riportarle in un centro di detenzione in Libia. Alle 9,13 la Open Arms comunicava a IMRCC di Roma che, in assenza di imbarcazioni libiche, stava procedendo al soccorso di un gommone in procinto di affondare. Alle ore 11 il soccorso del primo gommone era concluso, senza che si comparissero sulla scena unità libiche che pure avevano assunto, secondo quanto sostenuto dal Comando IMRCC, la responsabilità dell’evento.

Alla stessa ora Open Arms rilevava la presenza in mare di un altro gommone carico di migranti, e la Centrale Operativa di Roma comunicava, trattandosi dello stesso gommone per cui aveva assunto inizialmente la responsabilità SAR ( evento 166), che poco dopo la responsabilità SAR sarebbe stata assunta dalla guardia Costiera libica e che dunque la Open Arms si sarebbe dovuta allontanare dalla scena del soccorso, al limite di non rendersi visibile ai migranti. Come era stato richiesto dai libici che però a quel momento non erano ancora arrivati, mentre il gommone imbarcava acqua tanto che le donne ed i bambini venivano soccorsi e caricati a bordo dei natanti di servizio battenti bandiera spagnola di Open Arms. Di fatto, con questo comando di allontanarsi dalla scena SAR la Centrale Operativa di Roma ordinava una vera e propria “omissione di soccorso” a causa delle precarie e notorie condizioni di galleggiabilità di un gommone tanto carico ed a tale distanza dalla costa. Se la Open Arms si fosse allontanata, come richiesto dalla Guardia costiera libica, ed imposto dal comando IMRCC, avrebbe messo a rischio la vita di decine di persone, ed è provato che sulla base di precedenti esperienze, come la strage dell’11 ottobre 2013 a sud di Malta, un ritardo anche di poche ore può avere conseguenze mortali ed essere fonte di gravi responsabilità penali per quelle autorità politiche o militari che lo avessero determinato.

Soltanto dopo che donne e bambini dell’ultimo gommone soccorso venivano imbarcati a bordo delle imbarcazioni ausiliarie di Open Arms, attorno alle ore 12 arrivava una motovedetta libica che, anche con l’abbordaggio di uno dei gommoni spagnoli, intimava la consegna dei naufraghi già soccorsi e l’immediato allontanamento, con gravi minacce verbali e ostentazione delle armi. Una situazione di fronteggiamento e di gravissima tensione che si protraeva per circa due ore. I video documentano l’accaduto e sono chiaramente percepibili le minacce provenienti dall’unità tripolina. Alla fine la motovedetta libica si allontanava e permetteva che la Open Arms concludesse l’attività di soccorso.

Nessuna “battaglia navale” dunque, anche perché le armi brandite minacciosamente dai militari erano soltanto a bordo della motovedetta partita da Tripoli, ma un grave intervento dei libici che ha rallentato le attività di soccorso di Open Arms, con l’avallo delle autorità italiane, ed avrebbe potuto avere conseguenze tragiche se il gommone fosse affondato o si fosse capovolto nel frattempo. Ricordiamo che per questo evento SAR, contrassegnato agli atti come n.166 già alle ore 8,22 del 15 marzo la Centrale operativa della Guardia Costiera italiana ordinava ala nave Open Arms di dirigersi verso la posizione segnalata del gommone. Salvo poi a cedere, dopo appena 22 minuti, alle 8,44, alle autorità libiche il coordinamento dell’operazione di soccorso. Passavano altre ore prima che la motovedetta tripolina raggiungesse il gommone in difficoltà. Il ritardo evidente dell’intervento delle autorità libiche, realizzatosi quando era già in corso l’attività di trasbordo sulla Open Arms fa comprendere il rischio che si sarebbe corso se la Open Arms, a quella stessa ora, dunque alle 8,44 si fosse allontanata dalla zona dell’evento SAR n.166.

Le autorità italiane, da Tripoli e da Roma, si comportavano come se una zona SAR libica fosse già stata istituita. Non mantenevano in altri termini il coordinamento delle attività SAR pur ricorrendo alle unità di Tripoli, ma trasferivano a queste l’intera responsabilità per le operazioni SAR in una vasto tratto di mare ubicato in acque internazionali. Anche con riferimento all’evento di soccorso realizzato in precedenza alle ore 9,13, relativamente ad un gommone in procinto di affondare ed in assenza di imbarcazioni libiche sulla scena, il Comando di Roma chiedeva di avvertire la Guardia costiera libica, e di restare inattivi, in attesa dell’arrivo delle imbarcazioni da Tripoli. Tutto questo veniva imposto in base al Codice di Condotta Minniti, trascurando però l’imperativo categorico di soccorrere i naufraghi in pericolo nel più breve tempo possibile, dettato dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare. Ancora una volta imponendo un ordine di stand by, che poteva provocare altre morti, come già verificato in precedenti occasioni di ritardo negli interventi di soccorso per la ritardata assegnazione della responsabilità di coordinamento delle attività SAR. Sono già numerosi i casi in cui, dopo l’entrata in vigore del Codice di condotta Minniti, il Comando di Roma IMRCC ha ordinato lo stand by a navi umanitarie giunte  prima dell’arrivo delle motovedette libiche, con conseguenze anche gravi per la vita e l’incolumità fisica delle persone. In passato però il coordinamento delle operazioni SAR in acque internazionali era sempre rimasto alle autorità italiane.

La “situazione di grave pericolo” addotta dal GIP di Catania in ordine all’evento 166, come se fosse stata prodotta dalla Open Arms,  si determinava per l’intervento minaccioso della motovedetta libica, come peraltro già avvenuto in precedenti occasioni, ad esempio il 6 novembre del 2017, e non certo per il tempestivo intervento di soccorso della nave umanitaria spagnola che ha sempre operato nel pieno rispetto del diritto internazionale del mare. Appare inoltre pretestuosa la imposizione da parte dei libici, avallata dalle autorità italiane, di allontanamento immediato in caso di intervento di unità militari tripoline in acque internazionali, che ancora una volta potrebbe configurare per le autorità militari che la dispongono, il reato di omissione di soccorso, ed altri più gravi in caso di annegamento di persone in mare. La zona SAR, ammesso e non ammesso che una zona SAR libica esista, non può essere confusa con la zona delle acque territoriali (limitata alle 12 miglia dalla costa) entro la quale un paese costiero può limitare,a precise condizioni, il transito “inoffensivo” delle navi straniere. E se un mezzo è già impegnato in attività di salvataggio non può essere ipartito nessun ordine di allontanamento. Un ordine che potrebbe costare la vita dei naufraghi da soccorrere.

Quanto adesso rappresentato, ricostruito in base alle cadenze temporali indicate nella convalida del sequestro dal GIP di Catania sulla base della documentazione prodotta, e poi integrata, da parte della Procura, permette di richiamare gli obblighi di ricerca e soccorso previsti dalle Convenzioni internazionali,  di escludere qualsiasi responsabilità degli operatori umanitari della Open Arms, con riferimento al luogo di sbarco, ed all’ingresso in territorio italiano, sulla base di una specifica autorizzazione concessa in ultimo proprio dalle competenti autorità italiane. La mancata ottemperanza dell’intimazione di consegnare ai libici i naufraghi che erano stati già raggiunti e soccorsi in acque internazionali corrisponde ad un comportamento legittimo che era imposto dalle norme del diritto internazionale. Se gli spagnoli avessero consegnato le donne ed i bambini che erano già a bordo dei loro mezzi di soccorso si sarebbe realizzato in modo plateale un respingimento collettivo per ordine delle autorità italiane. Il concetto di “place of safety” come luogo di sbarco assunto nel provvedimento del Giudice delle indagini preliminari di Catania mantiene una connotazione tanto generica da sfumare completamente, in contrasto con la rigorosa indicazione dei requisiti del place of safety” nelle Convenzioni internazionali.

The government responsible for the SAR region in which survivors were recovered is responsible for providing a place of safety or ensuring that such a place of safety is provided.(para. 2.5).
A place of safety is a location where rescue operations are considered to terminate, and where: the survivors’ safety or life is no longer threatened; basic human needs (such as food, shelter and medical needs) can be met; and transportation arrangements can be made for the survivors’ next or final destination. (para. 6.12)

Né sembra proprio possibile, in base ai filmati disponibili in rete, escludere, come ha fatto il giudice di Catania, che i migranti  ” versassero in imminente pericolo di vita, poichè sul posto era presente un altro natante, pronto a soccorrerli in mare”. Innanzitutto l’assunto che i libici fossero arrivati prima dell’avvio delle operazioni di soccorso da parte dei mezzi di appoggio di Open Arms è smentito dai video. Semmai è vero il contrario, che nell’ultimo evento di soccorso ( quello contrassegnato agli atti come il n.166) i libici sono intervenuti sula scena SAR quando già decine di donne e bambini si trovavano a bordo dei mezzi ausiliari di Open Arms. In ogni caso il pericolo di vita a bordo di un gommone sovraccarico in alto mare, secondo le convenzioni internazionali, non è escluso dal grado di galleggiabilità, o dalla sua attitudine alla navigazione autonoma, ma deve presumersi “in re ipsa”. Sempre. Nella più recente prassi internazionale, e secondo le prescrizioni delle Convenzioni internazionali, si devono considerar in una situazione oggettiva di pericolo le imbarcazioni cariche di migranti in alto mare, anche se fossero ancora in movimento,per il solo fatto di essere sovraccariche o prive di un equipaggio professionista a bordo. La tragedia dell’11 ottobre del 2013, a sud di Malta, fu determinata proprio da una diversa valutazione della condizione di pericolo da parte delle autorità maltesi ed italiane.

Se poi si pensa a quello che sarebbe successo alle persone ove fossero state consegnate dagli spagnoli ai libici e se di ricordano le condizioni tragiche nelle quali sono arrivati gli ultimi migranti soccorsi da Open Arms, non vi dovrebbe essere spazio per valutazioni di natura penale. Nessun Codice di condotta può permettere di violare impunemente il divieto assoluto di trattamenti inumani o degradanti affermato dall’art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, o il divieto di respingimenti collettivo, affermato oltre che dalla CEDU, anche dall’art. 18 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea. Una votazione di una istituzione politica non in sede legislativa sul Codice di condotta Minniti, come quella richiamata dal GIP di Catania, in ordine al documento conclusivo dell’indagine conoscitiva elaborata dalla Commissione Difesa del Senato nel maggio del 2017, presieduta dal senatore La Torre, non può dotare di valenza normativa un codice di condotta che rimane soltanto un codice vincolante le parti che lo hanno sottoscritto, e che neppure prevede le violazioni contestate oggi alla Open Arms, non conferendo particolari poteri alle autorità libiche in acque internazionali.

Il Codice di condotta Minniti sottoscritto anche da Open Arms, prevede infatti che “conformemente al diritto internazionale pertinente, l’impegno a non entrare nelle acque territoriali libiche, salvo in situazioni di grave e imminente pericolo che richiedano assistenza immediata,e di non ostacolare l’attività di Search and Rescue (SAR) da parte della Guardia costiera libica: al fine di non ostacolare la possibilità di intervento da parte delle Autorità nazionali competenti nelle proprie acque territoriali, nel rispetto degli obblighi internazionali.

Il Codice di condotta NON impone quindi alcun obbligo di adempiere agli ordini di autorità libiche in acque internazionali, a maggior ragione se gli eventi SAR sono stati dichiarati e coordinati inizialmente da comandi italiani come IMRCC di Roma, e riconosce la superiore valenza normativa degli obblighi di ricerca e  soccorso, e degli altri doveri, come il principio di non respingimento, o il divieto di respingimenti collettivi, derivanti da Convenzioni internazionali, che nei provvedimenti della Procura di Catania sono totalmente ignorati.

E’ un affermazione da programma politico quella contenuta nella convalida del sequestro, secondo cui “non può essere consentito alle stesse (ONG)  di creare autonomi corridoi umanitari al di fuori del controllo statuale ed internazionale, forieri di situazioni critiche all’interno dei singoli paesi sotto il profilo dell’ordine pubblico e della sicurezza.” Una affermazione che contrasta in modo stridente con la impostazione strettamente improntata al principio di legalità, propria del provvedimento del GIP di Catania ( nullum crimen, nulla poena sine lege). Si registra oggi un attacco generalizzato verso le poche ONG che sono rimaste a mare per soccorrere migranti nelle acque internazionali a nord della costa libica, come se le poche migliaia di persone salvate da un destino terribile, in mare o nei centri di detenzione in Libia, potessero costituire un pericolo o una invasione per gli stati dell’Unione Europea.

Gli altri argomenti dell’accusa sono comunque destinati a cadere se si chiarisce la questione della competenza italiana nelle attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali in assenza di una zona SAR libica. Ed anche quando esiste una zona SAR come nel caso di Malta sono note le questioni ed i conflitti di competenza che segnano da anni i rapporti tra Italia e Malta. E’ notorio infatti come Malta non accetti lo sbarco di persone nel suo territorio, se si tratta di soccorsi al di fuori delle sue acque territoriali, salvo casi di estrema urgenza, al punto che nell’intero 2017 gli sbarchi a Malta sono stati appena un centinaio, e persino le imbarcazioni della ONG maltese MOAS, come quelle di Frontex, evitavano di sbarcare a Malta le persone che soccorrevano in quella che pure è, sulla carta, la vastissima zona SAR maltese. La circostanza che Malta non accetta sbarchi di persone soccorse al di fuori delle proprie acque territoriali ( 12 miglia) non andava dimostrata, costituendo fatto notorio facilmente accertabile che la Procura di Catania avrebbe dovuto ben conoscere, e che sarà comunque dimostrabile dalla Open Arms, che lo scorso anno aveva chiesto una possibilità di sbarco a Malta, ricevendo un netto rifiuto.

I libici non fanno azioni di salvataggio ma di intercettazione, su guida adesso delle autorità italiane e di riconduzione nei centri di detenzione a terra. Dopo lo sbarco, malgrado la presenza di OIM ed UNHCR in alcuni porti di sbarchi e le periodiche visite nei centri di detenzione governativi, la sorte della maggior parte dei migranti è segnata. Questa è la partita reale che si gioca nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Anche l’IMO ( Organizzazione internazionale marittima) ha confermato che, allo stato, NON esiste una zona SAR libica e che, in base alle Convenzioni internazionali, tocca all’autorità che per prima riceve la chiamata o la segnalazione di soccorso, in questi casi l’Italia, deve indirizzare sul luogo dell’evento SAR le imbarcazioni più vicine, in quanto sono quelle che possono meglio provvedere alla salvaguardia della vita umana in mare. Ogni altra considerazione politica o di contrasto dell’immigrazione irregolare deve cedere di fronte all’esigenza di garantire il più tempestivo soccorso a persone in pericolo di vita in alto mare, ormai a decine di miglia di distanza dalla costa. Si ricorda anche che la Libia non ha soddisfatto i requisiti richiesti dall’IMO per gestire una sua zona SAR tanto che a dicembre ha ritirato la sua richiesta, e che dunque le sue imbarcazioni possono essere coinvolte in eventi SAR solo relativamente alle acque territoriali. Non si può affermare che l’Operazione Themis di Frontex abbia modificato questo quadro normativo, anche perchè le modalità operative di Frontex devono rispettare a loro volta il Diritto internazionale del mare ed i Regolamenti europei vincolanti n.656 del 2014 e 1624 del 2016, che affermano la assoluta prevalenza della vita umana in mare, ed il rispetto del principio di non respingimento, rispetto alle esigenze di contrasto dell’immigrazione irregolare, destinazione funzionale primaria per i mezzi impiegati in missioni Frontex.

Considerando 13

L’eventuale esistenza di un accordo tra uno Stato membro e un paese terzo non esime gli Stati membri dai loro obblighi derivanti dal diritto dell’Unione e internazionale, in particolare per quanto riguarda l’osservanza del principio di non respingimento, quando gli stessi Stati sono a conoscenza, o dovrebbero esserlo, del fatto che lacune sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in quel paese terzo equivalgono a sostanziali motivi per ritenere che il richiedente asilo rischi concretamente di subire trattamenti inumani o degradanti, o quando tali Stati sanno o dovrebbero sapere che quel paese terzo mette in atto comportamenti in violazione del principio di non respingimento.

Considerando 14

Durante un’operazione di sorveglianza di frontiera in mare, si può verificare una situazione in cui si rende necessario prestare assistenza alle persone in pericolo. Ai sensi del diritto internazionale, ogni Stato deve esigere che il comandante di un natante battente la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio il natante, l’equipaggio o i passeggeri, presti soccorso senza indugio a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo e proceda quanto più velocemente possibile al soccorso delle persone in pericolo. Tale assistenza dovrebbe essere prestata indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica delle persone da soccorrere o delle circostanze in cui si trovano. Il comandante e l’equipaggio non dovrebbero essere passibili di sanzioni penali per il solo motivo di aver soccorso persone in pericolo in mare e averle portate in un luogo sicuro.

Articolo 4

Protezione dei diritti fondamentali e principio di non respingimento

1.   Nessuno può, in violazione del principio di non respingimento, essere sbarcato, costretto a entrare, condotto o altrimenti consegnato alle autorità di un paese in cui esista, tra l’altro, un rischio grave di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura, alla persecuzione o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, o in cui la vita o la libertà dell’interessato sarebbero minacciate a causa della razza, della religione, della cittadinanza, dell’orientamento sessuale, dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale o delle opinioni politiche dell’interessato stesso, o nel quale sussista un reale rischio di espulsione, rimpatrio o estradizione verso un altro paese in violazione del principio di non respingimento.

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3. Durante un’operazione marittima, prima che le persone intercettate o soccorse siano sbarcate, costrette a entrare, condotte o altrimenti consegnate alle autorità di un paese terzo e tenuto conto della valutazione della situazione generale di tale paese terzo ai sensi del paragrafo 2, le unità partecipanti utilizzano, fatto salvo l’articolo 3, tutti i mezzi per identificare le persone intercettate o soccorse, valutare la loro situazione personale, informarle della loro destinazione in un modo per loro comprensibile o che si possa ragionevolmente supporre sia per loro comprensibile e dar loro l’opportunità di esprimere le eventuali ragioni per cui ritengono che uno sbarco nel luogo proposto violerebbe il principio di non respingimento.

Quando il Giudice delle indagini preliminari di Catania afferma che

-la circostanza che la Libia non abbia definitivamente dichiarato la sua zona SAR non implica automaticamente che le loro navi non possano partecipare ai soccorsi, soprattutto nel momento attuale, in cui il coordinamento è sostanzialmente affidato alle forze della Marina Militare Italiana, con i propri mezzi navali e con quelli forniti ai libici (sulla costituzione della zona SAR da parte della Libia si veda quanto comunicato dal Comando Generale del Corpo delle Capitanerei di Porto Italiane con il rapporto di data 23.03.2018, allegato in atti; dal quale si rileva che la Libia non sembra avere abbandonato il percorso per dichiarare la detta zona SAR, ma solamente di essersi attardata in pastoie burocratiche, al pari altri Paesi, che comunque operano i soccorsi);

non modifica, ma anzi aggrava la responsabilità delle autorità italiane che hanno comunicato alla Open Arms, dopo avere assunto inizialmente il coordinamento degli eventi SAR, il trasferimento della responsabilità alle autorità libiche, e costituisce un ulteriore ragione che conferma la legittimità del comportamento dell’equipaggio della Open Arms che non ha risposto ad una richiesta di abbandono in mare di persone che stavano per essere soccorse ancora sotto “sostanziale” responsabilità italiana. Se “pastoie burocratiche”, come le definisce il giudice catanese, hanno ritardato il riconoscimento della zona SAR libica, questo non significa che il mancato riconoscimento internazionale di tale zona  possa risultare irrilevante ai fini della qualificazione penale dei fatti, ed anzi rileva anche anche dal punto di vista della salvaguardia della vita umana in mare. La esistenza o meno di questa zona, che presupporrebbe una effettiva e riconosciuta capacità di intervento dei mezzi di soccorso dello stato responsabile incide sullo stato dei fatti perchè connota in stato di pericolo grave ed imminente tutte le imbarcazioni, generalmente fatiscenti e sovraccariche, che si trovano a decine di miglia dalla costa in acque internazionali. Nessuna norma penale o di codici di condotta, potrà mai imporre di restare in una condizione di “stand by” mentre una imbarcazione carica di persone è a rischio di affondare in assenza di altri mezzi di soccorso presenti sulla scena. La vita delle persone in mare viene prima delle esigenze degli stati di ridurre gli ingressi, sempre che questo orientamento politico sia attuabile con misure stabilite dall’autorità giudiziaria e produca veramente maggiore sicurezza ed una tutela effettiva dell’ordine pubblico, richiamato dal giudice catanese.

Lo stesso Codice di Condotta Minniti peraltro, quando richiama la potestà esclusiva di intervento dei libici in mare non la può estendere ad una zona SAR libica che ancora non esiste. A luglio dello scorso anno la Libia la proclamava unilateralmente ed avanzava una richiesta all’IMO, una richiesta poi ritirata a dicembre dello scorso anno. Il Codice di condotta Minniti si limita ad affermare tale potestà di intervento nelle acque territoriali ( 12 miglia dalla costa) e non certo nelle acque internazionali.L’operazione Themis di Frontex, avviata il 2 febbraio scorso, non ha attribuito valore di fonte niormativa al Codice Minniti, nè ha modificato le norme cogenti di diritto internazionale del mare. La Procura di Catania ha commesso un errore ritenendo applicabile il Codice di Condotta Minniti, nella parte in cui prevede il primato dell’autorità navale libica in acque internazionali, e non limitatamente alle acque territoriali. Purtroppo sotto questo profilo anche la decisione del GIP ha seguito l’impostazione della Procura ed ha confermato il sequestro della nave di Open Arms. Eppure lo stesso GIP di Catania (che arriva a scrivere di “rimpatrio” in territorio libico), riconosce che il Codice di condotta Minniti “non costituisce un compendio di regole, la cui violazione determina automaticamente l’insorgenza di un reato, e della conseguente sanzione penale”. Anche se poi aggiunge, “però la infrazione di questo autoregolamento rivela il rifiuto di operare all’interno di  precisi precetti prefissati dallo Stato italiano, e solo all’interno dei quali l’ingresso nel Territorio Nazionale non viene più ritenuto clandestino ( le violazioni del Codice di Condotta, quindi, comportano la qualificazione di quei comportamenti che determinano l’ingresso di clandestini in Italia come contrarie al dettato della fattispecie criminosa di cui all’art. 12 del T.U. sull’immigrazione)”. Insomma un Codice di Condotta che ha una diversa valenza a seconda del luogo di sbarco dei naufraghi, anche quando questo avviene per determinazione finale delle autorità italiane ( come è avvenuto nel caso dell’ingresso della Open Arms a Pozzallo autorizzato dalla Centrale Operativa della Guardia costiera nella giornata del 17 marzo scorso).

Se il fatto di reato contestato agli operatori della Open Arms, integrasse gli estremi dell’agevolazione dell’ingresso di clandestini, prevista dall’artt. 12 del Testo Unico n.286 del 1998 si è perfezionato a Pozzallo, come è esplicitamente riconosciuto negli atti della Procura di Catania, non si vede come potrebbe escludersi comunque l’esimente dei motivi umanitari dettata dal secondo comma di questa norma. “Fermo restando quanto previsto dall’articolo 54 del codice penale, non costituiscono reato le attivita’ di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato” .Salvo ad avere una doppia visione del concetto di giurisdizione, affermandosi la giurisdizione penale italiana anche in acque internazionali su nave di bandiera spagnola ( tesi che rimane assai dubbia), ma poi escludendo la operatività di una norma esimente del nostro ordinamento quando questa stessa imbarcazione fa ingresso in un porto italiano. In base al diritto internazionale le attività di soccoso non si esauriscono con l’imbarco dei naufraghi ma cessano con lo sparco in un place of safety vicino.

In ogni caso non si vede come si possa escludere la ricorrenza delle esimenti previste dagli articoli 51 e 54 del Codice penale, dopo che la Open Arms ha operato rispetto a persone in grave pericolo di vita ed è entrata nel porto di Pozzallo, su indicazione espressa delle autorità italiane, che in un primo momento sembravano anzi indicare il porto di Trapani. Tale esclusione contrasta con la dinamica dei fatti per come questi fatti sono stati riconosciuti anche dall’accusa, e con il rispetto del diritto internazionale che impone precisi obblighi di ricerca e soccorso agli stati ed ai soggetti privati. Tutti hanno visto le condizioni dei migranti scesi a terra dalla Open Arms negli ultimi sbarchi a Pozzallo, nessuno potrà dimenticare le condizioni e poi la morte per gli stenti subiti in Libia del giovane eritreo Sagen sbarcato a Pozzallo da questa nave pochi giorni prima del sequestro della nave. Ancora in questi giorni quanti giovani come Sagen, ripresi magari dalle motovedette libiche, stanno morendo nei centri di detenzione in Libia ?

Si deve infine osservare che anche nelle acque territoriali libiche, ove mancassero mezzi della Guardia costiera di Tripoli, o di altre città, sarebbero del tutto legittimi interventi di navi di altri paesi se questo fosse necessario per salvare vite umane in mare, soltanto con l’obbligo di avvertire le autorità dello stato, nel caso della Libia, della Guardia costiera con base a Tripoli. Durante l’operazione Mare Nostrum( 2014) e poi nei primi tempi dell’intervento delle ONG (2016), ma anche da parte delle imbarcazioni di Frontex dell’operazione TRITON, molte operazioni di soccorso si erano svolte al limite delle 12 miglia dalla costa, se non proprio in acque territoriali libiche. E nessuno era stato denunciato per questo doveroso rispetto delle Convenzioni internazionali.

Ritorneremo in seguito sulle ulteriori contestazioni rivolte alla Open Arms, che non avrebbe sbarcato come richiesto dal Comando IMRCC i naufragi  addirittura in Spagna, paese di bandiera della nave, se non a Malta. Anche se nei mesi scorsi, ed è ampiamente dimostrabile, Malta aveva negato proprio ad una nave di Open Arms lo sbarco di naufraghi soccorsi in acque internazionali a nord della Libia. Fatti, non supposizioni, come quelle addotte dalla Procura di Catania, da un anno ed ancora alla ricerca di prove per riformulare l’accusa di associazione a delinquere per operatori umanitari “colpevoli” di avere scrupolosamente osservato Convenzioni internazionali che le autorità statali ordinavano di violare.

Tra queste, se si fosse obbedito alle intimazioni dei libici, “coordinati” dalla Marina militare italiana, come ammette più tardi lo stesso GIP di Catania, si sarebbe dovuto violare anche il principio di non respingimento affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, in quanto la consegna delle persone già a bordo dei mezzi spagnoli, richiesta dai libici con l’avallo delle autorità italiane, avrebbe esposto a gravissimi abusi ed a altre atroci sofferenze le persone riportate nei centri di detenzione libici, in un momento di grave instabilità politica e militare del paese, che riduce tutti i migranti in transito a merce di scambio.

E’ lo stesso Giudice delle indagini preliminari di Catania che, senza qualificarlo come tale, tratteggia i connotati di un respingimento collettivo effettuato su ordine delle autorità italiane, che avevano inizialmente assunto la responsabilità SAR e dunque avevano esercitato per una prima frazione temporale una piena giurisdizione sulle persone soccorse in acque internazionali.

Scrive il GIP di Catania : La Difesa di A. I M. M. poi, a giustificazione della condotta della ONG e degli indagati in merito alla mancata consegna dei migranti ai libici, richiama il principio di non refoulement (divieto di respingimento), sancitodall’art. 33 della Convenzione di Ginevra.
Anche questa eccezione non può essere condivisa, poiché le motovedette libiche erano intervenute per effettuare una operazione di soccorso, come richiesto da IMRCC di Roma e sotto l’egida italiana con le navi militari di stanza a Tripoli, e perciò non si può parlare minimamente di respingimento, ma solamente di soccorso e salvataggio in mare.

In realtà quanto riconosciuto dal GIP di Catania “ le motovedette libiche erano intervenute per effettuare una operazione di soccorso, come richiesto da IMRCC di Roma e sotto l’egida italiana con le navi militari di stanza a Tripoli”, rende chiaramente gli assetti operativi concordati tra la Guardia costiera di Tripoli e le autorità italiane ( Marina militare e IMRCC di Roma), al punto  di configurare una precisa responsabilità italiana sotto il profilo della violazione del divieto  di non respingimento ( art. 33 della Convenzione di Ginevra) e del divieto di respingimenti collettivi previsto dall’art. 4 del Quarto protocollo allegato alla CEDU.

La costruzione proposta dal giudice catanese, in buona misura corrispondente con la impostazione politica che ha portato al Memorandum d’intesa con la libia del 2 febbraio 2017, e poi al Codice di condotta Minniti, che comunque non può essere considerato neppure “normativa secondaria“, perché privo di qualsiasi effetto normativo, potrebbe reggere soltanto se la Libia intera, e non solo una sua piccola parte, aderisse alla Convenzione di Ginevra e la applicasse effettivamente, e se i suoi porti fossero qualificabili come place of safety, qualificazione esclusa da numerosi rapporti delle Nazioni Unite, da testimonianze giornalistiche concordanti, e soprattutto dai corpi delle persone che continuano a fuggire dalla Libia, corpi che testimoniano più di mille parole, abusi, stupri, riduzione in schiavitù, commercio di esseri umani.Se si arriverà alla celebrazione di un processo a Ragusa, o se la Procura di Catania volesse rilanciare l’accusa di associazione per delinquere, le testimonianze ed i riscontri dottrinali non mancheranno.

Le immediate finalità di soccorso sono state ancora una volta sottomesse alle esigenze di intercettazione in alto mare e di riconduzione nei porti libici. Almeno nel caso del gommone che i libici sono riusciti a bloccare ed a svuotare, riportando a terra i suoi sfortunati occupanti. Il coordinamento che emerge tra la Guardia costiera italiana, nel suo Comando centrale (IMRCC) , la Marina militare con una nave presente nel porto di Tripoli, e la sedicente Guardia costiera “libica” potrebbe poi configurare un vero e proprio respingimento collettivo attuato anche direttamente dall’Italia, vietato dall’art.4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU. Se infatti per la configurazione di un respingimento collettivo, in base a quanto affermato dalla Giurisprudenza della Corte di Strasburgo, occorre che i migranti siano soggetti alla potestà esclusiva del paese che respinge, in questo caso l’Italia, la circostanza che le persone siano a bordo di imbarcazioni coinvolte in attività SAR inizialmente coordinate da autorità italiane, le sottopone alla piena giurisdizione dell’Italia, che in questa qualità deve anche garantire un luogo di sbarco nel place of safety più vicino, e non nel porto più vicino. Ed è l’Italia che deve garantire il rispetto del principio di non refoulement (respingimento) affermato dalla Convenzione di Ginevra (art.33) e del divieto di respingimenti collettivi, oltre che il divieto di trattamenti inumani o degradanti, pure sanciti dalla CEDU.

Quando le autorità italiane cedono la responsabilità SAR inizialmente assunta alle autorità libiche, con riferimento alle persone che, trovandosi a bordo di gommoni in acque internazionali, ricadono già sotto la sua giurisdizione esclusiva, indipendentemente dallo stato di bandiera dei mezzi  civili o militari che vengono soccorsi nel soccorso, realizzano tutti gli estremi di una consegna (rendition) di quelle stesse persone alle autorità di un paese che non garantisce un luogo di sbarco sicuro, che non aderisce alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, nel quale sono note le collusioni tra autorità statali e trafficanti, e che da ultimo si trova in una fase di conflitto armato e di gravi violazione dei diritti umani anche ai danni della popolazione libica.

Quanto emerge già negli atti prodotti dalla Procura di Catania, e quanto ancora emergerà nel corso del successivo processo che si svolgerà adesso a Ragusa, esclude qualsiasi collusione tra i trafficanti o gli scafisti libici e gli imputati che hanno solo rispettato le norme cogenti di diritto internazionale. Per chi viene riportato in Libia la sorte è segnata. Semmai emerge, e dovrà approfondirsi una seria attività di indagine in questa direzione, la collusione tra i comandi militari italiani ubicati in Libia a bordo della nave Capri dell’operazione Nauras, la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC), e le diverse autorità libiche che si autodefiniscono Guardia costiera libica, rispondendo in realtà più che ad u unico stato ai governi di diverse città, nel caso che ricorre qui, al governo Serraj a Tripoli, l’unico riconosciuto dalla Comunità internazionale, ma evidentemente in grado di controllare solo una parte del territorio e delle coste libiche.